La misericordia di Dio (Re Milinda)

La misericordia di Dio (Re Milinda)

Il potente re Milinda disse al vecchio e saggio sacerdote:
“Tu dici che l’uomo che ha compiuto tutto il male possibile per cent’anni e prima di morire chiede perdono a Dio, otterrà di rinascere in cielo.
Se invece uno compie un solo delitto e non si pente, finirà all’inferno.

È giusto questo?

Cento delitti sono più leggeri di uno?”
Il vecchio sacerdote rispose al re:
“Se prendo un sassolino grosso così, e lo depongo sulla superficie del lago, andrà a fondo o galleggerà?”

“Andrà a fondo!” rispose il re.

“E se prendo cento grosse pietre, le metto in una barca e spingo la barca in mezzo al lago, andranno a fondo o galleggeranno?” domandò il saggio sacerdote.
“Galleggeranno!” replicò il re.
“Allora cento pietre e una barca sono più leggere d’un sassolino?” chiese allora il sacerdote.
Il re non sapeva che cosa rispondere.

E il vecchio saggio spiegò:

“Così, o re, avviene agli uomini.
Un uomo anche se ha molto peccato ma si appoggia a Dio, non cadrà nell’inferno.
Invece l’uomo che fa il male anche una volta sola, e non ricorre alla misericordia di Dio, andrà perduto!”

Brano tratto dal libro “365 piccole storie per l’anima.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

L’eremita e l’uomo perduto

L’eremita e l’uomo perduto

C’era una volta un uomo perduto.
Da anni viveva di razzie, rapine, massacri e furti.
Era ferocemente crudele, senza pietà, divorato da una rabbia folle.

Era un uomo perduto, un uomo maledetto.

Un giorno, mentre vagabondava in preda a pensieri di cenere e tormento, gli venne l’idea di far visita all’eremita che viveva in una baracca in cima alla pietraia.
Là non c’era nulla da rubare se non un pagliericcio di foglie secche, ma l’uomo perduto cercava una speranza, un perdono.
Il vecchio eremita lo ascoltò.
Infine gli sorrise e gli mostrò un albero morto dal tronco contorto e calcinato da un fulmine e gli disse:
“Vedi quell’albero morto?
Sarai perdonato quando rifiorirà!”
“Sarebbe come dire mai!” esclamò l’uomo, “Allora a che serve, sant’uomo?

Tanto vale che io torni alle mie rapine.”

Il malvivente ridiscese, imprecando, verso il piano, prendendo a calci le pietre.
Ricominciò la vita di saccheggi e violenze, perché era l’unica cosa che sapeva fare.
Per anni ancora seminò paura, odio e disperazione.
Una sera, mentre cercava un luogo isolato e nascosto per consumare la cena, vide una baracca malandata.
Si affacciò cautamente ad una finestrucola e vide una donna che aveva raccolto i suoi bambini intorno ad una pentolaccia.
La donna cantava una specie di ninna-nanna:
“Dormite, piccoli miei.
Dormite fino a domani.
Mamma vi fa la zuppa.
Dormite ancora un po’.
Dormite fino a domani.”

Il bandito entrò e sollevò il coperchio della pentola.

C’erano solo radici e foglie che bollivano nell’acqua.
L’uomo scosse le spalle poderose, afferrò la pentola e buttò tutto il contenuto dalla finestra.
Tagliò a pezzi la tenera carne dell’agnello che aveva rubato proprio quel giorno.
Ravvivò ben bene la fiamma sotto la pentola e se ne andò, piangendo su tanta miseria.
Quel giorno, l’albero morto fiorì.

Brano tratto dal libro “365 piccole storie per l’anima.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il gallo ed il diamante

Il gallo ed il diamante

Un povero gallo, sconvolto e affamato, andava disperatamente alla ricerca di qualcosa da mangiare.
Becchettava ovunque, sotto fasci di legna, tra le foglie, intorno alle pietre e anche dietro ogni sassolino che poteva trovare.

All’improvviso il gallo si fermò.

Lì, davanti a lui, c’era una pietra diversa dalle altre che brillava in modo particolare.
Il gallo cominciò a fissarla perplesso.
Poi, di colpo, capì.

Quella non era una pietra comune.

La sua forma, il suo sfavillio e la sua dimensione lo dimostravano bene.
“Gli uomini ti chiamerebbero diamante,” borbottò il gallo affamato, “ma, speciale o no, per me tu non vali più di un grano di riso!” concluse e si voltò per continuare a becchettare.

Brano senza Autore

Il libro del tesoro in regalo

Il libro del tesoro in regalo

In una piccola città della Persia, ai tempi del grande scià Selciuk, viveva una vedova che aveva un solo figlio.
Quando si sentì giunta alla fine della vita terrena, la vedova chiamò il figlio e gli disse:
“Abbiamo vissuto di stenti, perché siamo poveri; ma ti affido una grande ricchezza:
questo libro.
Mi venne donato da mio padre e contiene tutte le indicazioni necessarie per giungere a un tesoro immenso.
Io non avevo né la forza, né il tempo per leggerlo, ma ora lo affido a te.

Segui le istruzioni e diventerai ricchissimo.”

Il figlio, passata la profonda tristezza per la perdita della madre, cominciò a leggere quel grosso libro antico e prezioso che iniziava con queste parole:
“Per giungere al tesoro leggi pagina dopo pagina.
Se salti subito alla conclusione, il libro sparirà per magia e non potrai raggiungere il tesoro.”
Proseguiva poi descrivendo la quantità di ricchezze accumulate in un paese lontano, ben custodite in una vasta caverna.
Senonché dopo le prime pagine il testo persiano si interrompeva continuando in lingua araba.
II giovane che già si vedeva ricco, per non correre il pericolo che, facendo tradurre il testo, degli altri venissero a conoscenza del tesoro e se ne impadronissero dandogli false informazioni, si mise a studiare con passione l’arabo, sino a che fu in grado di leggere a perfezione il testo.
Ma ecco che, dopo altre pagine, questo continuava in cinese, e poi ancora in altre lingue che il giovane, con accanimento e pazienza, studiò tutte.
Nel frattempo, per vivere, mise a frutto la sua perfetta conoscenza di quelle lingue e cominciò ad essere noto anche nella capitale come uno dei migliori interpreti, cosicché anche la sua vita divenne meno precaria.

Dopo le molte pagine in varie lingue,

il libro proseguiva ancora con istruzioni per amministrare il tesoro, dopo averlo raggiunto, e il giovane studiò volentieri economia, contabilità, e anche la valutazione dei metalli pregiati, delle pietre preziose, dei beni mobili e immobili per non essere imbrogliato una volta in possesso del tesoro.
Nel frattempo metteva a frutto le sue nuove conoscenze anche per assicurarsi un miglior tenore di vita, tanto che la sua fama di poliglotta esperto di finanza e abile economista giunse fino alla corte dello scià.
Lo scià ordinò che fosse assunto tra i suoi consiglieri e gli affidò dapprima dei piccoli incarichi, poi, conoscendolo meglio, gli confidò alcune missioni difficili e delicate e, alla fine, lo nominò amministratore generale dell’impero.
Il giovane non tralasciava però di continuare la lettura del suo libro, che finalmente si addentrava nel vivo della questione, indicando come bisognava fare per costruire un grande ponte e degli argani, delle macchine per giungere alla caverna, aprire le porte di pietra scartando grandi massi, riempiendo anfratti e avvallamenti per appianare la strada, e altre cose del genere.
Sempre con l’idea di non confidare a nessuno il suo segreto, e quindi di non farsi aiutare da altri, il figlio della vedova, divenuto ormai un uomo colto e rispettato, studiò anche ingegneria e urbanistica, al punto che lo scià, apprezzandone il valore e la cultura, lo nominò ministro e architetto di corte, e infine primo ministro.
Non c’era nel regno un altro uomo tanto colto, pratico e abile in tutte le scienze, come il lettore del “Libro del tesoro.”
Proprio nel giorno in cui sposava la figlia dello scià, il giovane arrivò all’ultima pagina del libro.
Con un po’ di batticuore, afferrò il lembo dell’ultima pagina:
stava per conoscere la rivelazione definitiva.

Lentamente voltò il foglio e… scoppiò in una risata.

Di sorpresa, gioia e gratitudine.
L’ultima pagina era una lastra di metallo perfettamente levigato che faceva da specchio:
nell’ultima pagina il figlio della vedova vide il proprio volto.
Un volto di uomo maturo, consapevole, saggio e destinato ad una grande carriera.
E tutto questo grazie al libro che sua madre gli aveva donato.
Il grande tesoro era lui stesso e il libro l’aveva aiutato a scoprirlo.

Brano tratto dal libro “Nuove storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

La ragazza ed il mastelletto (Mastellina)

La ragazza ed il mastelletto (Mastellina)

Tanti, tanti anni fa, in un piccolo villaggio, vivevano un uomo e una donna.
Prima essi avevano abitato in una città, in un palazzo bello e ricco.
Ora invece vivevano poveramente in una misera capanna.
In tanta sfortuna, la loro unica consolazione era la figlia che avevano.
Sebbene ancor molto giovane, tutti l’ammiravano già per la sua straordinaria bellezza.
Ma, ahimé, prima che la ragazza fosse cresciuta, il padre morì e dopo pochi mesi anche la madre cadde gravemente malata.
“Che sarà di mia figlia, quando anch’io sarò morta?” ripeteva piangendo la donna, “È povera, e la sua bellezza sarà per lei soltanto un castigo.”
Quando la poverina sentì d’esser prossima a morire, chiamò a sé la ragazza, le raccomandò di essere buona e coraggiosa, e le disse di portarle il mastelletto di legno che stava dietro la porta.
La ragazza ubbidì e si inginocchiò accanto al letto della madre morente.
La donna alzò il mastelletto e lo mise in testa alla figlia in modo da nasconderle quasi completamente la faccia.
“Ora, figlia mia,” disse la donna, “promettimi di non toglierti mai di testa questo mastelletto.
Altrimenti, sarai molto infelice.”

La ragazza promise.

Morta che fu la madre, la ragazza campò come meglio poteva.
Lavorava sodo aiutando i contadini nei campi, e mai nessuno udì da lei una parola di lamento per quel che doveva fare.
La gente che la vedeva sempre col mastelletto in testa cominciò a chiamarla Mastellina.
A poco a poco tutti dimenticarono che sotto quella strana maschera si nascondeva il più bel volto del paese.
Un ricco possidente nei cui campi la ragazza lavorava, finì per accorgersi di lei, ammirato dalla sua modestia e diligenza.
Un giorno la chiamò, e le offrì di andare a servizio nella sua casa a curare la moglie ch’era molto malata.
La ragazza accettò l’incarico e svolse così bene il suo compito da meritarsi la fiducia di tutti.
Un giorno, il maggiore dei figli del padrone tornò a casa dalla città dove studiava.
Conobbe Mastellina, prese ad ammirare il suo carattere tranquillo e la sua indole buona, e andava chiedendo alla gente del villaggio notizie su di lei.
Seppe così che era un povera orfanella, da tutti chiamata Mastellina a causa appunto del mastelletto che portava in testa per nascondere, si diceva, i brutti lineamenti del suo viso.
Ma una sera, il giovanotto si avvicinò a Mastellina che portava un pesante secchio pieno d’acqua e vide il volto della ragazza riflesso nell’acqua del secchio.

Era di una bellezza eccezionale.

Egli decise subito di sposare la giovane serva.
I suoi genitori non approvarono la sua scelta, ma il giovane fu irremovibile e tanto disse e tanto fece che riuscì a fissare la data delle nozze.
Mastellina rimase molto male quando seppe che i suoi padroni non l’accettavano volentieri come nuora in casa loro.
Essa piangeva giorno e notte, e pregò il suo fidanzato di sposare una donna che potesse portargli una ricca dote.
Ma una notte essa vide in sogno sua madre, la quale le disse:
“Non temere, figlia mia.
Sposa pure il figlio del tuo padrone.”
La ragazza ne fu felice, si alzò tutta allegra e cominciò a prepararsi per le nozze.
Prima della cerimonia nuziale, tutti volevano togliere dal capo della sposa quello strano casco, ma nessuno ci riuscì.

Lo sposo però disse:

“Io le voglio tanto bene, e la sposerò così com’è!”
Le nozze furono celebrate.
Dopo la cerimonia ci fu uno splendido banchetto:
tutti erano intorno alla sposa a brindare alla sua salute, quando, all’improvviso, il mastelletto si spaccò in due cadendo per terra a pezzi con gran fracasso.
Oh meraviglia!
I pezzi erano tutti d’oro, d’argento e di pietre preziose.
Così la povera ragazza poté vantare una dote più bella e più ricca di quella di una principessa.
Ma quel che più stupì gli invitati fu la straordinaria bellezza della sposa.
I brindisi in onore della coppia felice non si contarono più; grida, canti e risate andarono avanti fino al mattino.

Brano di Bruno Ferrero

Due sassolini azzurri

Due sassolini azzurri

Due sassolini, grossi sì e no come una castagna, giacevano sul greto di un torrente.
Stavano in mezzo a migliaia di altri sassi, grossi e piccoli, eppure si distinguevano da tutti gli altri.
Perché erano di un intenso colore azzurro.
Loro due sapevano benissimo di essere i più bei sassi del torrente e se ne vantavano dal mattino alla sera.
“Noi siamo i figli del cielo!” strillavano, quando qualche sasso plebeo si avvicinava troppo.
“State a debita distanza!
Noi abbiamo il sangue blu.
Non abbiamo niente a che fare con voi!”
Erano insomma due sassi boriosi e insopportabili.
Passavano le giornate a pensare che cosa sarebbero diventati, non appena qualcuno li avesse scoperti:
“Finiremo certamente incastonati in qualche collana insieme ad altre pietre preziose come noi!”

“Sul dito bianco e sottile di qualche gran dama!”

“Sulla corona della regina d’Olanda!”
Un bel mattino, mentre i raggi del sole giocavano con le trine di spuma dei sassi più grandi, una mano d’uomo entrò nell’acqua e raccolse i due sassolini azzurri.
“Evviva!” gridarono i due all’unisono, “Si parte!”
Finirono in una scatola di cartone insieme ad altri sassi colorati.
“Ci rimarremo ben poco!” dissero, sicuri della loro indiscussa bellezza.
Poi una mano li prese e li schiacciò di malagrazia contro il muro in mezzo ad altri sassolini, in un letto di cemento tremendamente appiccicoso.
Piansero, supplicarono, minacciarono.
Non ci fu niente da fare.
I due sassolini azzurri si ritrovarono inchiodati al muro.
Il tempo ricominciò a scorrere, lentamente.
I due sassolini azzurri erano sempre più arrabbiati e non pensavano che ad una cosa: fuggire.
Ma non era facile eludere la morsa del cemento, che era inflessibile e incorruttibile.

I due sassolini non si persero di coraggio.

Fecero amicizia con un filo d’acqua, che scorreva ogni tanto su di loro.
Quando furono sicuri della lealtà dell’acqua, le chiesero il favore che stava loro tanto a cuore. “Infiltrati sotto di noi, per piacere.
E staccaci da questo maledetto muro!”
Fece del suo meglio e dopo qualche mese i sassolini già ballavano un po’ nella loro nicchia di cemento.
Finalmente, una notte umida e fredda, Tac! Tac!:
i due sassolini caddero per terra.
“Siamo liberi!” esclamarono.
E mentre erano sul pavimento, lanciarono un’occhiata verso quella che era stata la loro prigione:
“Ooooh!”
La luce della luna che entrava da una grande finestra illuminava uno splendido mosaico.
Migliaia di sassolini colorati e dorati formavano la figura di Nostro Signore.
Era il più bel Gesù che i due sassolini avessero mai visto.
Ma il volto… il dolce volto del Signore, in effetti, aveva qualcosa di strano.

Sembrava quello di un cieco.

Ai suoi occhi mancavano le pupille!
“Oh, no!” I due sassolini azzurri compresero.
Loro erano le pupille di Gesù.
Chissà come stavano bene, come brillavano, come erano ammirati, lassù.
Rimpiansero amaramente la loro decisione.
Quanto erano stati insensati!
Al mattino, un sacrestano distratto inciampò nei due sassolini e, poiché nell’ombra e nella polvere tutti i sassi sono uguali, li raccolse e, brontolando, li buttò nel bidone della spazzatura.

Brano di Bruno Ferrero

Gesù solo un dettaglio?

Gesù solo un dettaglio?

Un parroco preparava con cura meticolosa le manifestazioni esterne della sua parrocchia.
Soprattutto la solenne processione del Corpus Domini.
Voleva che la festa fosse un vero avvenimento per il paese.
Tre mesi prima della data, radunava un apposito comitato e organizzava i gruppi di lavoro.

Il giorno della festa tutto il paese era mobilitato.

Alle dieci e trenta in punto, la processione cominciò a snodarsi.
I chierichetti con i candelabri, i paggetti nei costumi colorati, le bambine con il vestito bianco che spargevano petali di rosa, i giovanotti della società sportiva con le tute gialle e blu, gli uomini e le donne delle confraternite con i labari colorati e i nastri azzurri, gialli, rossi, poi l’Azione Cattolica, i ragazzi dell’Oratorio, la gente, altri chierichetti e la banda musicale del paese.

Una processione magnifica!

Quando la banda intonò il pezzo più solenne, dal portale della chiesa uscì lentamente il baldacchino di broccato dorato con i pennacchi rossi e bianchi, sorretto da quattro baldi giovani.
Sotto il baldacchino, incedeva il parroco, rivestito del piviale più prezioso, che reggeva il pesante ostensorio d’oro tempestato di pietre preziose.
Improvvisamente il viceparroco, che accompagnava i chierichetti, si avvicinò allarmato al parroco e gli sussurrò:
“Padre, nell’ostensorio non c’è l’ostia!”

Il parroco ribatté seccato:

“Non vedi a quante cose devo pensare?
Non posso occuparmi anche dei dettagli!”
Gesù solo un dettaglio?
Per tanti, troppi, è così.

Brano tratto dal libro “Il segreto dei pesci rossi.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

La misericordia di Dio (La barca che galleggia)

La misericordia di Dio
(La barca che galleggia)

Un potente re chiese al vecchio sacerdote:
“Tu dici che l’uomo che ha compiuto tutto il male possibile per cent’anni e prima di morire chiede perdono a Dio, otterrà di rinascere in cielo.
Se invece uno compie un solo delitto e non si pente finirà all’inferno.

È giusto questo?

Cento delitti sono più leggeri di uno?”
Il vecchio sacerdote replicò al re:
“Se prendo un sassolino grosso così, e lo depongo sulla superficie del lago, andrà a fondo o galleggerà?”

“Andrà a fondo!” rispose il re.

“E se prendo cento grosse pietre, le metto in una barca e spingo la barca in mezzo al lago, andranno a fondo o galleggeranno?” chiese l’anziano sacerdote.
“Galleggeranno!” disse il re.
“Allora cento pietre e una barca sono più leggere d’un sassolino?” domandò il saggio.
Il re non sapeva che cosa rispondere.

Il vecchio saggio spiegò:

“Così, o re, avviene agli uomini.
Un uomo anche se ha molto peccato ma si appoggia a Dio, non cadrà nell’inferno.
Invece l’uomo che fa il male anche una volta sola, e non ricorre alla misericordia di Dio, andrà perduto.”

Brano senza Autore.

La cisterna screpolata

La cisterna screpolata

Erano due cisterne a distanza di qualche decina di metri.
Si guardavano e, qualche volta, facevano un po’ di conversazione.

Erano molto diverse.

La prima cisterna era perfetta.
Le pietre che la formavano erano salde e ben compaginate.
A tenuta stagna.
Non una goccia della preziosa acqua era mai stata persa per causa sua.

La seconda presentava invece fenditure,

come delle ferite, dalle quali sfuggivano rivoletti d’acqua.
La prima, fiera e superba della sua perfezione, risaltava nettamente.
Solo qualche insetto osava avvicinarsi o qualche uccello.

L’altra era coperta di arbusti fioriti,

convolvoli e more, che si dissetavano all’acqua che usciva dalle sue screpolature.
Gli insetti ronzavano continuamente intorno a lei e gli uccelli facevano il nido sui bordi.
Non era perfetta, ma si sentiva tanto tanto felice.

Brano tratto dal libro “Quaranta storie nel deserto.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Gli innamorati e l’opale

Gli innamorati e l’opale

C’era una volta una coppia di giovani fidanzati che si fermò ad ammirare le pietre preziose esposte nella vetrina di una gioielleria.
Entrati nel negozio venero incantati da diamanti, zaffiri e smeraldi che il gioielliere mostrò loro.
La coppia stava cercando una pietra che rappresentasse simbolicamente il loro amore.
Il loro sguardo cadde su una pietra modesta, scura e senza splendore.
Il gioielliere lesse la domanda nei loro occhi e spiegò:

“Questo è un opale:

è fatto di silice, polvere e sabbia del deserto, e deve la sua bellezza ad un difetto invece che alla sua perfezione.
L’opale è una pietra con il cuore spezzato, poiché è pieno di minuscole fessure che permettono all’aria di penetrare all’interno.

L’aria, poi, rifrange la luce,

e il risultato è che l’opale possiede delle sfumature così incantevoli da essere chiamato “lampada di fuoco,” perché ha dentro il soffio di Dio.”
Poi il gioielliere prese la pietra e la strinse forte avvolgendola con tutta la sua mano, continuando a parlare ai due giovani innamorati:
“Un opale perde la sua lucentezza se viene messo in un posto freddo e buio, ma torna ad essere luminoso quando è scaldato dal tepore di una mano oppure è illuminato dalla luce.”

L’uomo aprì la mano.

La pietra era un palpito di luce tenera, morbida, carezzevole.
Alla fine i due giovani innamorati acquistano proprio l’opale come simbolo del loro amore.

Brano senza Autore.