Una preghiera fatta da un bambino

Una preghiera fatta da un bambino

Un bambino pensando una preghiera, disse così:
“Signore questa notte ti chiedo una cosa speciale…

Trasformami in una televisione,

così che io possa occupare il suo posto.
Mi piacerebbe vivere come vive la televisione di casa mia.
In altre parole avere una stanza speciale per riunire tutti i membri della mia famiglia attorno a me.

Essere preso sul serio quando parlo.

Fa che io sia al centro dell’attenzione così che tutti mi prestino ascolto senza interrompermi né discutere.
Mi piacerebbe provare l’attenzione particolare che riceve la televisione quando qualcosa non funziona…
E tener compagnia a mio papà quando torna a casa, anche quando è stanco dal lavoro.

E che mia mamma, al posto di ignorarmi, mi cerchi quando è sola e annoiata.

E che i miei fratelli e sorelle litighino per poter stare con me…
E che possa divertire tutta la famiglia, anche se a volte non dica niente.
Mi piacerebbe vivere la sensazione di chi tralascia tutto per passare alcuni momenti al mio fianco.
Signore non ti chiedo molto.
Solo vivere come vive qualsiasi televisione.”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il ponte (Un contadino ed il suo bambino)

Il ponte
(Un contadino ed il suo bambino)

Un contadino ed il suo bambino erano in cammino verso un paese vicino, per la fiera annuale.
La strada passava sopra un ponticello di pietra sgretolato e traballante per il fiume in piena.
Il bambino si spaventò.
Papà, pensi che il ponte reggerà?” domandò.

Il padre rispose:

“Ti terrò per mano, figlio mio!”
Ed il bambino mise la sua mano in quella del padre.
Con molta cautela attraversò il ponte a fianco di suo padre e giunsero a destinazione.
Ritornarono che calava la sera.
Mentre camminavano, il piccolo chiese:

“E il fiume, papà?

Come faremo ad attraversare quel ponte pericolante?
Ho paura!”
L’uomo forte e robusto prese in braccio il piccolino e gli disse:
“Resta qui fra le mie braccia e sarai al sicuro!”
Mentre il contadino avanzava con il suo prezioso fardello, il bambino si addormentò profondamente.

Il mattino seguente il piccolo si svegliò e si ritrovò sano e salvo nel suo lettino.

La luce del sole filtrava attraverso la finestra.
Non si era neppure accorto di essere stato trasportato al di là del ponte, sopra il torrente impetuoso.

Brano tratto dal libro “La vita è tutto quello che abbiamo.” di Bruno Ferrero. Edizioni Elledici.

Il primo fiore


Il primo fiore

In un paesino di montagna c’è un’usanza molto bella.
Ogni primavera si svolge una gara tra tutti gli abitanti.
Ciascuno cerca di trovare il primo fiore della primavera.

Chi trova il primo fiore sarà il vincitore e avrà fortuna per tutto l’anno.

A questa gara partecipano tutti, giovani e vecchi.
Quest’anno, quando la neve iniziò a sciogliersi e larghi squarci di terra umida rimanevano liberi, tutti gli abitanti di quel paesino partirono alla ricerca del primo fiore.
Per ore e ore iniziarono a cercare alle pendici del monte, ma non trovarono alcun fiore.
Stavano già ritornando verso casa quando il grido di un bambino attirò l’attenzione di tutti:
“È qui! L’ho trovato!”

Tutti accorsero per vedere.

Quel bambino aveva trovato il primo fiore, sbocciato in mezzo alle rocce, qualche metro sotto il ciglio di un terribile dirupo.
Il bambino indicava col braccio teso giù in basso, ma non poteva raggiungerlo perché aveva paura di precipitare nel terribile burrone.
Il bambino però desiderava quel fiore anche perché voleva vincere la gara.
Cinque uomini forti portarono una corda.
Intendevano legare il bambino e calarlo fino al fiore.
Il bambino però aveva paura.
Aveva paura che la corda si rompesse e di cadere nel burrone.

“No, no!” diceva piangendo, “Ho paura!”

Gli fecero vedere una corda più forte e quindici uomini che l’avrebbero tenuto.
Tutti lo incoraggiavano.
Ad un tratto il bambino cessò di piangere.
Tutti fecero silenzio per sentire che cosa avrebbe fatto il bambino.
“Va bene!” disse il bambino, “Andrò giù se mio padre terrà la corda!”

Brano senza Autore, tratto dal Web

L’amore di un bambino per la mamma e la sorellina

L’amore di un bambino per la mamma e la sorellina

Stavo camminando in un negozio di Big Bazar, quando vidi un cassiere parlare con un bambino che poteva avere non più di 5 o 6 anni.
Il cassiere disse:
“Mi dispiace, ma non hai abbastanza soldi per comprare questa bambola.”
Poi il bambino si rivolse al cassiere e chiese:
“Sei sicuro che io non abbia abbastanza soldi?”
Il cassiere contò ancora una volta il suo denaro e rispose:
“Lo sai che non hai abbastanza soldi per comprare la bambola, mio caro.”
Il ragazzino aveva ancora in mano la bambola.
Alla fine, mi incamminai verso di lui e gli chiesi a chi voleva dare questa bambola.

“È la bambola che mia sorella amava di più e voleva tanto.

Volevo regalargliela per il suo compleanno.
Devo dare la bambola alla mia mamma in modo che possa darla a mia sorella quando andrà là.”
I suoi occhi erano così tristi mentre diceva questo.
“Mia sorella è andata a stare con Dio…
Papà dice che anche la mamma vedrà Dio molto presto, così ho pensato che potesse portare con sé la bambola per darla a mia sorella…”
Il mio cuore si era quasi fermato.
Il ragazzino mi guardò e disse:
“Ho detto a papà di dire alla mamma di non andare ancora.
Ho bisogno che lei aspetti finché non torno dal centro commerciale.”
Poi mi ha mostrato una foto molto bella di lui dove stava ridendo.

Poi mi disse:

“Voglio che la mamma le porti la mia foto, così la mia sorella non mi dimenticherà!
Amo la mia mamma e vorrei che non dovesse lasciarmi, ma papà dice che deve andare a stare con la mia sorellina.
Poi guardò di nuovo la bambola con gli occhi tristi, molto tranquillamente.”
Ho rapidamente raggiunto il mio portafoglio e ho detto al bambino:
“Controlliamo di nuovo se hai abbastanza soldi per la bambola?”
“Ok!” disse, “Spero di averne abbastanza!”
Ho aggiunto alcuni dei miei soldi a lui senza che lui lo vedesse e abbiamo iniziato a contarli.
C’era abbastanza per la bambola e anche qualche soldo in più.
Il bambino disse:
“Grazie a Dio per avermi dato abbastanza soldi!”

Poi mi guardò e aggiunse:

“La scorsa notte, prima di andare a dormire, chiesi a Dio di avere abbastanza soldi per comprare questa bambola, così che la mamma potesse darla a mia sorella.
Mi ha ascoltato!
Volevo anche avere abbastanza soldi per comprare una rosa bianca per la mia mamma, ma non osavo chiedere troppo a Dio.
Ma mi ha dato abbastanza per comprare la bambola e una rosa bianca.
La mia mamma ama le rose bianche!”
Ho finito i miei acquisti in uno stato completamente diverso da quando ho iniziato.
Non riuscivo a togliermi dalla testa il ragazzino.
Poi, due giorni fa, mi sono ricordato di un articolo di un giornale locale che parlava di un ubriaco in un camion, che ha investito un’auto occupata da una giovane donna e una bambina.

La bambina morì subito e la madre fu lasciata in uno stato critico.

La famiglia dovette decidere se staccare la spina dalla macchina che la tenesse in vita, perché la giovane donna non sarebbe stata in grado di riprendersi dal coma.
Era questa la famiglia del bambino?
Due giorni dopo questo incontro con il bambino, ho letto sul giornale che la giovane donna era morta.
Non riuscivo a fermarmi quando comprai un mazzo di rose bianche e andai alle pompe funebri dove il corpo di la giovane donna è stata esposta perché le persone potessero vedere e fare gli ultimi saluti prima della sua sepoltura.
Era lì, nella sua bara, con in mano una bella rosa bianca con la foto del bambino e la bambola appoggiata sul suo petto.
Ho lasciato il posto, con le lacrime agli occhi, sentendo che la mia vita era cambiata per sempre..
L’amore che il bambino ha avuto per sua madre e sua sorella è ancora oggi difficile da immaginare.
E in una frazione di secondo, un guidatore ubriaco gli aveva tolto tutto questo.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Ancora cinque minuti papà!

Ancora cinque minuti papà!

Una donna si avvicinò ad un uomo seduto sulla panchina di un parco giochi.
“Quel bambino con la maglietta rossa sullo scivolo è mio figlio.” disse lei.
“È un bravo bambino.
Mia figlia invece è quella bambina in bicicletta, con il vestito bianco.” rispose l’uomo.
Poco dopo, guardando l’orologio, il padre della piccola si alzò per andare via:

“Che ne dici Melissa, ce ne andiamo?”

La figlia rispose pregandolo di rimanere ancora altri cinque minuti al parco.
Senza dire altro, l’uomo annuì tornando a sedersi sulla panchina.
I cinque minuti chiesti dalla bambina passarono in fretta e puntuale l’uomo le chiese nuovamente: “Andiamo?”
“Ancora cinque minuti papà, solo cinque minuti!” disse la bambina.
Il papà sorridendo rispose “Okay!”

La donna, stupita della calma dell’uomo gli disse:

“Caspita, lei è davvero un padre molto paziente!”
A quel punto l’uomo sorrise ancora…
“Il fratello di Melissa è stato ucciso da un automobilista ubriaco l’anno scorso.
Non abbiamo trascorso molto tempo insieme, e adesso darei qualunque cosa pur di stare cinque minuti con lui.
Ho promesso a me stesso che non avrei ripetuto quel terribile errore con Melissa…

… Lei crede che le vengano concessi altri cinque minuti per giocare…

La verità è che sono io a concedermi altri cinque minuti per vederla giocare!”

Con poche parole l’uomo è riuscito ad affrontare una questione molto importante:
nella vita non ci si deve mai lasciar sopraffare dagli impegni lavorativi e dalla carriera, a scapito degli affetti e di tutto ciò che è veramente importante.
Spesso non si ha una seconda possibilità!

Brano senza Autore

Il salto nelle braccia di papà

Il salto nelle braccia di papà

Era una famiglia felice e viveva in una casetta di periferia.
Ma una notte scoppiò nella cucina della casa un terribile incendio.

Mentre le fiamme divampavano, genitori e figli corsero fuori.

In quel momento si accorsero, con infinito orrore, che mancava il più piccolo, un bambino di cinque anni.
Al momento di uscire, impaurito dal ruggito delle fiamme e dal fumo acre, era tornato indietro ed era salito al piano superiore.
Che fare?
Il papà e la mamma si guardarono disperati, le due sorelline cominciarono a gridare.

Avventurarsi in quella fornace era ormai impossibile…

E i vigili del fuoco tardavano.
Ma ecco che lassù, in alto, s’aprì la finestra della soffitta e il bambino si affacciò, urlando disperatamente:
“Papà! Papà!”
Il padre accorse e gridò: “Salta giù!”
Sotto di se il bambino vedeva solo fuoco e fumo nero, ma senti la voce e rispose:

“Papà, non ti vedo…”

“Ti vedo io, e basta. Salta giù!” urlò l’uomo.
Il bambino saltò e si ritrovò sano e salvo nelle robuste braccia del papà, che lo aveva afferrato al volo.

Brano tratto dal libro “C’è qualcuno lassù.” di Bruno Ferrero

È arrivato un mostro!

È arrivato un mostro!

Il paese di Dolceacqua era il più sereno e pacifico della terra.
Come scrivono nei loro libri gli scrittori, era un paesino davvero “ridente.”
Tutto procedeva bene finché una notte blu, per le vie deserte, si sentì uno strano “toc toc, toc toc, toc toc…”, accompagnato da un ansimare cupo e raschiante.
Solo qualche coraggioso si affacciò alla finestra.
Un bisbigliare concitato cominciò a rincorrersi dietro le persiane:
“È un forestiero!”
“Un gigante…”
“Mamma mia, quant’è brutto!”
“Ha l’aria feroce…”
“E’ un mostro! Divorerà i bambini!”

Lo sconosciuto camminava curvo sotto il peso di un grosso sacco.

Aveva gli occhi gialli, la barba irsuta e verde, le unghie lunghe e curve.
Ogni tanto era costretto a fermarsi per soffiarsi il naso:
doveva avere un terribile raffreddore.
Ecco perché ansimava e tossiva come un vecchio mantice sforacchiato.
C’era, al fondo del paese, a due passi dal bosco, una profonda caverna nera.
Il mostro, non trovando niente di meglio, ci si installò.
Nell’osteria del paese si riunirono il giorno dopo tutti, anche le nonne, le mamme e i bambini.
“Io l’ho visto bene e da vicino: è terribile!”

“L’ho guardato negli occhi: fanno paura!”

“Sputa fiamme dalle narici!”
“Io ho sentito il suo ruggito: tremo ancora tutta!” gorgheggiò Maria Rosa, la più bella ragazza del paese.
Tutti i giovanotti sospirarono.
“È il diavolo!” disse una nonna.
“Ma che diavolo! È un orco mangia-uomini… poveri noi!” singhiozzò una vecchietta.
“Bhé, se mangia gli uomini, tu non dovresti preoccuparti!” sghignazzò Battista, il buffone del villaggio.
“Io l’ho visto da vicino vicino!” disse Simone, un ragazzetto di dodici anni.
“Anche io… Ero con lui.” gli fece eco la sorellina Liliana.
“Ecco, anche i bambini!” brontolò Sebastiano, il sindaco, “E dite, ditelo voi, come era quel mostro. Faceva paura, non è vero?”
“No!” disse Simone.
“Non faceva paura!” disse Liliana.

E aggiunse: “Era solo diverso da noi!”

Se ne andarono tutti a casa e, mentre camminavano in fretta per le strade silenziose, avevano una gran paura di incontrarsi faccia a faccia con il mostro.
Sbirciavano in su, verso il bosco.
Dove si intravedeva la gran bocca nera della caverna in cui era andato ad abitare il mostro.
Proprio in quel momento, ingigantito dall’eco della caverna, si udì un tremendo, roboante starnuto.
“È il mostro! Aiuto!” e strillando a più non posso tutti si rifugiarono in casa e chiusero a tripla mandata tutte le serrature che trovarono.
Le mamme rimboccarono le coperte ai bambini:
“Non abbiate paura, qui siamo al sicuro!”
I papà chiusero le finestre e misero un robusto randello dietro alla porta.
“Se osa venire da queste parti, dovrà vedersela con noi.”

Nei giorni seguenti, a Dolceacqua, la vita riprese normalmente.

I papà e le mamme al lavoro, i bambini a scuola, Maria Rosa davanti allo specchio a mettere i bigodini ai suoi bei capelli color del grano.
I giovanotti la sbirciavano e sospiravano.
Quasi tutti si erano dimenticati del mostro, che, a onor del vero, non dava fastidio a nessuno.
Solo, ogni tanto, si udiva un rumore terribile.
La gente diceva:
“Ma guarda, il mostro ha starnutito, si è di nuovo raffreddato!” e tornavano alle loro occupazioni.
Un giorno un camion carico di mattoni passò troppo velocemente su una buca della strada e perse due mattoni.
Tommaso, un ragazzino che passava di là, si fermo e ne raccolse uno.
Samuele, un suo amico che usciva dalla scuola, dove si era fermato a finire i compiti, lo vide.
“Ehi, Tom! Che cosa vuoi fare con quel mattone?”
“Ho voglia di andare a tirarlo sulla testa del mostro che abita la caverna nera.
Non abbiamo bisogno di mostri in questo paese!”

Samuele replicò ridendo:

“Scommettiamo che non hai il coraggio?”
Ma Tommaso se ne andava tutto impettito con il suo mattone in mano.
Samuele raccolse l’altro mattone:
“È vero, non abbiamo bisogno di quel mostro, qui.
Aspettami, Tom, vengo con te!”
Tommaso disse:
“D’accordo, ma l’idea è stata mia e sono io che tirerò il primo mattone!”
Un contadino appoggiato alla staccionata del suo prato li vide passare:
“Dove andate?”
Tommaso spiegò:
“Andiamo a buttare questi mattoni sulla testa del mostro che abita lassù, nella caverna nera!”
Il contadino disse:
“Per me non avrete il coraggio.
E poi, come farete a far uscire il mostro dalla caverna?
È sempre rintanato dentro e lo si sente solo starnutire qualche volta!”

“Griderò:

“Vieni fuori, mostro!
Dovrà ben uscire!” dichiarò Tommaso.
Il contadino borbottò:
“Aspettate un attimo, ho un mattone che mi serve a tener aperta la porta; lo prendo e vengo con voi. Non abbiamo bisogno di mostri qui!”
Tommaso, Samuele e il contadino se ne andarono insieme con un mattone sotto il braccio. Passarono accanto all’orto della signora Zucchini.
“Dove andate?” chiese la signora Zucchini quando li vide.
“Andiamo a gettare questi mattoni sulla testa del mostro che abita nella caverna nera!” rispose Tommaso.
La signora Zucchini sogghignò:
“Non ne avrete il coraggio.
Dicono che sia orribile e peloso.
E poi, dopotutto, non dà fastidio a nessuno!”
Tommaso e Samuele protestarono:
“Non importa, non abbiamo bisogno di un mostro qui!”
“Scapperà come un coniglio e noi diventeremo gli eroi del paese!” aggiunse il contadino.
“Vengo anch’io!” decise la signora Zucchini, “Ho qualche mattone in un angolo; chiamerò anche i miei sette figli:

voglio che anche loro siano degli eroi!”

Quando i sette bambini arrivarono, il più grande domandò:
“Non c’è nessuno che voglia abitare nella caverna nera:
perché non la lasciamo al mostro?”
La madre gli rispose:
“Perché è un mostro, tutto qui.
Allora taci, prendi un mattone e seguici!”
Piano piano si formò una lunga coda di gente con un mattone in mano.
Chiudeva la fila il maestro con tutti i bambini della scuola.
Il sindaco ordinò che tutti gli abitanti di Dolceacqua prendessero un mattone dal vicino cantiere e si mettessero in marcia per tirarlo sulla testa del mostro che abitava nella caverna nera.
“Lo faremo scappare nel paese vicino!” gridò la signora Zucchini, “L’abbiamo tenuto abbastanza, noi!
Che vada a disturbare gli altri, adesso!”
Tutti gridarono:
“Urrà, bene!
Non abbiamo bisogno di mostri in questo paese!”

E si misero in marcia verso la caverna nera.

Proprio quel giorno, il mostro aveva deciso di pigrottare un po’ di più a letto e di terminare il suo libro preferito, facendo colazione con succo d’arancia e due uova al tegamino.
Improvvisamente sentì un rumore di passi e il vociare di persone che si avvicinavano e pensò: “Finalmente una visita!
È tanto tempo che sono solo!”
Saltò giù dal letto, si mise una camicia pulita e la cravatta, si lavò ben bene anche dietro le orecchie e si pulì i denti con spazzolino e dentifricio.
Poi aprì la porta e uscì, salutando tutti con un gran sorriso.
Tutti gli abitanti di Dolceacqua si fermarono impietriti:
Tommaso, Samuele, il contadino, la signora Zucchini e i suoi sette figli, i vicini, il sindaco, il maestro e i bambini della scuola.
Sembravano delle belle statuine.
Il mostro sorrise ancora e li invitò:
“Entrate, entrate.
Ho appena fatto il caffè!”

Tutti i suoi denti brillavano, ne aveva tanti e molto appuntiti.

Il mostro insisteva: “Entrate, per piacere, sono così contento di vedervi!”
Ma nessuno capiva la lingua del mostro.
Sentivano solo dei terribili grugniti e dei suoni che facevano accapponare la pelle.
Lasciarono cadere i mattoni e se la diedero a gambe, correndo a più non posso.
Nella confusione la piccola Liliana si prese una brutta storta alla caviglia, ma nessuno senti il suo “Ahia!”
Erano tutti troppo occupati a fuggire.
Così il mostro si trovò, un po’ imbarazzato, a contemplare un mucchio di mattoni e una bambina con i lacrimoni perché aveva male alla caviglia.
Il mostro corse in casa e prese la valigetta del pronto soccorso.
In quattro e quattr’otto, spalmò sulla caviglia di Liliana la pomata “Baciodimamma” che fa guarire tutto, la fasciò con cura e asciugò le lacrime della bambina.
Intanto gli abitanti erano arrivati ansimanti nella piazza centrale.
Non ebbero tempo di riprendere fiato.

Una voce gridò:

“Il mostro ha preso Liliana!”
“Se la mangerà!” strillò la signora Zucchini.
“Corriamo a liberarla!” disse un coraggioso.
Ripresero tutti la strada della caverna nera.
Ben decisi stavolta a liberare la piccola Liliana.
Quando arrivarono trovarono il mostro e Liliana che giocavano a dama, ridendo, scherzando e bevendo una cioccolata calda dal profumo delizioso.
“Ooooh!” dissero tutti insieme.
“Ah! Siete tornati, meno male!” disse il mostro, “Non ero riuscito a ringraziarvi del vostro splendido regalo.
La caverna è umida e malsana e perciò sono sempre raffreddato.
Con i mattoni che mi avete portato mi costruirò una bella casetta.
Grazie, davvero, di cuore!”
Chissà come, questa volta la gente capì il discorso del mostro.
E lo aiutarono tutti a costruire una graziosa casetta in fondo al paese.
Il più felice era Tommaso, che alla fine disse:
“Avete visto che ho fatto uscire il mostro dalla caverna nera?”

Brano tratto dal libro “Nuove storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero

L’aquilone

L’aquilone

Un padre mette sempre a disposizione la sua allegria, la sua inventiva, la sua esperienza per trascorrere dei bei momenti con i propri figli.
Questo è un dono talmente meraviglioso che ogni gioco e ogni attività si trasformano per i ragazzi in appassionanti avventure.
L’aquilone, che con cannucce, carta da pacchi e colla il padre confeziona per i bambini, quando si libra nel cielo può quasi sembrare il simbolo di una situazione magica di rapporti fra padre e figli.

Uno Scoglio d’Isola rappresentò per varie estati la realizzazione dei nostri sogni di ragazzi, quando dall’obbligo e dalla fatica della scuola la nostra immaginazione correva alla libertà delle vacanze.

Ma una di quelle estati, tutte belle, fu per noi specialmente splendida:

l’estate in cui nostro padre, che di solito stava con noi per pochi giorni, decise di prendersi anche lui una vacanza completa.
Diventava un nostro compagno maggiore, la nostra guida; noi ci affidavamo a lui, come una vela s’affida al vento favorevole, come una squadra s’affida al suo capo geniale.
La casetta in cui abitavamo, si trasformava in certi giorni in una officina; i campi delle nostre gesta erano il gran prato sopra lo scoglio e lo specchio di mare davanti ad esso.
Un giorno papà veniva a casa con un mazzo di canne palustri e da queste, con arte, egli ricavava per noi fischietti, piccoli zufoli e schizzetti:
per una settimana, con disperazione della mamma, noi assordavamo l’aria di fischi e nessun passaggio all’aperto era più al sicuro dai nostri spruzzi.
Un altro giorno vedevamo papà manipolare misteriosamente ogni sorta di stracci; noi eravamo stati sguinzagliati a procurargliene e non gli bastavano mai:
ne venne fuori, con nostra gioia e sorpresa, una bella palla vibrata, cucita solidamente, con un forte manico di stoffa.

Non appena il sole declinava un poco, eravamo sul prato,

divisi in due squadre opposte, a lanciarci la palla e a farci sotto per afferrarla a volo; e che urti, certe volte, da stramazzare a terra!
I primi giorni, nell’entusiasmo, il sole tramontava e noi eravamo ancora sudati e pesti ad accanirci nel gioco, senza neppure udire i ripetuti richiami che ci invitavano a rientrare in casa per la cena.
Quell’anno delle meraviglie fu anche Panno delle nasse.
Papà, che era andato a Trieste, tornò una sera con due strane gabbie di fil di ferro lucido; noi, andati a prenderlo al vaporetto, gli saltammo intorno inebriati dalla novità e dietro a noi gli altri ragazzi dell’isola, curiosi di vedere e di toccare quelle belle nasse (antichi attrezzi da pesca), fiammeggianti, di tipo tanto diverso dalle vecchie di vimini a cui erano abituati.
Il giorno dopo, visto il tramonto, prese tutte le precauzioni e determinato ben bene il posto davanti allo Scoglio, dalla barca calammo a fondo le nasse.
Quella notte non dormimmo, nell’attesa dell’alba, per tirarle di nuovo su.
Fu veramente un entusiasmo di gioia quando, nel risollevarle a bordo, vedemmo dentro quelle gabbie dibattersi un mucchio di pesci fra i quali molte bellissime varietà di sarago ed un’orata di un quarto di chilo.

Ma il divertimento delle nasse durò ben poco.

Un brutto giorno, cerca e ricerca, perdemmo due ore a scandagliare il fondo inutilmente:
le nasse, che facevano troppa gola anche ai pescatori, ci erano state rubate.
A consolare il nostro dolore venne presto un’altra trovata di nostro padre.
Una mattina lo vedemmo davanti la casa, affaccendato con grandi fogli di carta d’impacco, con lunghe stecche ricavate da canne con barattoli di colla, di farina, con gomitoli di spago.
Fu una giornata indimenticabile; il lavoro durò ininterrotto per ore ed ore.
Il risultato fu un aquilone spettacolare, robusto come un aeroplano, con una coda lunghissima e, per reggerlo, un gomitolo di spago sforzino che non ci stava nelle mani.
Trasportammo il drago sul prato, come un trofeo.
I nostri cuori battevano, quando papà ci dette tutte le istruzioni per il via.
Noi dovevamo sollevare quel drago enorme quanto più in alto potessimo, reggergli la lunghissima coda e, a un suo ordine, mollare tutto,
Lui, che teneva il grosso gomitolo dello spago, dopo aver spiato il vento prese a un tratto la rincorsa in direzione opposta e ci gridò di mollare.
Trepidanti seguimmo il mostro, che barcollò, poi trasportato dal vento, cominciò a salire, salire e ad allontanarsi nel cielo.
Fra lo stupore commosso di tutti noi, si levò più su del campanile.
Lo vedevamo piccolo come un falchetto, superbo nel volo, e il filo vibrava e noi facevamo fatica a trattenerlo.
Il nostro aquilone fu per parecchi giorni la meraviglia d’Isola e tutti venivano sullo Scoglio a vederlo.

Brano di Giani Stuparich

Il Re che non sapeva ascoltare

Il Re che non sapeva ascoltare

C’era una volta un Re che non sapeva ascoltare.
Quando i suoi sudditi si rivolgevano a lui, li interrompeva non appena aprivano bocca e gridava: “Va bene, va bene, ho capito!
Ti credo!
Guardie, dategli mille monete d’oro!”
Oppure:
“Basta, basta, non ti credo!
Guardie, frustatelo e buttatelo fuori di qui!”
Insomma, il Re era un tipo lunatico e agiva secondo il suo umore.
Non voleva saperne di ascoltare, e quindi era buono e generoso con le persone sbagliate, e viceversa.

I sudditi lo sapevano bene, cercavano di girare alla larga dal castello e speravano ardentemente di non aver mai niente a che fare con il re.

Ma quelli che ci rimettevano più degli altri erano la sua povera moglie e i due principini, perché il re non solo non li ascoltava, ma giudicava stupido e senza senso tutto quello che loro dicevano.
Li criticava continuamente e non prestava mai attenzione alle loro parole, neppure quando gli parlava con la voce del cuore e dell’affetto.
Se, per esempio, la principessina Adelaide si avvicinava al regale papà per mostrargli il disegno fatto a scuola, dicendo timidamente:
“Papà, guarda questo…” il re la interrompeva con aria infastidita e borbottava:
“Va bene, va bene eccoti una moneta d’oro…”
Se il principino Roberto osava chiedere:
“Dove vanno quelli che muoiono?” il regale papà lo zittiva dicendo:

“Piantala con queste stupidaggini!”

Un giorno, il re e la regina litigarono furiosamente, e dal momento che la donna ribadiva le sue ragioni, il re la spinse giù dal trono.
Poi si mise a spiegare alla moglie che se le aveva fatto del male era per il suo bene, e che avrebbe dovuto ringraziarlo, per questo.
La regina, profondamente offesa e indignata, con le ossa rotte e doloranti, gli lanciò una terribile maledizione:
“Che te ne fai di due orecchi, dal momento che non ascolti mai nessuno?
Tu non fai che parlare: bla, bla bla e ancora bla!
Vorrei che ti cadessero le orecchie e che ti venissero due bocche!”
Il Mago Cavatorti, lontano parente della regina, si trovava per caso nelle vicinanze e sentì la maledizione della donna.
Conosceva il re, e sapeva di cosa era capace.
Così, impietosito dalla triste sorte della regina, esaudì il suo desiderio.

Il Mago si presentò al re e gli agitò sotto il naso la nodosa bacchetta di legno di nespolo.

Il re che non voleva mai ascoltare cadde in un sonno profondo, e quando si risvegliò si ritrovò con due bocche identiche, una accanto all’altra, e un orecchio minuscolo sulla fronte, vagamente simile a un cece.
Le altre due orecchie, invece, giacevano sul cuscino come foglie secche.
All’inizio, il re ringraziò il Mago per quel bellissimo regalo.
Adesso poteva parlare più velocemente e ad alta voce.
Ma ben presto si rese conto che non riusciva più a stare zitto.
Parlava, parlava sempre, senza un attimo di tregua.
E mentre beveva e mangiava con una bocca, con l’altra continuava a parlare.

Per i poveri sudditi le cose peggiorarono.

Se prima non ascoltava, adesso il re non faceva che straparlare e interrompere gli altri.
E la moglie che già non sopportava una bocca del marito, con la seconda non ce la faceva proprio più.
Inoltre, il re ora russava il doppio, e la notte non le faceva chiudere occhio.
Con il passare del tempo, il re cominciò ad ascoltare solo le sue due voci, ed amici e nemici presero ad evitarlo come la peste.
Insomma, era insopportabile.
Anche gli affari di stato peggiorarono.
Quando arrivavano gli ambasciatori dei regni vicini con i messaggi dei loro sovrani, il re non prestava la minima attenzione alle loro parole, anzi se quelli parlavano di “terra” capiva “guerra”, se dicevano “doni” pensava ai “cannoni.”
Così, poco alla volta, tutti lo abbandonarono.

Il re fu avvolto da una terribile solitudine e cominciò a rendersi conto dei suoi errori.

Decise che da allora in poi avrebbe tenuto sempre conto della dura lezione che il Mago gli aveva impartito.
Adesso teneva la bocca, anzi le due bocche chiuse, e con il suo piccolo orecchio si sforzava di ascoltare meglio di quando ne aveva due.
In cuor suo, anzi, sperava che il Mago tornasse con la sua bacchetta di nespolo per ridargli le sue due orecchie, che ora rimpiangeva con tutte le sue forze.
Passarono gli anni e la regina cominciò a provare una gran pena per il marito.
Persino i sudditi e i sovrani dei regni vicini avevano dimenticato l’astio che avevano sempre provato nei suoi confronti e si auguravano che venisse perdonato.
Ma trascorsero parecchi anni prima che il Mago Cavatorti si decidesse a tornare da lui.
“Riconosci i tuoi errori?” gli chiese, scuro in volto.

Il re annuì.

“E faresti qualsiasi cosa pur di avere due orecchi e una bocca?”
Il re era pronto a tutto.
Il Mago agitò la sua bacchetta al contrario e il re si ritrovò con una bocca sola e due splendidi orecchi nuovi.
Invece di ricominciare come prima, si fermò ad ascoltare il canto degli uccelli, la musica del vento, le voci dei bambini.
Era la prima volta e gli vennero le lacrime agli occhi per la commozione.
La regina, il principe Roberto e la principessa Adelaide lo abbracciarono e gli dissero:
“Ti vogliamo bene!”
Il re pensò che non aveva mai sentito niente di più bello in tutta la sua vita e che era stato proprio stupido a non accorgersene prima.

Brano di Bruno Ferrero

Lettera di una studentessa universitaria

Lettera di una studentessa universitaria

Qualche anno fa, quando ancora non erano diffusi i telefoni cellulari ed i social network, uno dei mezzi di comunicazione più comuni erano le lettere.
Questa storia descrive una comunicazione di una studentessa alla propria famiglia attraverso una lettera.

Cari mamma e papà,
sono ormai tre mesi che sono ritornata all’università e non ho ancora trovato il tempo per scrivervi.
Mi scuso per avervi trascurato ma ora vi voglio raccontare tutto.
Prima di leggere però, sedetevi.
Mi raccomando non continuate a leggere prima di esservi messi seduti, d’accordo?

Ora sto abbastanza bene.

La frattura ed il trauma cranico che mi sono provocata saltando dalla finestra del dormitorio in fiamme, poco dopo il mio arrivo, sono ormai quasi guariti.
Sono rimasta all’ospedale solo due settimane e la vista mi è ritornata quasi normale.
Anche le forti emicranie che mi colpivano in continuazione non le ho più che una volta alla settimana.
Fortunatamente il garzone del benzinaio che è in fondo alla strada aveva visto tutto.
È lui che ha avvisato i pompieri e chiamato l’ambulanza.
È anche venuto spesso a trovarmi all’ospedale e poiché dopo l’incendio non sapevo dove alloggiare, è stato così gentile da propormi di andare ad abitare da lui.
In realtà non è che una cameretta in un sottoscala ma è piuttosto carina.
Lui è un ragazzo formidabile e ci siamo subito innamorati.

Abbiamo deciso di sposarci:

non abbiamo ancora fissato la data del Matrimonio ma lo faremo di sicuro prima che il mio pancione cominci a vedersi.
E sì, cari mamma e papà, sono incinta.
Io so bene a qual punto voi eravate ansiosi di diventare nonni e sono sicura che accoglierete questo bambino con tutto l’amore e la tenerezza che mi avete riservato quando ero piccola.
La sola cosa che ritarda la nostra unione è la piccola infezione che ha il mio fidanzato e che ci impedisce di effettuare le analisi prematrimoniali.
Anche io, scioccamente, mi sono fatta contagiare ma tutto si risolverà presto con le iniezioni di penicillina che faccio ogni giorno.
So bene che accoglierete questo ragazzo a braccia aperte nella nostra famiglia.
È una persona molto gentile e, sebbene non abbia fatto molti studi, è molto ambizioso.
Anche se non è della nostra stessa razza e religione, conoscendo la vostra larghezza di idee sono certa che non darete alcuna importanza al fatto che la sua pelle sia un po’ più scura della nostra. Sono sicura che lo amerete come io lo amo.

Anche i suoi genitori sono gente per bene:

sembra che suo padre sia un famoso mercenario nel villaggio africano dove è nato.

Bene, ora che avete letto tutto, dovete sapere che non c’è stato alcun incendio al dormitorio, non ho avuto né frattura cranica né commozione cerebrale, non sono andata all’ospedale, non sono incinta, non sono fidanzata, non ho la sifilide e non ci sono uomini dalla pelle scura nella mia vita.
È solo che sono stata bocciata in Storia e Filosofia e in questa occasione mi è sembrato opportuno aiutavi a riflettere sulla relatività delle cose.
Vi saluto e vi abbraccio forte forte.

Brano senza Autore, tratto dal Web