Lettera di un anziano padre al figlio

Lettera di un anziano padre al figlio

Se un giorno mi vedrai vecchio, se mi sporco quando mangio e non riesco a vestirmi, abbi pazienza con me:
ricorda il tempo che ho trascorso ad insegnarti queste cose.
Se quando parlo con te ripeto sempre le stesse cose, non mi interrompere.

Ascoltami.

Quando eri piccolo dovevo raccontarti ogni sera la stessa storia finché non ti addormentavi.
Quando non voglio lavarmi, non biasimarmi e non farmi vergognare.
Ricordati quando dovevo correrti dietro inventando delle scuse perché non volevi fare il bagno.
Quando vedi la mia ignoranza per le nuove tecnologie, dammi il tempo necessario e non guardarmi con quel sorrisetto ironico.
Ho speso molta pazienza per insegnarti l’ABC e le prime addizioni.
Quando ad un certo punto non riesco a ricordare o perdo il filo del discorso, dammi il tempo necessario per ricordare, e se non ci riesco non ti innervosire:

la cosa più importante non è quello che dico, ma il mio bisogno di essere lì con te ed averti davanti a me mentre mi ascolti.

Quando le mie gambe stanche non mi consentono di tenere il tuo passo non trattarmi come fossi un peso.
Vieni verso di me con le tue mani forti nello stesso modo con cui io l’ho fatto con te quando muovevi i tuoi primi passi.
Quando dico che vorrei essere morto, non arrabbiarti.
Un giorno comprenderai che cosa mi spinge a dirlo.

Cerca di capire che alla mia età non si vive, si sopravvive.

Un giorno scoprirai che nonostante i miei errori ho sempre voluto il meglio per te e che ho tentato di spianarti la strada.
Dammi un po’ del tuo tempo, dammi un po’ della tua pazienza, dammi una spalla su cui poggiare la testa, allo stesso modo in cui io l’ho fatto per te.
Aiutami a camminare, aiutami ad arrivare alla fine dei miei giorni con amore, affetto e pazienza.
In cambio io ti darò sorrisi e l’immenso amore che ho sempre avuto per te.
Ti amo, figlio mio.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Segui Gesù come Maria

Segui Gesù come Maria

Una notte ho fatto un sogno splendido.
Vidi una strada lunga, una strada che si snodava dalla terra e saliva su nell’aria, fino a perdersi tra le nuvole, diretta in cielo.
Ma non era una strada comoda, anzi era una strada piena di ostacoli, cosparsa di chiodi arrugginiti, pietre taglienti e appuntite, pezzi di vetro.
La gente camminava su quella strada a piedi scalzi.
I chiodi si conficcavano nella carne, molti avevano i piedi sanguinanti.

Le persone però non desistevano:

volevano arrivare in cielo.
Ma ogni passo costava sofferenza e il cammino era lento e penoso.
Ma poi, nel mio sogno, vidi Gesù ché avanzava.
Era anche lui a piedi scalzi.
Camminava lentamente, ma in modo risoluto.

E neppure una volta si ferì i piedi.

Gesù saliva e saliva.
Finalmente giunse al cielo e là si sedette su un grande trono dorato.
Guardava in giù, verso quelli che si sforzavano di salire.
Con lo sguardo e i gesti li incoraggiava.
Subito dopo di lui, avanzava Maria, la sua mamma.
Maria camminava ancora più veloce di Gesù.

Sapete perché?

Metteva i suoi piedi nelle impronte lasciate da Gesù.
Così arrivò presto accanto a suo Figlio, che la fece sedere su una grande poltrona alla sua destra.
Anche Maria si mise ad incoraggiare quelli che stavano salendo e invitava anche loro a camminare nelle orme lasciate da Gesù, come aveva fatto lei.
Gli uomini più saggi facevano proprio così e procedevano spediti verso il cielo.
Gli altri si lamentavano per le ferite, si fermavano spesso, qualche volta desistevano del tutto e si accasciavano sul bordo della strada sopraffatti dalla tristezza.

Brano tratto dal libro “Il canto del grillo.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Il cigno e la rana vanitosa

Il cigno e la rana vanitosa

C’era una volta, in un verde stagno, una verde ranocchia convinta di essere l’animale più bello tra tutti gli animali.
Tutto il giorno stava a pavoneggiarsi e gonfiava il petto orgogliosa del suo aspetto.
Un giorno nello stagno le si avvicinò un cigno, dal collo lungo e dalle piume candide come la neve.

La rana impertinente gli disse:

“Spostati! Che mi fai ombra e non riesco a vedere la mia suprema bellezza riflessa nello stagno!”
Il cigno, un po’ perplesso si spostò un po’ più in là e si mise ad osservare cosa faceva la ranocchia.
Questa stava tutto il tempo a rimirare la sua immagine riflessa nell’acqua e a dire:
“Sono bella, sono bellissima, sono la più bella creatura del creato, e sono verde, verdissima, la più verde delle creature e guarda come si gonfia il mio petto!”

Il cigno davvero incredulo le si avvicinò un’altra volta e le chiese con molta cortesia:

“Scusami rana, ma credo che tu stia un pochino esagerando; certo sei bella tra le rane, ma di sicuro non sei la più bella tra le creature del creato.”
La rana indispettita sfidò il cigno:
“Credi questo?
Pensi di essere più bello di me?
Allora faremo una gara di bellezza e vedremo chi è il più bello tra noi due!”
Il cigno cercò in ogni modo di rifiutare, persino chiese scusa alla rana, certo non intendeva offenderla, ma tanto insistette la creatura vanitosa che al fine il cigno cedette.
Così chiamarono a raccolta tutti gli animali dello stagno e d iniziarono ad interrogarli:

“Chi è il più bello tra noi due?”

Naturalmente tutti dicevano che più bello era il cigno, ma la rana non potendo accettare la sconfitta continuava a gonfiare il petto, credendo di apparire più bella.
Si gonfiò tanto, ma tanto che alla fine esplose!
Il cigno che era buono e che mai avrebbe voluto concludere a quel modo la gara decise allora di seppellire il povero animale straziato e sulla sua tomba scrisse:
“Qui giace la rana più bella che io abbia mai visto.”

Brano tratto dal libro “40 Racconti di Animali.” Edizione Rusconi Libri.

La volpe e la cicogna

La volpe e la cicogna

La volpe e la cicogna una volta erano buone amiche, spesso passavano insieme del tempo.
Un giorno la volpe invitò a pranzo la cicogna; per farle uno scherzo,

le servì della minestra in una scodella poco profonda:

la volpe leccava facilmente, ma la cicogna riusciva soltanto a bagnare la punta del lungo becco e dopo pranzo era più affamata di prima.
“Mi dispiace,” disse la volpe ghignando tra i denti, “la minestra non è di tuo gradimento?”

“Oh, non ti preoccupare:

spero anzi che vorrai restituirmi la visita e che verrai presto a pranzo da me.” rispose la cicogna.
Così fu stabilito il giorno in cui la volpe sarebbe andata a trovare la cicogna.
Sedettero a tavola, mai i cibi erano preparati in vasi dal collo lungo e stretto nei quali la volpe non riusciva ad infilare il muso:

tutto ciò che poté fare fu leccare l’esterno del vaso,

mentre la cicogna tuffava il becco nel brodo e mangiava con gran gusto:
“Non ti piace, cara, ciò che ho preparato?”
Fu così che la volpe burlona fu a sua volta presa in giro dalla cicogna.

Favola di Esopo

L’asinello vanitoso

L’asinello vanitoso

C’era una volta in un paesello in collina un asinello bianco che si chiamava Isaia.
Era un asinello assolutamente comune, uguale a tutti gli altri non più alto non più basso di tutti gli altri asinelli, ma data la disponibilità e gentilezza del suo padrone ogni anno Isaia veniva scelto per portare la statua del santo in processione per il paese.
Anche quell’anno gli fu affidato quel compito e subito Isaia iniziò a vantarsi con gli altri animali della fattoria:
“Sono il più bello di tutti gli animali del paese e per questo tutti mi guardano e mi ammirano!”
Il giorno della processione sulla groppa dell’asinello fu posizionata la statua del santo e il cammino per le strade del paese iniziò, ma iniziò anche Isaia a vantarsi:

“Tutti mi guardano perché sono il più bello.

Le donne del paese mi lanciano petali di fiori quando passo.
I bambini si inchinano.
Gli uomini mi aprono la strada ossequiosi.”
Gli altri animali non ne potevano davvero più, tutto il giorno a vantarsi, ed in più Isaia, convinto della sua superiorità non voleva più saperne di lavorare come tutti gli altri.
Il padrone si rese conto del gran disagio che si stava creando e così decise di parlare al suo asino vanitoso:
“Isaia, durante la processione la gente non guarda te, ma guarda il Santo!”

“Non è possibile!

Io sono l’animale più bello del paese!” replicò l’asino.
“Basta Isaia,” disse il padrone, “questa storia deve finire!”
Così quando arrivò il giorno della processione il padrone, senza nulla dire, prese il maiale, lo pulì per bene e ci caricò in groppa la statua del Santo.
La gente del paese lo guardava ammirata, le donne gli lanciavano petali di fiori, i bambini si inchinavano e gli uomini gli aprivano la strada ossequiosi.

Allora Isaia capì.

Non era lui che la gente guardava e ammirava.
Da quel giorno l’asinello imparò a essere meno vanitoso e a rispettare gli altri animali della fattoria.

Brano senza Autore, tratto dal Web

L’elefante incatenato

L’elefante incatenato

Quando ero piccolo adoravo il circo, ero attirato in particolar modo dall’elefante che, come scoprii più tardi, era l’animale preferito di tanti altri bambini.
Durante lo spettacolo faceva sfoggio di un peso, una dimensione e una forza davvero fuori dal comune… ma dopo il suo numero, e fino ad un momento prima di entrare in scena, l’elefante era sempre legato ad un paletto conficcato nel suolo, con una catena che gli imprigionava una delle zampe.
Eppure il paletto era un minuscolo pezzo di legno piantato nel terreno soltanto per pochi centimetri e anche se la catena era grossa mi pareva ovvio che un animale del genere potesse liberarsi facilmente di quel paletto e fuggire.

Che cosa lo teneva legato?

Chiesi in giro a tutte le persone che incontravo di risolvere il mistero dell’elefante; qualcuno mi disse che l’elefante non scappava perché era ammaestrato… allora posi la domanda ovvia:
“Se è ammaestrato, perché lo incatenano?”
Non ricordo di aver ricevuto nessuna risposta coerente.

Con il passare del tempo dimenticai il mistero dell’elefante e del paletto.

Per mia fortuna qualche anno fa ho scoperto che qualcuno era stato tanto saggio da trovare la risposta: l’elefante del circo non scappa perché è stato legato a un paletto simile fin da quando era molto, molto piccolo.
Chiusi gli occhi e immaginai l’elefantino indifeso appena nato, legato ad un paletto che provava a spingere, tirare e sudava nel tentativo di liberarsi, ma nonostante gli sforzi non ci riusciva perché quel paletto era troppo saldo per lui, così dopo vari tentativi un giorno si rassegnò alla propria impotenza.

L’elefante enorme e possente che vediamo al circo non scappa perché crede di non poterlo fare:

sulla sua pelle è impresso il ricordo dell’impotenza sperimentata e non è mai più ritornato a provare… non ha mai più messo alla prova di nuovo la sua forza… mai più!

A volte viviamo anche noi come l’elefante pensando che non possiamo fare un sacco di cose semplicemente perché una volta, un po’ di tempo fa ci avevamo provato ed avevamo fallito, ed allora sulla pelle abbiamo inciso “non posso, non posso e non potrò mai.”
L’unico modo per sapere se puoi farcela è provare di nuovo mettendoci tutto il cuore… tutto il tuo cuore!”

Brano tratto dal libro “Lascia che ti racconti. Storie per imparare a vivere.” di Jorge Bucay

La virgola ribelle

La virgola ribelle

C’era una volta una virgola seccata dalla poca considerazione in cui tutti la tenevano.
Perfino i bambini delle elementari si facevano beffe di lei.

Che cos’è una virgola, dopo tutto?

Nei giornali nessuno la usa più.
La buttano, a casaccio.
Un giorno la virgola si ribellò.
Il Presidente scrisse un breve appunto dopo un lungo colloquio con il Presidente avversario:

“Pace, impossibile lanciare i missili.”

e lo passò frettolosamente al Generale.
In quel momento la piccola, trascurata virgola mise in atto il suo piano e si spostò.
Si spostò solo di una parola, appena un saltino.

Quello che lesse il Generale fu:

“Pace impossibile, lanciare i missili!”
E scoppiò la Guerra Mondiale.

Fai attenzione alle piccole cose.
Sono il seme di quelle grandi.

Brano tratto dal libro “Il segreto dei pesci rossi.” di Bruno Ferrero. Edizione Elledici.

Il ricamo

Il ricamo

Quando ero piccolo mia madre era solita cucire tanto.
Mi sedevo vicino a lei e le chiedevo cosa stesse facendo.

Lei mi rispondeva che stava ricamando.

Osservavo il lavoro di mia madre da un punto di vista più basso rispetto a dove stava seduta lei, cosicché ogni volta mi lamentavo dicendole che dal mio punto di vista ciò che stava facendo mi sembrava molto confuso.
Lei mi sorrideva, guardava verso il basso e gentilmente mi diceva:
“Figlio mio, vai fuori a giocare un po’ e quando avrò terminato il mio ricamo ti metterò sul mio grembo e ti lascerò guardare dalla mia posizione!”
Mi domandavo perché utilizzava dei fili di colore scuro e perché mi sembravano così disordinati visti da dove stavo io.

Alcuni minuti dopo sentivo la voce di mia madre che mi diceva:

“Figlio mio, vieni qua e siediti sul mio grembo.”
Io lo facevo immediatamente e mi sorprendevo e mi emozionavo al vedere i bei fiori o il bel tramonto nel ricamo.
Non riuscivo a crederci; da sotto si vedeva così confuso.

Allora mia madre mi diceva:

“Figlio mio, di sotto si vedeva confuso e disordinato ma non ti rendevi conto che di sopra c’era un progetto.
C’era un disegno, io lo stavo solo seguendo.
Adesso guardalo dalla mia posizione e saprai ciò che stavo facendo!”

Brano tratto dal libro “Il Dio Padre di Gesù.” di Giovanni Maddamma

Signore, lasciami prendere il tuo posto

Signore, lasciami prendere il tuo posto

Il vecchio eremita Sebastiano pregava di solito in un piccolo santuario isolato su una collina.
In esso si venerava un crocifisso che aveva ricevuto il significativo titolo di “Cristo delle Grazie.”
Arrivava gente da tutto il paese per impetrare grazie e aiuto.
Il vecchio Sebastiano decise un giorno di chiedere anche lui una grazia e, inginocchiato davanti all’immagine, pregò:
“Signore, lasciami prendere il tuo posto.
Voglio soffrire con te.
Voglio stare io sulla croce.”
Rimase silenzioso con gli occhi fissi alla croce, aspettando una risposta.

Improvvisamente il Crocifisso mosse le labbra e gli disse:

“Amico mio, accetto il tuo desiderio, ma ad una condizione:
qualunque cosa succeda, qualunque cosa tu veda, devi stare sempre in silenzio!”
“Te lo prometto, Signore.” rispose Sebastiano.
Avvenne lo scambio.
Nessuno dei fedeli si rese conto che ora c’era Sebastiano inchiodato alla croce, mentre il Signore aveva preso il posto dell’eremita.
I devoti continuavano a sfilare, invocando grazie, e Sebastiano, fedele alla promessa, taceva.
Finché un giorno…
Arrivò un riccone e, dopo aver pregato, dimenticò sul gradino la sua borsa piena di monete d’oro.

Sebastiano vide, ma conservò il silenzio.

Non parlò neppure un’ora dopo, quando arrivò un povero che, incredulo per tanta fortuna, prese la borsa e se ne andò.
Né aprì bocca quando davanti a lui si inginocchiò un giovane che chiedeva la sua protezione prima di intraprendere un lungo viaggio per mare.
Ma non riuscì a resistere quando vide tornare di corsa l’uomo ricco che, credendo che fosse stato il giovane a derubarlo della borsa di monete d’oro, gridava a gran voce per chiamare le guardie e farlo arrestare.
Si udì allora un grido:
“Fermi!”
Stupiti, tutti guardarono in alto e videro che era stato il crocifisso a gridare.
Sebastiano spiegò come erano andate le cose.
Il ricco corse allora a cercare il povero.
Il giovane se ne andò in gran fretta per non perdere il suo viaggio.
Quando nel santuario non rimase più nessuno, Cristo si rivolse a Sebastiano e lo rimproverò:

“Scendi dalla croce.

Non sei degno di occupare il mio posto.
Non hai saputo stare zitto!”
“Ma, Signore!” protestò, confuso, Sebastiano, “Dovevo permettere quell’ingiustizia?”
“Tu non sai,” rispose il Signore, “che al ricco conveniva perdere la borsa, perché con quel denaro stava per commettere un’ingiustizia.
Il povero, al contrario, aveva un gran bisogno di quel denaro.
Quanto al ragazzo, se fosse stato trattenuto dalle guardie avrebbe perso l’imbarco e si sarebbe salvato la vita, perché in questo momento la sua nave sta colando a picco in alto mare!”

Brano tratto dal libro “C’è qualcuno lassù.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

La predica di San Francesco e frate Ginepro

La predica di San Francesco e frate Ginepro

Un giorno, uscendo dal convento, San Francesco incontrò frate Ginepro.
Era un frate semplice e buono e San Francesco gli voleva molto bene.

Incontrandolo gli disse:

“Frate Ginepro, vieni, andiamo a predicare.”
“Padre mio,” rispose, “sai che ho poca istruzione.
Come potrei parlare alla gente?”
Ma poiché san Francesco insisteva, frate Ginepro acconsentì.
Girarono per tutta la città, pregando in silenzio per tutti coloro che lavoravano nelle botteghe e negli orti.

Sorrisero ai bambini, specialmente a quelli più poveri.

Scambiarono qualche parola con i più anziani.
Accarezzarono i malati.
Aiutarono una donna a portare un pesante recipiente pieno d’acqua.

Dopo aver attraversato più volte tutta la città, san Francesco disse:

“Frate Ginepro, è ora di tornare al convento.”
“E la nostra predica?” chiese frate Ginepro.
“L’abbiamo fatta… l’abbiamo fatta” rispose sorridendo il santo.

Brano senza Autore, tratto dal Web