I fagioli del diavolo

I fagioli del diavolo

I parenti di una giovane donna avevano organizzato delle nozze combinate tra la stessa ed un contadino molto più anziano di lei.
La motivazione di questo matrimonio si poteva trovare nel fatto che il contadino anziano possedesse molti beni e, conseguentemente, potesse garantire alla ragazza una vita agita.
In attesa del ritorno del marito dai campi, la giovane donna trascorreva diverse ore in compagnia di un ex garzone di cui si era profondamente innamorata.

Usava ogni stratagemma per evitare di cucinare al marito, asserendo che dovesse andare da amiche o in chiesa.

Però, non era emotivamente tranquilla, difatti il marito iniziava a sospettare che qualcosa non andasse, non trovando, sempre più spesso, la cena pronta.
Una vecchia megera, che ogni tanto bussava alla sua porta per leggerle la mano e lucrarle del buon vino ed un pezzo di focaccia, dopo qualche tempo, entrò in confidenza con la giovane ragazza, che le raccontò le sue pene d’amore.

L’anziana signora le suggerì di cucinare, nei giorni degli incontri con il suo spasimante, un bel minestrone di fagioli, il famoso “acceca mariti”.

Questo minestrone necessita di una lunga e lenta cottura in un pentolone, dove la fretta non serve.
In questo modo, si sarebbe potuta assentare per continuare la tresca amorosa senza destare sospetti.
Il marito, al ritorno dai campi, capendo poco di cucina e vedendola accaldata, la lodò per essere stata costantemente al focolare per preparargli il suo piatto preferito.

Il minestrone “acceca mariti” era preparato con una varietà particolare di fagioli.

Questi venivano, e vengono, chiamati i fagioli del diavolo, per il caratteristico colore nero con delle striature rosse.
Una leggenda veneta vuole che il nero raffiguri il diavolo mentre le striature rosse, presenti nella buccia del legume, simboleggiano le fiamme dell’inferno e la vergogna.
Vergogna che anche la sposa provava nei confronti dell’inconsapevole marito.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Gli auguri meccanici

Gli auguri meccanici

Un giovane, invitato al matrimonio di un amico, fu incuriosito dal gran numero di persone che si recavano a porgere gli auguri agli sposi e ai parenti degli sposi, che in fila li ricevevano.
Aveva notato che ospiti e parenti degli sposi si scambiavano meccanicamente frasi rituali, senza neppure ascoltarsi reciprocamente.
Perciò si mise in fila e, quando arrivò di fronte al primo parente, disse con tono pacato e con il sorriso sulle labbra:

“Oggi è morta mia moglie!”

La risposta fu:
“Mille grazie, molto gentile!”
Ripeté la stessa frase a un altro parente e gli fu risposto:
“Molto gentile, grazie infinite!”
Alla fine arrivò dallo sposo, sempre ripetendo la stessa frase.

Questa volta la risposta fu:

“Grazie.
Adesso tocca a te, vecchio mio!”

Brano senza Autore

Beniamino

Beniamino

Beniamino era un bambino delizioso.
Quando sgambettava nella culla, in mezzo alle lenzuoline e le coperte di raso celesti, sembrava proprio un angioletto.
La mamma, il papà, le nonne e le zie non sì stancavano di vezzeggiarlo e di ripetergli tante parole dolci e carine.
La nonna materna diceva:
“Guardate che piccole graziose orecchie che ha, e come ci sentono bene!
Certamente diventerà un grande musicista!”
La nonna paterna, per non essere da meno, incalzava:
“Osservate piuttosto la sua adorabile boccuccia e come dice bene ‘nghée, ‘nghée.
Sicuramente diventerà un grande poeta!”

La zia Clotilde cinguettava:

“Macché, macché!
Sono i piedini che devono essere ammirati:
sarà un grandissimo ballerino, ve lo dico io che me ne intendo!”
A sentire tutti questi complimenti, i genitori di Beniamino esprimevano tanta soddisfazione, con il cuore gonfio d’orgoglio paterno e materno.
Beniamino cresceva un po’ capriccioso, ma papà, mamma, nonne e zie si consolavano facilmente dicendo:
“Sono tutti così, da piccoli!”
Così arrivò, anche per Beniamino, il momento di varcare, con aria baldanzosa e lo zainetto nuovo, il portone della scuola elementare.
I primi tempi furono felici.
Beniamino si comportava come tutti gli altri:
non era più gentile né più maleducato dei suoi compagni.
Ma con il passare del tempo, la situazione peggiorò.
Beniamino cominciò a trasformarsi.
Piano piano, senza che nessuno se ne accorgesse, divenne cattivo e prepotente.
Si divertiva a far cadere dalla giostra i bambini più piccoli; giocando a calcio nel cortile scalciava più gli avversari che il pallone; trovava sempre qualcuno con cui litigare.

Faceva la “spia” per farsi bello con la maestra.

“Dov’è finito il mio bell’angioletto?” si disperava la mamma di Beniamino, davanti alle note che i maestri gli scrivevano sul diario.
“Uffa!” sbuffava Beniamino, “Ce l’hanno tutti con me!”
Prometteva di migliorare, ma il giorno dopo se n’era già dimenticato.
Alla Scuola Media le cose non migliorarono.
Beniamino diventò un attaccabrighe impertinente.
Imparò a tempo di record tutte le peggiori parolacce e non si faceva certo pregare a ripeterle, specialmente sull’autobus, tanto per sembrare “più grande”.
Le mamme del quartiere minacciavano i figli:
“Guai a te se ti vedo con Beniamino:
è un ragazzaccio!”
Se qualcuno raccontava barzellette sporche, Beniamino era il primo ad ascoltare.
Se c’era da prendere in giro o canzonare qualcuno, Beniamino era del numero.

Aveva pochi amici, ma tutti della sua risma.

La loro impresa preferita era riuscire a rubacchiare qualcosa ai supermercati e poi scappare.
Anche la zia Clotilde, che pure gli voleva bene, si beccò una rispostaccia così volgare, che per il dispiacere fu costretta a mettersi a letto.
“Ma se fanno tutti così!” continuava a ripetere Beniamino, quando qualcuno lo rimproverava.
La cosa strana cominciò quando compì i quattordici anni.
E questa volta Beniamino cominciò a preoccuparsi per davvero.
Durante l’adolescenza il corpo cambia, ma lo specchio rivelava a Beniamino che in lui avvenivano dei cambiamenti inconsueti.
Le sue orecchie si allungavano sempre di più, appuntite verso l’alto, e prendevano una strana grigia pelosità.
I suoi piedi gli prudevano spesso e soprattutto non sopportavano più né calze né scarpe.
Prendevano anch’essi uno strano colorito grigiastro, finché un giorno si trasformarono in due zoccoli d’asino
Beniamino li guardò inorridito.
Ma invece di dire:
“Che cosa mi succede?” si mise a ragliare come un asino, “Ihah! Ihah!”
A quel roboante raglio, tutti i suoi parenti accorsero.
Il povero Beniamino, con le lacrime agli occhi, non sapeva spiegarsi.
“È nell’età del cambiamento di voce.” disse zia Clotilde, ma non ci credeva neppure lei.

Una cosa era certa.

Con quelle orecchie e quegli zoccoli da asino, per non parlare della voce, Beniamino non poteva tornare a scuola.
“Dobbiamo cercare un medico, il più grande che c’è.
Ti saprà certamente guarire!” disse il papà.
Cercarono sulle Pagine Gialle, ma non trovarono nessun medico specializzato nella cura di ragazzi che diventano asini.
Così un mattino freddo e nebbioso, Beniamino lasciò i suoi genitori e la sua casa.
Andava per il mondo a cercare qualcuno che lo guarisse da quella strana malattia che fa diventare animali gli uomini.
Beniamino attraversò il mondo da nord a sud e poi da est a ovest.
Interrogò dottori, stregoni, sciamani, guaritori di tutti i tipi.
Tutti erano molto gentili con lui, ma poi gli dicevano che le sue orecchie pelose erano molto utili contro il freddo, che i suoi zoccoli gli facevano risparmiare le scarpe e che la sua voce era comoda quando la nebbia era fitta fitta.
Passarono sette anni.
Beniamino ora conosceva le lacrime, apprezzava la gentilezza, sapeva quanto ferivano i rifiuti e le villanie.
Senza accorgersene, era diventato un altro.
Ma il suo problema rimaneva.
Stava per rassegnarsi al suo triste destino, quando giunse alla grande villa dei marchesi Bellaspina.
Tutti quelli che vedeva però erano in lacrime.
Piangevano il marchese e la marchesa, singhiozzavano le cameriere, gemeva il maggiordomo, uggiolavano i cani, si lamentavano i gatti.
Uno spettacolo da strappare il cuore.
In un profluvio di lacrimoni, la marchesa spiegò a Beniamino il motivo di tanto dolore:

“Ahinoi!

La nostra bella Rosalia, nostra figlia, è stata rapita.
L’ha portata via il perfido Battistone e l’ha nascosta sulla Montagna del Diavolo, dove nessuno osa salire!”
Beniamino si commosse:
“Non piangete più.
Andrò sulla montagna e la troverò!”
La Montagna del Diavolo era aspra, ma Beniamino era più che mai deciso ad affrontare il bandito.
Tendeva le sue lunghe orecchie d’asino per sentire anche il minimo rumore.
Passando davanti all’imboccatura di una grotta nera e paurosa, percepì un flebile lamento.
Coraggiosamente s’inoltrò nel nero imbuto dove svolazzavano i pipistrelli.
Ora sapeva dove si trovava Rosalia.
Il bandito aveva disseminato sul terreno della grotta taglientissimi pezzi di vetro e chiodi affilati, ma, con i suoi zoccoli d’asino, Beniamino poteva correre, mentre con la sua voce roboante gridava continuamente:
“Ihah! Ihah!”
Gridava con tutte le sue forze, sperando che Rosalia sentisse e gli rispondesse per guidarlo nei mille cunicoli della grande grotta nera.
Tendeva le sue orecchie a destra e a sinistra, finché sentì chiaramente un singhiozzo.
Sfregò un fiammifero su una pietra e vide Rosalia legata a un palo.
Com’era bella!
Beniamino la slegò, poi fece un inchino e mormorò:

“Buongiorno, madamigella, io mi chiamo Beniamino!”

In quel momento si accorse che la sua voce era una bella voce baritonale, perfettamente umana.
Aveva talmente gridato che la sua voce d’asino si era rotta.
Aveva talmente ascoltato che le sue orecchie d’asino erano cadute come foglie morte.
I suoi zoccoli si erano talmente consumati sui pezzi di vetro e sui chiodi che erano spariti.
Al loro posto c’erano due bei piedoni umani.
Al colmo della felicità, ma anche per paura di un improvviso ritorno di Battistone, Beniamino prese in braccio la bella Rosalia e fuggì più veloce che poteva, correndo con i nuovi piedi sul sentiero spianato dai suoi zoccoli.
Quando arrivò a Bellaspina tutti lo abbracciarono e baciarono.
Anche Rosalia naturalmente che, per non essere da meno, lo sposò.
Ebbero tre figli.
Il primo fu ballerino, il secondo musicista e il terzo poeta.
Perché Beniamino e Rosalia vegliarono attentamente che a nessuno di loro crescessero orecchie, zoccoli o voce d’asino.

Brano di Bruno Ferrero

La bambina salvata

La bambina salvata

Una bambina, i cui genitori erano morti, viveva con la nonna e dormiva in una camera al piano di sopra.
Una notte vi fu un incendio nella casa e la nonna perì cercando di salvare la bambina.
Il fuoco si diffuse rapidamente e il primo piano della casa fu ben presto avvolto dalle fiamme.
I vicini chiamarono i pompieri, poi rimasero lì senza poter fare niente, incapaci di entrare in casa visto che le fiamme bloccavano tutti gli ingressi.
La bambina comparve da una finestra del piano di sopra, chiamando aiuto, proprio quando tra la folla si diffuse la notizia che i pompieri avrebbero tardato di qualche minuto, poiché erano tutti impegnati in un altro incendio.
All’improvviso comparve un uomo con una scala, il quale la appoggiò al fianco della casa e scomparve all’interno.

Quando ricomparve aveva fra le braccia la bambina.

Consegnò la bambina alle mani in attesa lì sotto, quindi scomparve nella notte.
Un’indagine rivelò che la bambina non aveva parenti in vita e, alcune settimane più tardi, si tenne in municipio una riunione per stabilire chi l’avrebbe presa in casa e l’avrebbe allevata.
Un’insegnante disse che le sarebbe piaciuto allevare la bambina.
Mise in risalto che le poteva assicurare una buona istruzione.
Un contadino le offrì di crescere nella sua azienda agricola.
Sottolineò che vivere in campagna era sano e ricco di soddisfazioni.
Parlarono altri, che esposero le loro ragioni per le quali fosse vantaggioso per la bambina vivere con loro.

Alla fine il più ricco cittadino si alzò e disse:

“Io posso offrire alla bambina tutti i vantaggi che voi avete menzionato qui, più i soldi e tutto ciò che si può comprare con i soldi.”
Per tutto questo tempo la bambina era rimasta in silenzio, con gli occhi fissi sul pavimento.
“Nessun altro vuole parlare?” domandò il presidente dell’assemblea.
Dal fondo della sala si fece avanti un uomo.
Aveva un’andatura lenta e sembrava soffrire.
Quando giunse davanti a tutti, si mise direttamente di fronte alla bambina e allungò le braccia.
La folla rimase senza fiato.
Le mani e le braccia erano orribilmente sfigurate.

La bambina esclamò:

“Questo è l’uomo che mi ha salvata!”
Con un balzo, gettò le braccia al collo dell’uomo, tenendolo stretto come per salvarsi la vita, come aveva fatto in quella notte fatale.
Nascose il volto nelle spalle di lui e singhiozzò per qualche istante.
Quindi alzo gli occhi e gli sorrise.
“La seduta è sospesa!” disse il presidente.

Brano tratto dal libro “Brodo caldo per l’anima. Volume 2” di Jack Canfield e Mark Victor Hansen

Il regalo per Natale (La maestra e Dini)

Il regalo per Natale
(La maestra e Dini)

Poco prima di Natale, la maestra fece due domande:
“Chi considerate povero fra voi?
E chi dovrebbe ricevere un regalo a Natale?”
I bambini che si consideravano poveri alzarono la mano.

La città era piccola e tutti si conoscevano.

Non solo per nome, ma si sapeva anche dove uno viveva, che cosa faceva, chi erano i suoi parenti e quanti soldi aveva.
Dopo la scuola, la maestra chiamò nel suo ufficio Dini, un bambino di otto anni.
I suoi genitori erano arrivati dall’Africa da poco tempo e tutti sapevano che erano poverissimi.
Lo fece sedere e gli chiese come mai non aveva alzato la mano.

Dini spiegò:

“Perché non sono povero!”
“E chi è povero, secondo te?” domandò la maestra.
“I bambini che non hanno i genitori!” rispose semplicemente il bimbo.
Lei lo fissò sbalordita, in totale silenzio, poi lo congedò.
L’indomani, il padre di Dini tornò a casa con un largo sorriso stampato sulla faccia.
Disse che la maestra era andata a fargli visita sul posto di lavoro.
“Dovremmo essere molto fieri di nostro figlio!” aggiunse, e riferì alla mamma che cosa gli aveva detto l’insegnante.

La Vigilia di Natale, Dini ebbe il suo pacco regalo.

Conteneva due paia di scarpe nuove di zecca: uno per lui e uno per la sorellina.
Non avevano mai avuto un paio di scarpe nuove.
Ma anche non fosse arrivato il regalo, Dini sapeva che la sua era la famiglia più ricca del mondo.

Brano tratto dal libro “25 Storie di Natale + una.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

La cocorita Francesca

La cocorita Francesca

In una giungla piena di suoni e di colori, viveva una cocorita che aveva il carattere festoso e vivace come le sue piume azzurre, verdi, oro e arancione.
Si divertiva a svolazzare nell’intrico dei rami, giocava a nascondino con altri pappagallini colorati e con i bengalini candidi.
Si chiamava Francesca e ovunque arrivava riusciva a comunicare la sua intensa gioia di vivere.
Perfino le scimmie, che non sopportavano cocorite e pappagallini, facevano eccezione per la cocorita Francesca.
Era un uccellino felice, grato di essere vivo e di avere avuto in dono un paio di ali per volare e un bellissimo vestito di piume morbido e screziato.
Ogni mattina, appena il sole irrompeva attraverso lo spesso fogliame, si levava il suo grido:

“È una bellissima giornata!

Forza fratelli, non fate i pigroni, spalancate le ali: il cielo è tutto nostro!”
E incominciava a tracciare arabeschi nell’aria, come un fiore multicolore portato dal vento.
Ma, un brutto giorno, il cielo sulla foresta si fece improvvisamente nero e minaccioso come una palude senza sole.
Un silenzio pesante, pieno di paura, attanagliò le creature della giungla.
Le cocorite si strinsero tremanti le une alle altre, a formare una nube tremante.
Un vento violento afferrò le chiome degli alberi più alti e cominciò a scuoterli come se volesse sradicarli, rovesciando nidi e piccoli pappagallini che non sapevano ancora volare.
Poi cominciò la sarabanda dei tuoni e dei fulmini.
Staffilate di fuoco sibilavano dal cielo e colpivano senza pietà i vecchi tronchi, finché improvvisa si levò una fiamma e un albero centenario prese fuoco, urlando il suo dolore, con i rami nodosi levati verso il cielo come un’ultima disperata invocazione di aiuto.
“Il fuoco!
Si salvi chi può!” tutte le lingue animali della foresta gridarono all’unisono il loro terrore.
Migliaia di animaletti cominciarono a fuggire, ma il fumo acre e impenetrabile toglieva loro il respiro, faceva bruciare gli occhi e impediva crudelmente di vedere le vie di scampo.
La cocorita Francesca volava affannata, cercando di guidare i più piccoli e i più spaventati:
“Di qua!
Correte di qua!

Il fiume è da questa parte!”

Molti animali, sentendo il suo grido, si affrettarono a fuggire verso il corso d’acqua, altri invece finivano intrappolati dal fuoco e dal fumo.
Francesca, invece di mettersi in salvo, come tutti gli uccelli, continuava a sorvolare i più sfortunati, cecando un modo per aiutarli.
La disperazione le suggerì un’idea.
Volò sino al fiume che scorreva ai margini della foresta e lì si immerse nelle acque scure.
Poi riemerse con il corpicino intriso d’acqua e volò sull’inferno di fiamme, scrollando e scuotendo le piume per liberare le gocce d’acqua e farle piovere sulle fiamme.
Incurante del pericolo, sfiorando coraggiosamente le fiamme, tornò indietro e si immerse di nuovo nel fiume.
Poi, via!
“A scagliare il suo carico prezioso sul fuoco che continuava a ruggire.
Piccole gemme piovevano sul rogo.
Una cosa insignificante, ma la cocorita coraggiosa e testarda ripeté più e più volte il suo viaggio tra il fiume e le fiamme.
Le sue belle piume erano tutte bruciacchiate e il suo colore era quello della cenere, non riusciva più a tenere aperti gli occhi, ma non le importava.
“Che altro posso fare!” si ripeteva, “Solo volare, ed io volerò fino allo stremo delle forze pur di salvare una sola vita!”
Due occhi acuti, ma vagamente annoiati osservavano tutto dall’alto.
Un gigantesco avvoltoio veleggiava, godendosi lo spettacolo della giungla in fiamme.
Scorse la cocorita impegnata nella sua lotta contro il fuoco e sghignazzò:

“Che stupida bestia.

Come può pensare di domare il fuoco con quattro gocce d’acqua?
Chi ha mai visto una cosa del genere?”
Il coraggio dell’uccellino però lo aveva commosso un po’ e scese in picchiata verso la foresta in fiamme.
La cocorita stava ancora sfidando il fuoco quando vide apparire al suo fianco l’enorme avvoltoio dagli occhi gialli.
“Vattene, uccellino, il tuo compito è senza speranza!” gracchiò imperioso l’avvoltoio, “Cosa possono fare poche gocce d’acqua contro questo inferno?
Vola lontano prima che sia troppo tardi!”
“Non posso.
Devo fare qualcosa, devo tentare!” rispose la cocorita.
“Guarda in che stato sei!” continuò l’avvoltoio, “Fra un po’ finirai in una fiammata, mi sembri un tizzone affumicato!”
“Riesco ancora a volare…
Qualcosa farò!” replicò la cocorita.
“Ma che ti importa di loro?
Non hanno mai fatto niente per te.” esclamò l’avvoltoio.

“Sono miei amici:

li voglio salvare.” spiegò la cocorita.
La cocorita, stremata e ferita non ascoltava più.
Ostinata, continuava a fare la spola tra l’acqua e il fuoco.
L’avvoltoio, prima di sparire oltre le colonne di fumo, gridò:
“Basta!
Fermati stupida piccola cocorita!
Salva te stessa!”
Francesca era irremovibile.
“Ci mancava anche l’avvoltoio con i suoi consigli!” brontolava, “Consigli!
Anche la nonna e tutti i miei parenti mi direbbero le stesse cose.
Non ho bisogno di consigli, ma di qualcuno che mi aiuti!”
Proprio in quel momento, un gran frullare di ali riempì il cielo.
Una nube colorata, gialla, verde, blu, rossa e bianca si affiancò alla piccola cocorita.
Migliaia e migliaia di cocorite, pappagallini, bengalini, tucani, uccelli piccoli e grandi, si immergevano nell’acqua e andavano a scrollare le piume sul fuoco.
Le fiamme erano violente, ma gli uccelli erano milioni e arrivavano a ondate successive, senza smettere mai.

Come stupito, il fuoco si arrestò.

E cominciò lentamente a sfrigolare e illanguidire.
La cocorita Francesca, insieme alle poche gocce d’acqua che aveva raccolto, scagliò sulle fiamme anche le sue lacrime.
Ma erano lacrime di gioia.
“Grazie.” mormorò e cadde a terra, senza più un filo di forza.
Quando si risvegliò il temporale era scoppiato e l’acqua del cielo stava completando l’opera iniziata dalla coraggiosa cocorita.
“Urrà per Francesca!” gridarono gli abitanti della foresta, che le stavano tutti intorno.
La piccola cocorita aprì gli occhi e disse:
“È una bellissima giornata!”

Brano tratto dal libro “Storie belle e buone.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il sogno di Rodolfo

Il sogno di Rodolfo

Anticamente, quando i genitori volevano inculcare nei figli l’idea che l’uomo, fin dall’infanzia, deve battere le vie della santità, senza lasciare le questioni della religione per la vecchiaia, erano soliti raccontare loro delle storie, come questa.
Il giovane Rodolfo, uomo forte e sano, di bell’aspetto, non immaginava che sarebbe un giorno morto o, per lo meno, pensava questo gli sarebbe accaduto dopo molti e molti anni.
In un freddo pomeriggio di ottobre del 1321, egli si inoltrò in una folta foresta, durante una passeggiata.
Ormai all’imbrunire, avvistò tra gli alberi qualcosa che gli sembrava una parete.
Stanco, si avvicinò e vide che era un’antica cappella abbandonata.
Entrò.

Tutto era in rovina:

vetrate rotte, banchi capovolti, polvere accumulata, pipistrelli, ecc.
Per lo meno, pensò, ci sono le pareti ed un tetto, è meglio che niente.
Unendo alcuni banchi, improvvisò dunque un letto e, esausto com’era, si addormentò in un baleno.
A notte fonda fu svegliato da un suono di campane.
Estremamente sorpreso, si sfregò bene gli occhi, non riuscendo a credere a quello che vedeva:
la piccola cappella era illuminata e piena di fedeli.
Sull’altare, un sacerdote stava celebrando la Messa.
Vicino al presbiterio, c’era una bara.
Era dunque una Messa funebre, concluse.
“Mi scusi, signora, ma in memoria di chi è celebrata questa Messa?” chiese.
“Allora non sa chi è morto?
È uno che si è perso in questa foresta, mentre faceva una passeggiata ed è stato trovato morto oggi…

Rodolfo ebbe un sussulto.

Con uno strano presentimento, volle sapere chi fosse quel giovane.
Si avvicinò alla bara, sollevò il velo che copriva il volto del defunto e… sentì un terribile brivido lungo la schiena.
Il morto era lui!
Era ormai invecchiato, certamente, ma non c’era alcun dubbio che era proprio lui quello che si trovava nella bara.
Lanciò un grido di spavento e… si svegliò.
Comprese allora che quel terribile sogno era un avvertimento del cielo: egli sarebbe morto esattamente di lì a 50 anni.
Uscì dalla chiesa e ritornò nella bella casa della sua agiata famiglia, dove era in corso una magnifica festa.
In mezzo all’allegria e ai divertimenti, pensò:
“50 anni è molto tempo.
Vuoi sapere una cosa?

Farò una ripartizione intelligente:

nei primi 25 anni, mi godrò la vita e nei 25 seguenti mi preparerò seriamente alla morte.
Trascorse così 25 anni in divertimenti, viaggi, feste, gite e continua allegria.
Ma… passarono molto rapidamente!
Allora, il Conte decise:
“Guarda, guarda, 25 anni è troppo tempo per prepararsi alla morte, così, i prossimi 15 anni saranno un prolungamento dei 25 anni che sono già passati.
Quando ne mancheranno solo 10, allora sì, mi preparerò seriamente!”
E così accadde… furono altri 15 anni di piaceri, che trascorsero più rapidamente dei 25 anni precedenti.
Ad ogni scadenza, il Conte faceva una nuova “ripartizione intelligente” del tempo restante, giungendo in questo modo, al suo ultimo mese di vita.
Un mese soltanto!
Era, dunque, necessario congedarsi da parenti e amici.
Mandò una lettera a tutti gli amici, invitandoli ad una grande festa.
Dopo 25 giorni, erano tutti riuniti nella sua villa.
Furono tre giorni d’intensa commemorazione.

Gli restavano ora soltanto due giorni!

“Non posso lasciar partire i miei ospiti senza un banchetto di commiato!” pensò il Conte fissando un monumentale pranzo per il 25 ottobre, suo ultimo giorno di vita!
Dopo la festicciola, sentì la necessità di riposare un poco, per poter allora fare una buona confessione.
Mentre era a letto, sentì le prime avvisaglie della morte imminente, chiamò un domestico e, con voce da oltre tomba, lo mandò a chiamare in gran fretta un prete.
Il fedele servitore corse al villaggio vicino, alla ricerca del Parroco.
Nel frattempo Rodolfo, che aveva sprecato i 50 anni di tempo che aveva per prepararsi, cominciò a vedere figure che si muovevano intorno al suo letto, come fossero in attesa del momento di condurlo all’aldilà.
Ansimante, osservava l’ampollina del tempo che stava ormai esaurendosi.
Mancavano appena cinque minuti alla mezzanotte, ed egli udì il rumore del carro che si approssimava, con il prete.

Troppo tardi!

Prima che entrasse il sacerdote, scoccò il primo rintocco delle campane, che annunciavano il nuovo giorno!
Disperato, Rodolfo emise un terribile urlo e… si svegliò veramente.
Con grande sollievo, si rese conto di trovarsi davanti al crocifisso arrugginito della cappella in rovina nel mezzo della foresta, dov’era entrato a riposare poche ore prima.
Non si era trattato che di un sogno.
Ma non di un semplice sogno, no!
Perché il giovane Rodolfo prese sul serio il misericordioso avvertimento.
Da quel momento in poi, seguì con determinazione il cammino della virtù.
Facendo un esame di coscienza quotidiano e la confessione frequente, si mantenne sempre preparato per l’ultimo e più importante giorno della sua vita:
quello del suo incontro con Dio.

Brano senza Autore.

La carovana di mercanti

La carovana di mercanti

Una carovana di mercanti abituati da molto tempo a percorrere insieme le lunghe piste d’oriente si preparava ad attraversare un grande e pericoloso deserto.
Il percorso richiedeva una buona conoscenza dei luoghi e delle piste e delle oasi, ma anche delle abitudini degli indigeni.

Così si assicurarono i servizi di una guida locale famosa per la sua esperienza.

Dopo dieci giorni di rapido cammino, la colonna si arrestò contro una barriera di uomini armati, fermi attorno alla statua di una delle loro orribili divinità dall’aspetto crudele, che incombeva sulla pista.
“Non potete proseguire” gridò il capo degli uomini armati, “se non sacrificate un uomo al nostro dio!
È la regola di ogni nuova luna.
Se non lo farete morrete tutti qui immediatamente!”

I mercanti si radunarono e cominciarono a parlottare tra loro.

La scelta era drammatica e l’accordo molto difficile.
“Noi ci conosciamo tutti da molto tempo.
Siamo parenti tra di noi.
Non possiamo sacrificare uno di noi per placare questo dio!”

I loro sguardi si concentrarono tutti sulla guida…

Dopo avere immolato il pover’uomo, secondo il rito, ai piedi della statua, la carovana riprese il cammino.
Ma nessuno conosceva la via e ben presto si persero nel deserto.
Morirono uno dopo l’altro di sete e di sfinimento.

Brano senza Autore

Domenica a Messa senza scuse

Domenica a Messa senza scuse

Una domenica, alla porta della chiesa, fu appeso questo cartello:

“Per consentire a tutti di venire in chiesa domenica prossima, abbiamo organizzato una speciale domenica “senza scuse!”

Saranno sistemati dei letti in sacrestia per tutti quelli che dicono:

“La domenica è l’unico giorno della settimana in cui posso dormire!”

Sarà allestita una speciale sezione di morbide poltrone per coloro che trovano troppo scomodi i banchi.

Un collirio sarà offerto a quelli che hanno gli occhi troppo affaticati dalla nottata alla tv.

Un elmetto d’acciaio temprato sarà regalato a tutti coloro che dicono:

“Se vado in chiesa potrebbe cadermi il tetto in testa!”

Morbide coperte saranno fornite a quelli che dicono che la chiesa è troppo fredda e ventilatori a quelli che dicono che è troppo calda.

Saranno disponibili cartelle segnapunti per coloro che vogliono fare la classifica delle persone “che vanno sempre in chiesa ma sono peggio degli altri.”

Parenti e amici saranno chiamati in soccorso delle signore che non possono, contemporaneamente, andare in chiesa e preparare il pranzo.

Verranno distribuiti dei distintivi con la scritta:

“Ho già dato!” a tutti coloro che sono preoccupati per la questua.

In una navata saranno piantati alberi e fiori per quelli che cercano Dio solo nella natura.

Dottori e infermieri si dedicheranno alle persone che si ammalano sempre e solo di domenica.

Forniremo apparecchi acustici a quelli che non riescono a sentire la predica e tappi per le orecchie per quelli che ci riescono.

La chiesa sarà addobbata contemporaneamente con le stelle di Natale e i gigli di Pasqua per quelli che l’hanno sempre e solo vista così.”

Sarà bellissimo la domenica, vivere la Messa tutti insieme, vi aspettiamo!

Brano senza Autore

Mangiate Porci!

Mangiate Porci!

Una contadina allevava nella sua fattoria diversi animali da reddito.
Dedicava le sue cure principalmente ai maiali, che nutriva per lo più con delle buone patate.
Lavorava molto, per riuscire a riscattare il terreno che aveva in comodato d’uso.
Il terreno apparteneva ad alcuni suoi parenti emigrati che, oltre al terreno, le avevano dato anche una porzione di casa.
La cura per i maiali era quasi maniacale e, dato che li voleva belli grassi in poco tempo, ogni volta che dava loro da mangiare, ripeteva continuamente:

“Mangiate porci, che mi fatte ricca!”

Alcuni anni dopo, i parenti emigrati ritornarono per sistemare gli affari di famiglia.
La loro intenzione, riguardo la contadina, era quella di farle una donazione avendo trovato una inaspettata fortuna all’estero, con una unica clausola:
quella di restaurare un vecchio capitello con Madonna e Bambino, di antica devozione, situato all’ingresso della proprietà.
Per sancire il buon, nonché vantaggioso, accordo, la nostra brava contadina fece per i ricchi parenti un lauto banchetto all’aperto sull’aia, avendo cura di proporre loro i piatti della tradizione, dato che questi ne avevano nostalgia.

Tutto fu curato nei minimi dettagli e le portate ebbero successo.

La brava contadina, però, cucinò troppo, infatti i commensali cominciarono a rifiutare le portate.
Tutti questi rifiuti iniziarono a preoccupare la contadina, che presa dal panico per la paura che l’accordo non fosse ratificato, alla portata delle patate, ripeté quella frase che meccanicamente diceva ai suoi maiali:

“Mangiate porci, che mi fatte ricca!”

Inutili furono la scuse e le spiegazioni.
I parenti non ratificarono più l’accordo verbale e se ne andarono via indignati.
“Mai mischiare la cura ed il pensiero rivolto agli animali con quello rivolto ai buoni cristiani!” fu la conclusione amara della nostra buona donna.

Brano di Dino De Lucchi
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Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno