Peppino e la torre maledetta

Peppino e la torre maledetta

C’era una volta un villaggio costruito in una valle lunga e stretta, in mezzo a montagne alte e rocciose, che si spalancavano qua e là in distese di prati e di pascoli.
Gli abitanti del villaggio erano moderatamente soddisfatti:
le loro mucche e le loro pecore erano ben pasciute, latte e formaggio si vendevano bene, anche se il mercato era lontano.
Ma sulla loro felicità aleggiava un’ombra nera.
L’ombra nera della Torre Maledetta.
La Torre Maledetta era una ruvida formazione rocciosa che chiudeva la valle e incombeva sul villaggio impedendogli di essere illuminato dal sole, se non pochi minuti all’alba e altrettanto pochi al tramonto.
Per il resto del giorno il sole illuminava solo i fianchi più alti della valle.
Così il villaggio passava la sua giornata all’ombra.

Per colpa della Torre Maledetta.

A Peppino, un giovane dall’aria sveglia e dal carattere aperto e deciso, la cosa non andava proprio giù.
Gli sarebbe tanto piaciuto avere un giardino davanti alla casa, con i fiori e un ciliegio e due albicocchi e un melo.
Ma non sbocciavano fiori nel villaggio, né ortaggi, perché c’era troppo poco sole.
Chi voleva un orto doveva andare a coltivarlo lontano dal villaggio.
Per questo molti andavano ad abitare altrove e, piano piano, il villaggio perdeva abitanti.
Il villaggio rischiava di morire per colpa della Torre Maledetta.
Era l’unica cosa che riusciva a guastare il buonumore di Peppino.
Ogni mattino, mentre si stirava sul balcone della sua camera e si lasciava accarezzare dai raggi del sole, prima che fossero inghiottiti dall’ombra, fissava la superba roccia nera con gli occhi che mandavano lampi di dispetto.
“Accidenti, accidentaccio.” Brontolava, “Un villaggio senza fiori, senza farfalle e senza canzoni è un villaggio senza bambini, un villaggio che muore…”
Girava gli occhi sui tetti d’ardesia che avevano riflessi d’argento e sui camini che con il loro fumo facevano propaganda alla fragrante polenta che borbottava nei paioli di rame, pensava agli abitanti che conosceva tutti per nome, cognome e soprannome e si diceva:
“Devo assolutamente fare qualcosa…
Sono il più giovane del villaggio e quindi tocca a me!”
Un mattino, appena il sole si nascose dietro la parete nera della Torre prese la decisione.
Si mise sulle spalle il piccone nuovo che aveva comprato alla fiera e si incamminò, con passo risoluto verso la montagna.

“Dove vai?” gli chiese la mamma.

“Vado a buttare giù la Torre Maledetta!” rispose semplicemente Peppino.
“Ma cosa dici?
Sei diventato matto?
Non ce la farai mai!”
“Qualcuno deve incominciare una buona volta!” ribadì caparbio.
Arrivato ai piedi della Torre, alzò lo sguardo verso l’immensa parete scura che incombeva su di lui con un vago senso di minaccia.
“A noi due!” disse Peppino.
Gli rispose un rombo cupo, come una grassa risata sussultante, che terminò nel sibilo maligno del vento.
“Comincerò dall’alto.” si disse e cominciò a salire.
La vetta della Torre aveva qualche chiazza di neve, ma Peppino non degnò di uno sguardo il panorama.
Alzò il piccone e lo abbatté con tutte le sue forze contro la roccia.
“Tò, beccati questo!”
Con un po’ di sorpresa, si accorse che il suo colpo di piccone aveva staccato un grosso blocco di pietra che lentamente rotolò giù dalla vetta, trascinandosi dietro un corteo di sassi più piccoli.
“Allora si può!” esultò.

Moltiplicò i colpi, con rabbia, con gioia.

“Aprirò la strada al sole!”
Dopo qualche ora si buttò a terra, sudato, spossato.
E guardò il risultato della sua opera.
Aveva buttato giù un bel po’ di sassi, ma non aveva abbassato la Torre neanche di un millimetro. “Dovessi impiegarci tutta la vita ce la farò!” si disse.
Ma gli sembrò di riudire il rombo sussultante che era la risata di scherno della Torre.
Si rialzò e riprese a picchiare con il piccone.
“Beccati questo!
E anche questo!” gridava sbrecciando, scheggiando, frantumando le rocce della vetta.
Passò quel giorno e quello dopo.
Così per un mese.
Ogni mattina, Peppino rinnovava la sua sfida alla Torre Maledetta.
Ma il risultato non era granché: l’immane picco sembrava più alto e saldo che mai.
“Lascia perdere!” gli dicevano i concittadini, che cominciavano a crederlo un po’ matto, “Tanto ci siamo abituati.”
Scuotendo la testa, Peppino insisteva:
“Farò arrivare il sole sul vostro balcone tutto il giorno…
E sbocceranno i fiori nella piazza.”

Tornava lassù e ricominciava a picconare.

Dopo qualche mese, il «pic… pic…» del suo piccone divenne un rumore familiare per le pecore e le mucche degli alti pascoli.
Ma era così grande e solida quella roccia…
Un mattino, però, successe una cosa straordinaria.
Peppino stava spingendo giù dalla Torre un grosso masso che aveva appena staccato, quando udì chiaramente una vocina che lo chiamava:
“Peppino, Peppino!”
Si guardò intorno sorpreso.
La voce riprese a chiamare.
La cosa più strana era che la voce proveniva da dentro la montagna.
“Dove sei?” chiese Peppino.
“Qui, sotto i tuoi piedi, dentro la roccia!” rispose la vocina.
Peppino si inginocchiò e scrutò con attenzione nel buco lasciato dal masso.
Sul fondo si apriva una fessura e, dentro la fessura, piccola piccola si agitava una manina bianca. “Liberami!” implorò la vocina.
Impugnò il piccone e in poco tempo scavò fino ad arrivare alla mano, poi continuò con attenzione e infine si trovò davanti una bambina dagli occhi color lago alpino e vestito color spuma di torrente.
“Grazie!” disse la bambina, mentre Peppino la guardava con l’aria stralunata.
“Sono la fata delle sorgenti, ma il maligno architetto della Torre mi ha imprigionata.
Ma ora che mi hai liberata, il tuo desiderio si avvererà!”

“E come farai?

Sei così piccola e fragile!” chiese Peppino.
“Con la pazienza, un po’ di tempo e la forza dell’acqua!” sorrise la fatina.
Alzò la mano, come fosse il cenno di attacco di un direttore d’orchestra.
Mille gorgoglii, saltelli, risate, sciacquii riempirono l’aria.
Mille sorgenti sbocciarono sulla Torre Maledetta.
Piccole all’inizio, si riunirono a formare ruscelli, torrenti, cascate.
E ognuno di essi incideva, smerigliava, scavava, trasportava a valle ghiaia, sassi, detriti.
“Stanno facendo a pezzi la Maledetta!” gridò Peppino e fece volare in aria il cappello.
Voleva ringraziare la fata delle sorgenti, ma quella non c’era più.
Corse a dare la notizia al villaggio, che adesso era fiancheggiato da un torrente giovane e forte che scendeva dalla Torre Maledetta.
Oggi quel villaggio è inondato dal sole dal mattino alla sera, ed è pieno di fiori, farfalle e bambini.
Al posto della Torre c’è una serie di piccole rocce smozzicate, coperte dal muschio e dai cespugli.
Ci vanno i vecchietti a cercare i funghi.

Brano tratto dal libro “Storie belle e buone.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi

L’ago perduto

L’ago perduto

In Veneto, fino alla fine degli anni 60, era usanza comune fare una veglia serale, chiamata filò.
Il filò era un vero e proprio rito comunitario, ed il nome, probabilmente, era derivato dal filare la lana o dal tenere il filo del discorso.
Una sera d’estate, la stalla in cui si svolgeva questo evento era particolarmente affollata.

Le ragazze erano affaccendate a ricamare corredi mentre le signore più anziane erano intente a rammendare capi di vestiario.

Gli uomini, invece, mentre confabulavano tra loro del più e del meno, riparavano piccoli attrezzi.
Durante la serata, una giovane di nome Teresa, notando l’arrivo del fidanzatino, si distrasse e non ritrovò più l’ago da ricamo, scatenando il panico tra i partecipanti.
Perdere l’ago, secondo la credenza popolare, portava sfortuna e perderlo in una stalla portava ancora più sfortuna, poiché una mucca avrebbe potuto ingoiarlo provocandone, con la perforazione, una peritonite con esito fatale.

Fu accesa un’altra lampada a petrolio e tutti iniziarono a cercare il benedetto ago.

Il vecchio padrone di casa si mise a imprecare contro Teresa come se fosse cascato il mondo, facendola vergognare.
In questo clima surreale, le donne presenti decisero di creare ancor più tensione, iniziando a recitare i sequeri (forma di preghiera popolare cristiana, che la tradizione consiglia per recuperare le cose perdute) in latino.
Giulia, la mia meravigliosa nonna, vista la situazione, interpretò i sequeri a modo suo e, facendo finta di raccoglierlo per terra, mostrò il suo ago ai presenti esclamando:

“Ecco l’ago perso!”

Questo fu sufficiente per far tornare l’armonia in quell’assemblea e, le ombre da molto mosse si chetarono, per far sì che nell’angolo più buio della stalla, i fidanzatini potessero darsi un bacio rubato.
Solo qualche istante dopo Teresa si accorse che il suo l’ago lo aveva avuto, da sempre, appuntato al petto.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

I due frati e la porta

I due frati e la porta

Sulle pagine di un vecchio libro della biblioteca del monastero, due monaci avevano letto che esiste un luogo, ai confini del mondo, dove cielo e terra si toccano.
Decisero di partire per cercarlo e promisero a se stessi di non tornare indietro finché non lo avessero trovato.
Attraversarono il mondo intero, scamparono a innumerevoli pericoli, sopportarono tutte le terribili privazioni e sacrifici che comporta un pellegrinaggio in tutti gli angoli dell’immensa terra.
Non mancarono neppure le mille seducenti tentazioni che possono distogliere un uomo dal raggiungere la sua meta.

Le superarono tutte.

Sapevano che nel luogo che cercavano avrebbero trovato una porta:
bastava bussare e si sarebbero trovati faccia a faccia con Dio.
Trovarono la porta.
Senza perdere tempo, con il cuore in gola, bussarono.
Lentamente la porta si spalancò.

Trepidanti i due monaci entrarono e…

si trovarono nella loro cella, nel loro monastero.

Un giorno che ricevette degli ospiti eruditi, Rabbi Mendel di Kozk li stupì chiedendo loro a bruciapelo:
“Dove abita Dio?”
Quelli risero di lui:
“Ma che ti prende?
Il mondo non è forse pieno della sua gloria?”.

Il Rabbi diede lui stesso la risposta alla domanda:

“Dio abita dove lo si lascia entrare!”
Ecco ciò che conta più di tutto:
lasciar entrare Dio.
Ma lo si può lasciar entrare solo la dove ci si trova, e dove ci si trova realmente, dove si vive, e dove si vive una vita autentica.
“Io sto alla porta e busso.” dice Dio nella Bibbia.

Brano tratto dal libro “L’importante è la rosa.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

La forca e la matassa

La forca e la matassa

Tomo è un ridente e minuscolo paesino a ridosso della città di Feltre, nel Bellunese, ed è chiamato comunemente dagli abitanti dei paesi vicini, Ton.
Esistono numerose storielle fantastiche, tramandate oralmente, che hanno per protagonisti i suoi abitanti di un tempo, famosi per le loro iniziative inverosimili.
Una di queste leggende narra che, diversi anni fa, al centro del paese era piantato un bellissimo pino, e che tutti gli abitanti erano fieri di quest’albero.

A causa di una prolungata siccità,

la punta del pino incominciava a seccarsi e gli abitanti di Tomo non volevano perdere il simbolo del loro paesello.
Dopo un consiglio di comunità, decisero di piegare la punta dell’albero con delle corde, facendo partecipare all’impresa tutto il paese, per far toccare ed immergere la punta in una buca d’acqua, fatta scavare per questa ragione della lunghezza necessaria per rigenerare la pinacea al più presto possibile.
L’operazione ebbe successo, ma sul più bello, avendo la pianta acquistato vigore, fece elastico spaccando le corde e raddrizzandosi di colpo, scaraventando i tiratori in un rovinoso mucchio, ed intrecciando corda, braccia e gambe, tanto da non essere capaci di districarsi e venirne fuori.

Solo uno non fu coinvolto nella matassa, poiché ritardatario.

Gli fu imposto l’ordine di prendere una forca e di pungere i loro arti, per capire dove ognuno avesse le sue, e per sciogliere la matassa umana.
Alla fine si districarono tutti, tra atroci dolori causati dall’infilzamento delle numerose inforcate inferte a casaccio sul mucchio.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

I fiori della riconciliazione

I fiori della riconciliazione

Molto tempo fa c’era un paese conosciuto in tutto il mondo per le sue terre fertili ed i suoi raccolti incredibilmente abbondanti.
Un giorno vi arrivò da lontano un uomo assai povero con la sua famiglia.
Si stabilì in una casetta abbandonata, che cadeva a pezzi, con un piccolo orto; il comune pretese comunque un affitto mensile.
Lo straniero aveva portato dal suo paese semi di piante sconosciute e iniziò a coltivare il piccolo orto seminando proprio quelle piante.

La gente del posto fu presa subito da mille paure:

e se quei semi avessero appestato la loro bella terra?
E se quelle piante sconosciute avessero inaridito i loro fertili campi?
Fu così che un mattino la famigliola si svegliò e trovò la propria casa circondata dal filo spinato.
Qualcuno, quella stessa notte, si era dato da fare per evitare che i sospetti e le paure si tramutassero in realtà.
Successe poi qualcosa di molto strano:
la terra fertile di quel paese smise di dare i soliti abbondanti frutti, iniziò a produrre erbacce e piante infestanti.
La gente del paese viveva giorni terribili di disperazione, presto sarebbe caduta nella miseria.
Stranamente, l’unica terra che continuava a dare buoni frutti era quella del piccolo orto della famiglia straniera.

Un mattino accadde però qualcosa di strano:

appeso alla porta di ogni casa, vi era un sacchetto di semi, erano semi nuovi, particolari, sconosciuti.
Un contadino tra i più anziani, senza porsi troppe domande, li seminò nel suo campo, ormai non c’era più nulla da perdere, quindi per curiosità volle vedere di che cosa si trattava.
In poco tempo quei semi germogliarono e spuntarono meravigliosi fiori blu.
Tutti ridevano, certo erano belli ma il problema serio era la miseria che sopraggiungeva e quei fiori non davano certo da mangiare!
Ma la cosa straordinaria doveva ancora avvenire:
man mano che spuntavano i fiori, sparivano le erbe infestanti e la terra tornava fertile e ricominciava a produrre frutti abbondanti.
Soltanto allora la gente cominciò a domandarsi da dove provenissero quei semi.
A dare la risposta furono i bambini, perché soltanto loro si erano accorti che quei fiori da tempo abbellivano l’orto della nuova famiglia straniera.
Compresero tutti il gesto buono e generoso di quell’uomo che aveva trovato tanta inospitalità e si era visto separato dal resto del paese da un filo spinato,

eppure aveva teso la sua mano e cercato la pace donando l’unica cosa che possedeva:

semi di fiori blu.
Quella stessa notte il filo spinato scomparve, il giorno successivo la nuova famiglia ricevette molte visite e altrettanti doni da parte della gente del paese.
E furono i bambini a voler dare il nome a quei meravigliosi fiori blu, furono chiamati:
i fiori della riconciliazione!
I fiori in questione erano delle meravigliose ortensie blu.

Brano senza Autore.

Il narratore (E tu, quale storia vorresti ascoltare?)

Il narratore
(E tu, quale storia vorresti ascoltare?)

C’era una volta un narratore.
Viveva povero, ma senza preoccupazioni, felice di niente, con la testa sempre piena di sogni.
Ma il mondo intorno gli pareva grigio, brutale, arido di cuore, malato d’anima.
E ne soffriva.
Un mattino, mentre attraversava una piazza assolata, gli venne un’idea:
“E se raccontassi loro delle storie?
Potrei raccontare il sapore della bontà e dell’amore, li porterei sicuramente alla felicità!”

Salì su una panchina e cominciò a raccontare ad alta voce.

Anziani, donne, bambini, si fermarono un attimo ad ascoltarlo, poi si voltarono e proseguirono per la loro strada.
Il narratore, ben sapendo che non si può cambiare il mondo in un giorno, non si scoraggiò.
Il giorno dopo tornò nel medesimo luogo e di nuovo lanciò al vento le più commoventi parole del suo cuore.
Nuovamente della gente si fermò, ma meno del giorno prima.
Qualcuno rise di lui.
Qualche altro lo trattò da pazzo.
Ma lui continuò imperterrito a narrare.
Ostinato, tornò ogni giorno sulla piazza per parlare alla gente, offrire i suoi racconti d’amore e di meraviglie.
Ma i curiosi si fecero rari, e ben presto si ritrovò a parlare solo alle nubi e alle ombre frettolose dei passanti che lo sfioravano appena.

Ma non rinunciò.

Scoprì che non sapeva e non desiderava far altro che raccontare le sue storie, anche se non interessavano a nessuno.
Cominciò a narrarle ad occhi chiusi, per il solo piacere di sentirle, senza preoccuparsi di essere ascoltato.
La gente lo lasciò solo dietro le palpebre chiuse.
Passarono cosi degli anni.
Una sera d’inverno, mentre raccontava una storia prodigiosa nel crepuscolo indifferente, sentì che qualcuno lo tirava per la manica.
Aprì gli occhi e vide un ragazzo.
Il ragazzo gli fece una smorfia beffarda:
“Non vedi che nessuno ti ascolta, non ti ha mai ascoltato e non ti ascolterà mai?
Perché diavolo vuoi perdere così il tuo tempo?”
“Amo i miei simili!” rispose il narratore, “Per questo mi è venuta voglia di renderli felici!”

Il ragazzo ghignò:

“Povero pazzo, lo sono diventati?”
“No!” rispose il narratore, scuotendo la testa.
“Perché ti ostini allora?” domandò il ragazzo preso da una improvvisa compassione.
“Continuo a raccontare.
E racconterò fino alla morte.
Un tempo era per cambiare il mondo!” tacque, poi il suo sguardo si illuminò e disse ancora:
“Oggi racconto perché il mondo non cambi me!”

Brano tratto dal libro “A volte basta un raggio di sole.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il lustrascarpe

Il lustrascarpe

In Scozia, nella città di Glasgow, c’era un lustrascarpe di nome Jack.
Un giorno questo ragazzo pensò che avrebbe potuto fare qualcosa di meglio nella vita e decise di diventare commesso in un elegante negozio della città.
Senza perdere tempo, Jack andò a presentarsi sul posto e chiese di parlare con il capo del personale.
Questi diede una rapida occhiata al ragazzo, lo vide a piedi nudi e gli disse:
“Per poter lavorare qui dovresti almeno avere un paio di scarpe.”

Senza dire una parola il lustrascarpe se ne andò.

Ritornò al suo posto all’angolo della strada e continuò a lavorare per giorni e giorni fino a che non riuscì a guadagnare abbastanza per comprarsi un discreto paio di scarpe.
Allora, tutto contento, corse al negozio e si presentò al capo del personale.
Questi, un po’ sorpreso della visita di Jack, ascoltò la richiesta del ragazzo e poi osservò:
“Non hai nemmeno un vestito decente; non puoi lavorare per noi con quegli stracci addosso!”
Anche questa volta Jack se ne andò senza fiatare e ritornò al suo vecchio lavoro.
Ce la mise tutta, risparmiò ogni centesimo e, dopo alcuni mesi, ecco che poté comprarsi il vestito necessario.
Ora, abito indosso e scarpe ai piedi, viso e mani pulite, Jack si presentò per la terza volta al capo del personale.
Egli lo guardò con interesse e simpatia.
“Bene,” gli disse, “riempi questo modulo!”

Triste e sconsolato Jack mormorò:

“Non so scrivere!”
“Mi dispiace davvero,” ribatté il capo del personale, “ma non puoi essere assunto se non sai né leggere né scrivere!”
Deluso, ma non scoraggiato, Jack ringraziò e andò via.
L’essersi procurato un paio di scarpe e un vestito sviluppò in lui rispetto per se stesso e l’ambizione di potere riuscire nel suo intento di fare qualcosa di meglio del lustrascarpe.
Allora trovò un lavoro diverso.
Si iscrisse a una scuola serale.
Dedicò tutto il tempo libero a studiare con successo altre materie e, nel giro di due anni, eccolo in grado di ripresentarsi al grande negozio, dove venne subito assunto.

“Mi sa che un giorno quel ragazzo prenderà il mio posto!”

disse fra sé il capo del personale.
Questa non è una storia inventata, ma un fatto veramente accaduto tanti anni fa.
Jack era deciso a raggiungere il suo scopo e si impegnò con tutta la sua abilità.
Era un ragazzo pieno di buona volontà, paziente, perseverante ed anche gentile e ben educato.
Sul lavoro intuiva ciò che si doveva fare e lo faceva senza aspettare che glielo chiedessero.
Dopo pochi anni, Jack divenne non solo capo del personale ma socio e azionista del negozio.

Brano tratto dal libro “Incontri con Gesù.” di Fiorella Carelli Ferraro

Ti auguro…

Ti auguro…

Ti auguro il coraggio di girare pagina quando le cose non vanno come dovrebbero, o semplicemente, come vorresti che andassero.
Ti auguro la forza di lasciar perdere, tutte le volte in cui, pur mettendoci tutta la volontà del mondo,

non si può ingranare.

Ti auguro di non ancorarti a qualcosa che non può e non potrà farti sorridere e piangere di felicità.
Ti auguro la voglia di osare sempre, la capacità di ascoltare i consigli di chi ti vuole bene ma, poi, puntualmente, la caparbietà di decidere solo in base a quel che senti, a ciò che provi.

Ti auguro di poter ricominciare sempre,

anche quando la vita e le situazioni non saranno dalla tua parte perché chi non ricomincia inciampa, inevitabilmente, in ricordi aggrovigliati che ti fanno smettere di pensare al futuro.
Abbi la forza di conservare i momenti vissuti ma di non vivere dentro essi.
Sii forte.

Brano tratto dal libro “La sindrome di Wanderlust.” di Emma Redegalli

Partita a scacchi con il preside

Partita a scacchi con il preside

Nell’ora di ricreazione, un ragazzino negro se ne stava appartato in un angolo del giardino della sua scuola, mentre i compagni, poco più in là, giocavano allegramente col pallone.
Passò il direttore e lo scorse.
“Perché te ne stai qui solitario?” gli chiese.
“I miei compagni non vogliono che io giochi con loro, signore!” rispose il bimbo intimidito.

“Perché?” domandò l’uomo irritato.

“Dicono che sono un lurido negro e che debbo stare alla larga da loro!” balbettò il ragazzo.
Il direttore restò un attimo perplesso, poi gl’intimò di seguirlo.
Si avviarono verso gli uffici della direzione.
Al negretto, il cuore batteva forte in gola.

“Ho osato troppo?” si chiese.

Entrato nel suo ufficio, il preside si sedette alla scrivania, poi fece accomodare il ragazzino di fronte a lui e, presa una grande scacchiera dal cassetto, disse:
“D’ora in poi, all’intervallo, giocheremo tu ed io insieme.”
Gli insegnò le complesse regole del gioco e subito il fanciullo divenne padrone di ogni mossa.
Muoveva pedoni e alfieri con straordinario acume e sbalorditiva prontezza.
L’indomani, al loro secondo incontro, per rispetto al suo illustre avversario, il ragazzino lasciò che fosse il suo superiore a scegliere gli scacchi del colore che preferiva.
“Bianchi o neri?” gli chiese con deferenza.
“Fa lo stesso!” fu la cordiale risposta del direttore che aggiunse:

“Non hanno entrambi le medesime opportunità?

Non si può forse vincere o perdere in uguale misura, sia con gli uni che con gli altri?
Cosa importa il colore?
Quel che conta è giocare, ma giocare bene, rispettando le regole, sia da una parte che dall’altra.”
Finita la partita, il negretto corse giù in giardino.
Intrepido si aprì un varco nella cerchia dei compagni e, a testa alta, s’impose al gruppo affinché accettassero anche lui nei loro giochi.

Brano di Silvia Guglielminetti incluso nel libro “Il secondo libro degli esempi. Fiabe, parabole, episodi per migliorare la propria vita.” Piero Gribaudi Editore.

La partita a scacchi

La partita a scacchi

Disse il giovane all’abate del monastero:
“Vorrei tanto essere un monaco, ma non ho imparato niente di importante nella vita.
Tutto ciò che mio padre mi ha insegnato è giocare a scacchi, cosa che non serve per l’illuminazione!”

“Chi sa che questo monastero non abbia bisogno di svago!”

fu la risposta dell’abate.
L’abate, allora, chiese una scacchiera, convocò un monaco e gli disse di giocare con il ragazzo.
Ma, prima che la partita cominciasse, aggiunse:
“Anche se abbiamo bisogno di svago, non possiamo permettere che stiano tutti a giocare a scacchi.
Dunque, terremo qui solo il migliore dei giocatori.
Se il nostro monaco perderà, andrà via dal monastero e lascerà un posto libero per te.”

L’abate parlava seriamente.

Il ragazzo sentì che era in gioco la sua vita e cominciò a sudare freddo.
La scacchiera divenne il centro del mondo.
Il monaco iniziò a perdere.
Il ragazzo lo incalzò, ma poi notò lo sguardo di santità dell’altro:
da quel momento cominciò a fare di proposito le mosse sbagliate.
In fin dei conti, preferiva perdere, perché il monaco poteva essere più utile al mondo.

All’improvviso, l’abate rovesciò per terra la scacchiera.

“Hai imparato molto di più di ciò che ti hanno insegnato,” disse, “Ti sei concentrato abbastanza per vincere, sei stato capace di lottare per ciò che desideravi.
Poi, hai avuto compassione, ed eri disposto a sacrificarti in nome di una causa nobile.
Che tu sia il benvenuto nel monastero, perché sai equilibrare la disciplina con la misericordia!”

Brano di Paulo Coelho