La passeggiata più bella

La passeggiata più bella

Ognuno di noi, durante la propria vita, percorre una infinità di chilometri (o di miglia), passo dopo passo.
In pochi si soffermano a riflettere su quale sia stata la passeggiata più bella della propria vita.

Ricordo, come fosse oggi, la mia preferita.

Andavo a piedi dall’asilo delle suore del mio borgo di Levada a quello più grande di Onigo.
Si sgambettava per una strada sterrata di campagna chiamata “Alta”, dato che risultava essere leggermente sopraelevata rispetto al percorso romano della “Claudia Augusta Altinate”, che congiungeva il mare alle Alpi.
Questa strada veniva percorsa senza essere accompagnati da adulti.
Venivamo seguiti, esclusivamente, dai nostri fedeli amici a quattro zampe.
In piena libertà e con la gioiosa partecipazione di tanti altri bambini.

Lungo la strada scoprivamo cose nuove, godevamo dei campi in fiore o degli alberi innevati.

I nostri occhi luccicavano quando dalle siepi sbucavano lepri, uccelli, rettili, anfibi, ma anche qualche gattino abbandonato, che veniva coccolato con le nostre merendine.
Capitava di trovarci vicini ad un gregge o di salire su un carro trainato da buoi, incitando in coro gli animali affinché aumentassero il passo.
Inoltre, si potevano anche trovare piccoli oggetti per strada.
Io, ad esempio, trovai una coroncina del rosario e, quanto ritornai a casa, mia nonna mi consigliò di conservarla, poiché secondo lei valeva un tesoro e apriva le porte del paradiso.
Sembrava di toccarlo il paradiso quando, a causa della pioggia o della neve, venivamo avvolti nella mantellina nera di mio padre, che ci accompagnava a destinazione in bicicletta.
Io, che ero il più grande, ero seduto sul ferro tubolare, mio fratello nel seggiolino del manubrio e mia sorella nel porta pacchi dietro.
Era bellissimo stare riparati e sentire la pioggia cadere su di noi, al buio, sotto il mantello di mio padre, che profumava del suo tabacco, di terra fresca, di fieno e di unità famigliare.

Erano fragranze che non ho più sentito in seguito, nemmeno usando i profumi più costosi.

Si era poveri allora, ma allo stesso si era ricchi:
potevamo fare nuove esperienze, avevamo libertà ed eravamo circondati di amore.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

I bambini zebra

I bambini zebra

Agostino era un bambino che frequentava la scuola elementare e, secondo la sua maestra, era particolarmente fortunato.
Difatti la sua insegnante lo aveva classificato come bambino zebra, termine coniato, dalla psicologa Jeanne Siaud-Facchin, per indicare i bambini che hanno in comune con le zebre la capacità di fondersi con l’ambiente circostante, avendo in dote un quoziente intellettivo sopra la media.

Questi bambini, inoltre, erano dotati di una profonda sensibilità e straordinarie capacità d’ascolto e di interazione.

Agostino amava ascoltare, a fine giornata, sua nonna Ester che, tra racconti fantastici, leggende e vite di santi, stimolava l’intelligenza del nipote.
Il bimbo traeva grande beneficio da questi racconti, riuscendo ad integrarli anche nel suo percorso scolastico.
Dopo qualche anno, una sera, la nonna gli disse che stava per esaurire il suo repertorio, anche per le lacune di memoria date dall’età.

Consigliò ad Agostino di suggerirle, nelle pause, dei passaggi narrativi, anche se inventati.

I suoi racconti potevano non essere più precisi ma, per allietare le ore serali, ne avrebbero potute coniare loro.
Decisero che questi nuovi racconti li avrebbero chiamati “Storie Belorie”, dato che erano simil vere.
Esortò il nipote a ricordare tutte le storie che lei gli raccontava poiché, queste, gli sarebbero potute servire nella vita.
Gli suggerì anche di trascriverle, in modo grammaticalmente corretto, in un quaderno, in modo che queste potessero essere raccontate, a loro volta, in futuro, avendo tutte una morale.

La nonna auspicò che il nipote diventasse un attore e che avesse il “sacro fuoco” della recitazione.

Trascorsero diversi anni, nei quali Agostino continuò brillantemente i propri studi e giunto alla laurea, dedicò la tesi, conseguita con il massimo dei voti, a sua nonna.
Rientrato a casa, le portò, pieno di gratitudine, il bacio accademico ricevuto dopo aver discusso la propria tesi sui bambini zebra, evidenziando che questi, spesso, hanno in comune dei nonni fantastici che raccontano loro delle bellissime storie con morale.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Tonto Zuccone e gli acquisti

Tonto Zuccone e gli acquisti
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Alla fiera

L’orologio

Il panino doppio

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“Alla fiera”

Tonto Zuccone andò ad una fiera e la sua attenzione venne richiamata da alcuni uomini concitati attorno ad un tavolino.
Stavano partecipando al gioco delle tre carte, per lui nuovo.
Con entusiasmo partecipò anche lui.
Provò a sfidare diverse volte la fortuna, che però gli voltava ripetutamente le spalle.
Alla fine chiese al banditore come si facesse a vincere almeno una volta, poiché ci teneva tanto.

All’imbonitore non parve vero e gli disse:

“Siccome ti chiami Tonto voglio, in via eccezionale venirti in contro ed accontentarti, con una vincita strepitosa e sicura.
Attraverso i miei poteri telepatici, basta che tu metta i soldi e rinunci alla posta vinta.
Tonto pur di vincere accettò e rientrò a casa con una grande soddisfazione tutta sua, comportandosi come tanti insistenti giocatori del gratta e vinci, dove il banco vince sempre.

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“L’orologio”

Tonto Zuccone desiderava tanto avere un orologio tutto suo per non dover chiedere sempre l’ora a qualcuno.
Voleva però spendere pochissimo.
Si recò da diversi orologiai, ma non trovò nessuno che vendesse l’orologio al prezzo da lui desiderato, poiché era fissato nel risparmiare a tutti i costi.
Incontrò casualmente per strada un venditore ambulante abusivo, che proponeva tra le sue mercanzie anche dei colorati orologi che piacevano tanto a Tonto, e scelse quello a prezzo più stracciato.
Dopo alcuni giorni, però, l’orologio non diede segni di vita e Tonto percorse in lungo e in largo tutte le strade, sotto un sole cocente, per incrociare l’ambulante.
Trovato, gli agitò in faccia l’orologio che non dava segni di vita, e lo supplicò di sostituirlo essendo, secondo lui, ancora in garanzia.

Lo minacciò di segnalarlo, altrimenti, alle autorità.

Il venditore non si scompose per niente, dopo aver inquadrato il tipo, e gli disse:
“Io te lo sostituirei anche, se fosse rotto del tutto, ma, se stai attento, segna ancora l’ora giusta due volte al giorno e, se lo conservi con cura, un giorno varrà una fortuna per questo!”
A queste argomentazioni Tonto non seppe rispondere e continuò a portare l’orologio, pur avendo la cinghia che gli scatenava una reazione allergica, contento e felice della minima prestazione.

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“Il panino doppio”

Tonto Zuccone entrò trafelato, e in disordine, in una rinomata paninoteca in pieno centro città.
Chiese se potesse avere un panino farcito doppio al prezzo di uno, non avendo soldi sufficienti, siccome li aveva spesi in souvenir.
Aveva tanta fame accumulata, avendo percorso in lungo e in largo, sotto il sole cocente, l’impegnativo percorso turistico.
Il navigato cameriere, che ne aveva visto di cotte e crude, inquadrò professionalmente il singolare personaggio e gli rispose che non cera nessun problema.
Continuò dicendogli che avrebbe onorato immediatamente tale richiesta e che, visto il caso umano, gli avrebbe riservato la precedenza su altri clienti meno affamati ed esigenti.

Dopo qualche minuto, Tonto vide arrivare due piatti di servizio.

Dentro un piatto c’era il panino desiderato, mentre nell’altro uno specchio.
Il cameriere, sarcasticamente, gli disse:
“Ecco il tuo bel panino, se lo vuoi doppio e gratis, mettilo davanti allo specchio!”

Brani di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione dei racconti a cura di Michele Bruno Salerno

Un pomeriggio con papà

Un pomeriggio con papà

Levada è una piccola frazione del comune di Pederobba, situata in pianura, che confina con il comune di Monfumo, il quale è disposto totalmente in collina.
A Monfumo, la mia famiglia possedeva un terreno in una collinetta, e questo (terreno) era in parte popolato da alberi da frutto di vario genere, mentre il restante era dedicato alla fienagione.
Un pomeriggio di tanti anni fa, quando ero ancora un bambino, con mio padre andammo ad espletare proprio questa tecnica (fienagione).

Dopo qualche ora,

passò dal nostro terreno un uomo del luogo, che viveva di espedienti, e mio padre lo invitò ad aggregarsi a noi per fare merenda, cosa che accetto ben volentieri.
Approfittò a sproposito dell’invito, lasciando, addirittura, mio padre senza vino.
Non contento del nostro invito e del modo in cui venne trattato, quando nel tardo pomeriggio caricammo il fieno sul carro, il quale doveva essere trainato dai buoi, notammo che le corde per legare il fieno erano scomparse.
Cercammo invano e non trovandole, mio padre esclamò:

“Un furto!”

Con molta difficoltà riprendemmo la via di casa, la quale, ovviamente, fu molto difficile.
Mio padre dovette fermarsi a riassettare il carico di fieno più di una volta, poiché la strada era piena di buche e, per questa ragione, l’intero carico era a rischio.
A metà percorso ci fermammo in una osteria per rinfrescarci e per rilassarci, incontrando nuovamente l’uomo della merenda.
Mio padre gli offrì, nuovamente, da bere.
Io lo chiamai in disparte e gli dissi:
“Come mai fai questo?
Ci ha rubato le corde e gli offri ancora da bere?”

Mio padre, dolcemente, mi spiegò:

“Dino, non preoccuparti, ricchi si può diventare, ma signori si deve nascere.
Noi siamo signori, nonostante (siamo) poveri da sempre.
Inoltre, ricorda, il tempo è galantuomo!”
Grande fu la lezione che mio padre mi diede e che, ancora oggi, mi segna.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La carovana di mercanti

La carovana di mercanti

Una carovana di mercanti abituati da molto tempo a percorrere insieme le lunghe piste d’oriente si preparava ad attraversare un grande e pericoloso deserto.
Il percorso richiedeva una buona conoscenza dei luoghi e delle piste e delle oasi, ma anche delle abitudini degli indigeni.

Così si assicurarono i servizi di una guida locale famosa per la sua esperienza.

Dopo dieci giorni di rapido cammino, la colonna si arrestò contro una barriera di uomini armati, fermi attorno alla statua di una delle loro orribili divinità dall’aspetto crudele, che incombeva sulla pista.
“Non potete proseguire” gridò il capo degli uomini armati, “se non sacrificate un uomo al nostro dio!
È la regola di ogni nuova luna.
Se non lo farete morrete tutti qui immediatamente!”

I mercanti si radunarono e cominciarono a parlottare tra loro.

La scelta era drammatica e l’accordo molto difficile.
“Noi ci conosciamo tutti da molto tempo.
Siamo parenti tra di noi.
Non possiamo sacrificare uno di noi per placare questo dio!”

I loro sguardi si concentrarono tutti sulla guida…

Dopo avere immolato il pover’uomo, secondo il rito, ai piedi della statua, la carovana riprese il cammino.
Ma nessuno conosceva la via e ben presto si persero nel deserto.
Morirono uno dopo l’altro di sete e di sfinimento.

Brano senza Autore

I supereroi

I supereroi

Diversi anni fa, poco più che adolescente, mio padre mi chiese di andare a verificare una nostra proprietà.
Si trattava di raggiungere un bosco, posto in cima ad una amena collina, facente parte del corollario dell’Asolano, per verificare e valutare di quanta legna da ardere avremmo potuto disporre in quel momento.

Accettai di buon grado,

sia per la fiducia che mio padre aveva riposto in me sia perché due giorni prima aveva nevicato, nonostante fosse iniziata la primavera da qualche giorno.
Calpestare per primo il sentiero immacolato mi dava un piacere immenso, essendo innamorato della natura, soprattutto se incontaminata.
Arrivato in cima ed avvolto da quel silenzio ovattato, mentre stavo contemplando il paesaggio circostante con all’orizzonte il monte Grappa ed il fiume Piave, intravidi il mio paesello innevato.
Caddi come in estasi per le troppe cose belle che mi ritrovai davanti agli occhi.
Fui riportato alla realtà in maniera traumatica.
Sentì sulla schiena un corpo contundente ed una voce, contemporaneamente, gridare:

“Mani in alto!”

Mi spaventai tantissimo, al punto che temetti per il mio cuore.
Voltandomi vidi il guardiacaccia sogghignare nel puntarmi contro il suo fucile.
Vedendomi pallido e tremante cambiò atteggiamento e si scusò, spiegandomi che pensava fossi un bracconiere, andato a piazzare le trappole per le volpi.
Nei mesi seguenti questo trauma mi segnò a lungo e lo volli superare alla mia maniera, facendo lo stesso percorso in una calda notte d’estate.
Mentre stavo percorrendo il sentiero per raggiungere il nostro bosco, mi sentivo orgoglioso di me stesso perché incurante del buio e degli animali notturni che andavo a disturbare.
Non mi agitavo neanche per gli strani rumori che popolavano il bosco finché, ad un certo punto, qualcosa mi urtò la schiena e, istintivamente, alzai le mani, memore della passata esperienza, ma non parlò nessuno.

Mi voltai lentamente,

nuovamente tutto tremante con il cuore alla gola e capii che era solo un ramo secco che si era impigliato nel mio giubbotto.
Imparai a mie spese la lezione che con il bosco non si fanno sfide.
Non bisogna andare da soli, soprattutto di notte, ne fare gli eroi fuori luogo, anche perché andai senza avvisare nessuno.
Il vero coraggio va dimostrato semmai in altri modi e luoghi.

A distanza di anni, con l’arrivo della primavera, ci ritroviamo a dover combattere contro un nemico invisibile, il coronavirus.
Ed i veri eroi ed i supereroi, pieni di coraggio, in questo particolare e delicato momento per l’Italia, sono medici ed infermieri, oltre a tutte le forze dell’ordine.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La ricerca di Dio

La ricerca di Dio

Tre giovani avevano compiuto diligentemente i loro studi alla scuola di grandi maestri.
Prima di lasciarsi fecero una promessa:
avrebbero percorso il mondo e si sarebbero ritrovati, dopo un anno, portando la cosa più preziosa che fossero riusciti a trovare.
Il primo non ebbe dubbi:
partì alla ricerca di una gemma splendida ed inestimabile.
Attraversò mari e deserti, salì sulle montagne e visitò città fino a quando non l’ebbe trovata:

era la più splendida gemma che avesse mai brillato sotto il sole.

Tornò allora in patria in attesa degli amici.
Il secondo tornò poco dopo tenendo per mano una ragazza dal volto dolce ed attraente.
“Ti assicuro che non c’è nulla di più prezioso di due persone che si amano!” disse al primo amico. Si misero ad aspettare il terzo.
Molti anni passarono prima che quest’ultimo arrivasse.
Era infatti partito alla ricerca di Dio.
Aveva consultato i più famosi maestri di spiritualità esistenti sulla terra, ma non aveva trovato Dio.
Aveva studiato e letto, ma senza trovare Dio.

Aveva rinunciato a tutto, ma non era riuscito a trovare Dio.

Un giorno, stremato per il tanto girovagare, si abbandonò nell’erba sulla riva di un lago.
Incuriosito seguì le affannate manovre di un’anatra che in mezzo ai canneti cercava i suoi piccoli, che si erano allontanati da lei.
I piccoli erano numerosi e vivaci, e sino al calar del sole l’anatra cercò, nuotando senza sosta tra le canne.
Proseguì instancabile riconducendo sotto la sua ala fino all’ultimo dei suoi nati.
Allora l’uomo sorrise e decise di ritornare al paese.
Quando gli amici lo rividero, uno gli mostrò la gemma e l’altro la ragazza che era diventata sua moglie.
Poi, pieni di attesa, gli chiesero:
“E tu, che cosa hai trovato di tanto prezioso?

Deve essere qualcosa di magnifico se hai impiegato tanti anni.

Lo vediamo dal tuo sorriso…”
“Ho cercato Dio.” rispose il giovane.
“E lo hai trovato?
È per questo che hai impiegato così tanto tempo?” chiesero i due, sbalorditi.
“Sì, l’ho trovato.
E se ho impiegato tanto tempo era perché commettevo l’errore di andare a cercare Dio, mentre in realtà, era Lui che stava cercando me.”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il bruco e la farfalla


Il bruco e la farfalla

Un piccolo bruco camminava verso un’alta montagna.
Lungo la strada incontrò un grillo che gli domandò:
“Dove vai?”
Senza arrestare il suo passo, il bruco rispose:
“Ieri sera ho fatto un sogno nel quale mi trovavo sulla cima di una montagna e da lì potevo vedere tutta la valle.
Oggi voglio realizzare il mio sogno.”
Alquanto sorpreso il grillo disse al bruco:
“Devi essere pazzo!
Come farai ad arrivare fin là?

Tu, un piccolo bruco, ahahahah…

Per te, una pietra sarà una montagna, una piccola pozzanghera sarà un mare, e qualsiasi ramo sarà una barriera impossibile da oltrepassare.”
Ma il piccolo bruco era già lontano e non lo sentì nemmeno.
I suoi tanti e piccoli piedi non si arrestarono.
Incontrò poi uno scarafaggio:
“Dove vai con tanto sforzo?”
Il piccolo bruco ripeté quanto aveva già detto al grillo:
“Ieri sera ho fatto un sogno…”

Allora anche lo scarafaggio si mise a ridere, e disse:

“Nemmeno io, con le mie grandi zampe e con i miei grandi salti potrei affrontare un’impresa simile.”
E continuando a ridere rimase ad osservare il piccolo bruco mentre continuava imperturbabile il suo percorso.
La stessa cosa gli fu ripetuta dagli altri animali che incontrò lungo la strada:
talpa, ragno, rana e fiore.
Tutti gli consigliarono di desistere e di fermarsi, dicendogli:
“Non arriverai mai!”
Ma il piccolo bruco continuò a camminare, perché dentro di sé sentiva che doveva assolutamente farlo.
Stanco e senza forze, decise di fermarsi per riposare.
Con un ultimo sforzo si preparò un posto per dormire.
“Cosi mi sentirò meglio!” pensò tra sé.

Ma quella notte morì.

Per giorni e giorni, gli animali vennero a vedere i suoi resti.
Lì giaceva l’animale più pazzo del mondo, lì c’era l’ultimo rifugio di un piccolo bruco morto per inseguire un sogno.
All’improvviso però tutti ebbero modo di assistere ad un grande miracolo.
Quel bocciolo grigiastro, senza vita, cominciò a rompersi; comparvero un paio di occhi, due antenne e due bellissime ali dai colori stupendi.
Era una farfalla!
In un istante la meravigliosa creatura prese il volo e raggiunse la cima della montagna.
Il sogno del bruco, per il quale aveva vissuto, per il quale aveva lottato era finalmente diventato realtà.
Tutti si erano sbagliati, solo il bruco no…
Aveva creduto e lottato, con fermezza e coraggio, per realizzare il suo sogno!

Brano senza Autore, tratto dal Web