Il sovrano e la meridiana

Il sovrano e la meridiana

Un sovrano orientale portò, da un viaggio in Occidente, una meridiana per i suoi sudditi, che non conoscevano ancora le ore.
Quel regalo singolare cambiò la vita della gente del regno.
I sudditi, guardando la meridiana, impararono rapidamente a dividere la giornata in ore e a suddividere il tempo a loro disposizione.

Diventarono puntuali, ordinati, fidati e diligenti.

Così, in pochi anni, si guadagnarono agiatezza e ricchezza.
Quando il sovrano morì, i buoni e prosperi sudditi vollero erigere un monumento che lo ricordasse degnamente.
E siccome la meridiana era il simbolo della bontà del re e l’origine della loro ricchezza,

pensarono di costruirle intorno un magnifico tempio con una bella cupola dorata.

Quando il tempio fu completato e la cupola d’oro coprì la meridiana, i raggi del sole naturalmente non poterono più raggiungerla.
Quel filo d’ombra che, grazie al sole, aveva segnato il tempo per i cittadini, naturalmente scomparve insieme al punto d’orientamento costituito dalla meridiana stessa.

Alcuni cittadini smisero di essere puntuali,

altri tornarono ad essere poco precisi e altri ancora si scordarono la diligenza.
Ciascuno per la sua strada senza badare al prossimo.
E tutto il regno andò in rovina!

Brano senza Autore

La voce della conchiglia

La voce della conchiglia

Il Re di “Nonsodove”, essendo ormai vecchio, convocò i suoi tre figli:
Valente, forte e risoluto ma arrogante;
Folco, intelligente ma avido e ambizioso;
Giannino, ancora giovane, il volto lentigginoso, svelto e furbo ma oggetto degli scherzi dei fratelli, che non lo stimavano molto.
Il Re disse ai figli:
“È ora che io designi il mio successore al trono.
Voglio bene a tutti e tre e non so chi scegliere.
Pertanto ho pensato che chi di voi mi porterà lo Smeraldo Verde sarà re.”

I figli sentendo quelle parole strabuzzarono gli occhi:

lo Smeraldo Verde era stato il sogno di tutti i cavalieri, ma tutti coloro che avevano cercato di prenderlo erano morti.
Il re allora disse:
“So che vi ho chiesto una cosa molto difficile, per questo ho pensato di darvi qualcosa che vi potrà giovare!”
Dicendo così aprì un contenitore in cui vi erano una spada, un sacchetto di monete d’oro e una conchiglia.
Il re disse ancora:
“Ecco: rappresentano la mia forza, la mia ricchezza, le mie parole: la lama di questa spada non può essere spezzata, chi avrà queste monete d’oro sarà il più ricco della terra e in questa conchiglia ci sono tutte le mie parole, quelle che vi ho detto da quando siete nati ad oggi. Scegliete!”
Valente e Folco si scambiarono un’occhiatina e scelsero secondo le loro inclinazioni, senza badare a Giannino.
Con mossa rapida Valente afferrò la spada fiammeggiante e Folco il sacco di monete.
Giannino prese la conchiglia e se la legò al collo.
Poi tutti e tre partirono.
Valente sul suo focoso destriero; Folco sulla sua carrozza dorata; Giannino a piedi, ma fischiettando.
Lo Smeraldo Verde si trovava nella grotta Ferrea e per raggiungerla bisognava attraversare per prima la foresta abitata dal bandito Molk.
Valente ingaggiò una furibonda battaglia contro i suoi uomini;
Folco gli offrì centomila monete d’oro, mentre Molk ne voleva di più.
Quando giunse Giannino i fratelli erano ancora là, uno a combattere e l’altro a contrattare.

Portò la conchiglia all’orecchio e sentì la voce del padre che gli diceva:

“Si prendono più mosche con un cucchiaio di miele che con un barile di aceto!”
Giannino preparò una deliziosa bevanda per il bandito e gliela offrì lodando per il suo coraggio e la sua generosità, cosa che mai nessuno gli aveva detto.
Molk, commosso gli chiese cosa volesse in cambio.
Giannino chiese di poter passare con i suoi fratelli attraverso la sua foresta.
Molk glielo concesse.
Giannino portò all’orecchio la conchiglia e sentì ancora la voce del padre:
“Le ore del mattino hanno l’oro in bocca!”
Mentre era ancora notte riprese il cammino; giunse al lago delle tempeste prima dell’alba, quando ancora era ghiacciato e lo poté attraversare.
I fratelli, invece, avendo dormito fino a tardi, quando arrivarono al lago il sole aveva sciolto il ghiaccio e perciò dovettero fare il giro lungo.
Il terzo ostacolo prima della grotta ferrea era la palude della tristezza, immensa e piena d’insidie.
Valente con la sua armatura veniva risucchiato dalle sabbie mobili; la carrozza di Folco si capovolse e tutte le monete andarono a fondo:

tornati indietro, si sedettero ai bordi della palude disperati.

Anche Giannino scivolò tante volte e fu sul punto di temere per la stessa vita, ma ogni volta portava all’orecchio la conchiglia dalla quale gli giungevano le parole del padre che lo guidavano e lo incoraggiavano.
Così riuscì a raggiungere la grotta ferrea e a prendere lo Smeraldo Verde.
Allora, pieno di gioia, gridò:
“Grazie, papà!”

Brano tratto dal libro “Tutte storie. Per la catechesi, le omelie e la scuola di religione.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Donarsi a Gesù

Donarsi a Gesù

Faceva un freddo pungente.
I pastori si scaldavano attorno al fuoco.
La notizia della nascita di un nuovo re, rivelata proprio a loro dalle luminose creature alate, li aveva sconvolti.

Volevano andare a vederlo e venerarlo e implorare da lui salute e pace.

Anche Filippo, il ragazzino che faceva da apprendista nel gruppo di pastori, aveva sentito l’annuncio degli angeli e stava già pensando a che cosa portare in dono al Bambino di Betlemme.
Ma se tutti i pastori si allontanavano, chi avrebbe badato alle pecore?
Non potevano certo lasciarle da sole!
Nessuno di loro voleva rinunciare a vedere il neonato Re.

Uno dei pastori ebbe un’idea:

sarebbe rimasto a custodire le pecore quello di loro che portava il dono più leggero.
Portarono la bilancia vicino al fuoco.
Il primo pose sulla bilancia una grossa anfora piena di latte e aggiunse una pesante forma di formaggio.
Il secondo portò una enorme cesta piena di mele.
Il terzo, a fatica, collocò sulla bilancia un voluminoso fascio di rami e ceppi d’albero, che sarebbero serviti per scaldare la stalla per un bel po′ di tempo.
Rimaneva solo Filippo.
Tristemente il ragazzo guardava la sua piccola lanterna, l’unica ricchezza che possedeva.
Era il dono che voleva portare al Bambino Re.
Ma pesava così poco.
Esitò un attimo.
Poi decisamente si sedette sulla bilancia con la lanterna in mano e disse:

“Sono io il regalo per il Re!

Un bambino appena nato ha certamente bisogno di qualcuno che porti la lampada per lui!”
Intorno al fuoco si fece un profondo silenzio.
I pastori guardavano il ragazzo sulla bilancia, colpiti dalle sue parole.
Una cosa era certa:
in nessun caso Filippo sarebbe rimasto al campo a custodire le pecore.

Brano tratto dal libro “I fiori semplicemente fioriscono.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

La donna nella caverna

La donna nella caverna

Racconta la leggenda che una donna povera con un bimbo sulle braccia, passando davanti a una caverna udì una voce misteriosa che da dentro le diceva:
“Entra per otto minuti, prendi quanto desideri, ma non dimenticare la cosa più importante.

Ricorda ancora:

quando sarai uscita, la porta si chiuderà per sempre.
Perciò, approfitta della possibilità, ma non dimenticare la cosa più importante!”
La donna entrò nella caverna e vi trovò molte ricchezze.
Affascinata dall’oro e dai gioielli, mise il bimbo per terra e cominciò a raccogliere ansiosamente quanto poteva nel suo grembiule.

La voce misteriosa parlò di nuovo:

“Hai solo otto minuti!”
Passati gli otto minuti, la donna carica d’oro e pietre preziose corse fuori dalla caverna, e la porta si chiuse.
Quando fu fuori si ricordò che il bambino era rimasto dentro la caverna.
Ma la porta era ormai chiusa per sempre.
La ricchezza durò poco e la disperazione per sempre.

Lo stesso avviene spesso con noi.
Abbiamo circa ottant’anni di vita in questo mondo, e una voce sempre ci avverte:
“Non dimenticarti la cosa più importante!”
E la cosa più importante sono i valori spirituali:
la salvezza della nostra anima, la preghiera, la vigilanza, la famiglia, gli amici, la vita, Dio!
Così sprechiamo il nostro tempo quaggiù, e lasciamo da parte l’essenziale:

“I tesori dell’anima!”

E quando la porta di questa vita si chiuderà a niente serviranno i rimpianti.
Viviamo in un modo disperato perché abbiamo “dimenticato la cosa più importante!”

Brano senza Autore

Il signor felicità

Il signor felicità

Won Li era un contadino cinese semplice e generoso.
Un giorno scendeva dalla montagna con un gran fascio di giunchi sulle spalle, quelli che usa la povera gente per ricoprire la propria capanna.
Stanco e sudato si fermò per riposare un po’.
Ad un tratto una bella farfalla, dalle ali ricamate, venne a posarsi sulle foglie della sua fascina.
Won Li cercò di allontanarla.
“Vai, creatura bella, goditi la libertà che Dio ti ha dato!”
Ma per quanto cercasse di allontanarla, la farfalla continuava a tornare sui giunchi del contadino.
Allora la prese delicatamente tra le dita e la legò a un filo d’erba.

“La porterò ai miei bambini!” pensava, “Ne saranno felici,”

La farfalla, che era stanca di volare, se ne stava tutta tranquilla, senza far proprio nulla per riprendere il volo.
Giunto ai piedi della montagna, Won Li incontrò una signora che teneva per mano un bambino.
“Mamma, mamma!” gridò il piccolo, “Guarda che bella farfalla!
Prendila, prendila!”
“Non vedi che quest’uomo l’ha presa per portarla ai suoi bambini?” disse la donna.
Il bambino però era del tipo capriccioso.
E quando si incaponiva a volere una cosa, non rinunciava facilmente:
“La voglio, mamma, voglio la farfalla!”
Won Li aveva il cuore buono e sorrise al bambino.
“Vieni, bambino, prendi pure la farfalla, ma non farle del male.” e gli porse il filo d’erba che teneva prigioniera la farfalla.
“Lei è veramente buono.” disse la donna.
“Mi dispiace di non avere con me il borsellino; ma almeno prenda queste tre arance che ho colte nel mio giardino, serviranno per dissetarsi!”
Erano tre arance veramente belle e succose.

Won Li se le mise in tasca:

“Le porterò ai miei bambini. Non ne hanno mai viste di così grosse!
Ma che farò di tutta questa ricchezza?”
Dopo un pezzo di strada, Won Li si imbatté in un uomo seduto sotto una pianta, con accanto un gran fagotto di pezze di seta:
“E da stamattina che cammino in queste lande deserte.
Ho una sete da morire.
Buon uomo, non avresti qualcosa per dissetarmi?”
L’uomo sotto l’albero era proprio esausto.
“Prendi queste tre arance!” disse Won Li e gliele porse, “Ti toglieranno l’arsura.”
“Grazie, buon uomo.
Ma io voglio ricambiare la tua generosità.
Prendi questo taglio di seta, potrai fare un bel vestito a tua moglie.” disse l’uomo.
Won Li, felice, riprese il cammino verso casa.
Arrivato sulla strada principale si imbatté in una portantina sostenuta da quattro uomini e seguita da sei eleganti cavalieri.

Era la principessa.

“Vieni qui!” disse la principessa appena lo vide.
Come tutte le principesse aveva la voce dolcissima, simile a tanti campanellini d’oro tintinnanti. “Fammi vedere quel pezzo di stoffa che tieni sotto il braccio!”
Won Li si accostò tremante e svolse il rotolo di seta.
Era bellissimo, disegnato a fiori e uccelli multicolori.
“Se vi piace, sarò lieto di regalarvela, gentile principessa!” mormorò Won Li.
“Sei molto buono e generoso.
Voglio anch’io farti un dono!”
E la principessa porse al contadino la sua borsetta.
Won Li corse a casa stringendo il dono della principessa.
Arrivato nella sua povera capanna chiamò la moglie e i figli e, con mani tremanti, aprì la borsetta.
Com’è facile immaginare, come tutte le borsette delle principesse era piena di monete d’oro.
“Ma che farò di tutta questa ricchezza?” si chiese un po’ smarrito Won Li.

Gli venne un’ispirazione:

“Ah, si. Cercherò di far felici i più poveri del paese!”
Comprò una vasta estensione di terra, la suddivise in tanti appezzamenti e la donò ai poveri che non possedevano nulla.
Così tutto il villaggio diventò più ricco e tutti vissero contenti e felici.
Ma il più felice di tutti era Won Li che tutti ormai chiamavano:
“Il signor Felicità!”

Brano tratto dal libro “Tutte storie. Per la catechesi, le omelie e la scuola di religione.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il libro del tesoro in regalo

Il libro del tesoro in regalo

In una piccola città della Persia, ai tempi del grande scià Selciuk, viveva una vedova che aveva un solo figlio.
Quando si sentì giunta alla fine della vita terrena, la vedova chiamò il figlio e gli disse:
“Abbiamo vissuto di stenti, perché siamo poveri; ma ti affido una grande ricchezza:
questo libro.
Mi venne donato da mio padre e contiene tutte le indicazioni necessarie per giungere a un tesoro immenso.
Io non avevo né la forza, né il tempo per leggerlo, ma ora lo affido a te.

Segui le istruzioni e diventerai ricchissimo.”

Il figlio, passata la profonda tristezza per la perdita della madre, cominciò a leggere quel grosso libro antico e prezioso che iniziava con queste parole:
“Per giungere al tesoro leggi pagina dopo pagina.
Se salti subito alla conclusione, il libro sparirà per magia e non potrai raggiungere il tesoro.”
Proseguiva poi descrivendo la quantità di ricchezze accumulate in un paese lontano, ben custodite in una vasta caverna.
Senonché dopo le prime pagine il testo persiano si interrompeva continuando in lingua araba.
II giovane che già si vedeva ricco, per non correre il pericolo che, facendo tradurre il testo, degli altri venissero a conoscenza del tesoro e se ne impadronissero dandogli false informazioni, si mise a studiare con passione l’arabo, sino a che fu in grado di leggere a perfezione il testo.
Ma ecco che, dopo altre pagine, questo continuava in cinese, e poi ancora in altre lingue che il giovane, con accanimento e pazienza, studiò tutte.
Nel frattempo, per vivere, mise a frutto la sua perfetta conoscenza di quelle lingue e cominciò ad essere noto anche nella capitale come uno dei migliori interpreti, cosicché anche la sua vita divenne meno precaria.

Dopo le molte pagine in varie lingue,

il libro proseguiva ancora con istruzioni per amministrare il tesoro, dopo averlo raggiunto, e il giovane studiò volentieri economia, contabilità, e anche la valutazione dei metalli pregiati, delle pietre preziose, dei beni mobili e immobili per non essere imbrogliato una volta in possesso del tesoro.
Nel frattempo metteva a frutto le sue nuove conoscenze anche per assicurarsi un miglior tenore di vita, tanto che la sua fama di poliglotta esperto di finanza e abile economista giunse fino alla corte dello scià.
Lo scià ordinò che fosse assunto tra i suoi consiglieri e gli affidò dapprima dei piccoli incarichi, poi, conoscendolo meglio, gli confidò alcune missioni difficili e delicate e, alla fine, lo nominò amministratore generale dell’impero.
Il giovane non tralasciava però di continuare la lettura del suo libro, che finalmente si addentrava nel vivo della questione, indicando come bisognava fare per costruire un grande ponte e degli argani, delle macchine per giungere alla caverna, aprire le porte di pietra scartando grandi massi, riempiendo anfratti e avvallamenti per appianare la strada, e altre cose del genere.
Sempre con l’idea di non confidare a nessuno il suo segreto, e quindi di non farsi aiutare da altri, il figlio della vedova, divenuto ormai un uomo colto e rispettato, studiò anche ingegneria e urbanistica, al punto che lo scià, apprezzandone il valore e la cultura, lo nominò ministro e architetto di corte, e infine primo ministro.
Non c’era nel regno un altro uomo tanto colto, pratico e abile in tutte le scienze, come il lettore del “Libro del tesoro.”
Proprio nel giorno in cui sposava la figlia dello scià, il giovane arrivò all’ultima pagina del libro.
Con un po’ di batticuore, afferrò il lembo dell’ultima pagina:
stava per conoscere la rivelazione definitiva.

Lentamente voltò il foglio e… scoppiò in una risata.

Di sorpresa, gioia e gratitudine.
L’ultima pagina era una lastra di metallo perfettamente levigato che faceva da specchio:
nell’ultima pagina il figlio della vedova vide il proprio volto.
Un volto di uomo maturo, consapevole, saggio e destinato ad una grande carriera.
E tutto questo grazie al libro che sua madre gli aveva donato.
Il grande tesoro era lui stesso e il libro l’aveva aiutato a scoprirlo.

Brano tratto dal libro “Nuove storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Nobile e plebeo in mezz’ora

Nobile e plebeo in mezz’ora

Come già narrato precedentemente, in quarta elementare fui bocciato per un gatto.
I miei genitori, preoccupati per il mio futuro visto che avrei dovuto ripetere la quarta classe, mi palesarono la possibilità di andare in un collegio gestito da religiosi, aventi la nomea di essere all’avanguardia per metodi e contenuti di insegnamento.

Accettai questa proposta con grande entusiasmo.

Non ringrazierò mai abbastanza tutti coloro che incontrai nel collegio, perché ebbi una grande opportunità di recupero formativo e di riscatto, essendomi trovato molto bene.
Nell’entrarvi mi accolse il padre rettore:
una figura carismatica che mi fece delle domande amichevoli mettendomi a mio agio.

Vedendo il mio cognome mi chiese:

“Dino, sai che la particella De davanti al cognome è un segno di nobiltà?”
In paese non avevo la percezione di ricchezza e di povertà, tantomeno di nobiltà, dato che eravamo tutti contadini con lo stesso stile di vita e scoprire che potevo avere origini nobili mi fece piacere, anche se non capii appieno il significato.
Non passò mezza ora che tutto cambiò drasticamente.
Come corredo, dovevamo portarci le coperte da casa e nel prepararmi il letto nella grande camerata scoprii che gli altri avevano coperte di marca ed io, invece, di foggia militare.
Scoprii in seguito che una grande quantità di coperte erano rimaste in paese in seguito alla ritirata delle truppe tedesche dall’Italia, e per questo io ne possedevo una.

Scoprii per la prima volta di essere povero, altro che nobile.

La situazione si livellò però nelle settimane seguenti, dato che ero il solo a ricevere ogni domenica la visita dei miei parenti.
A differenza di tanti miei compagni, che erano ricchi sì, ma anche, parcheggiati nel collegio.
Nobile o plebeo, capii che la differenza la fa l’amore e, lo stemma araldico della mia famiglia visibile su Google, mi fa solo sorridere e ricordare quel giorno.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La pace verrà… se…

La pace verrà… se…
La pace verrà… se…

… tu credi che un sorriso è più forte di un’arma.
… tu credi alla forza di una mano tesa.
… tu credi che ciò che riunisce gli uomini è più importante di ciò che li divide.
… tu credi che essere diversi è una ricchezza e non un pericolo.
… tu sai scegliere tra la speranza o il timore.
… tu pensi che sei tu che devi fare il primo passo piuttosto che l’altro, allora …

La pace verrà… se…

… lo sguardo di un bambino disarma ancora il tuo cuore.
… tu sai gioire della gioia del tuo vicino.
… l’ingiustizia che colpisce gli altri ti rivolta come quella che subisci tu.
… per te lo straniero che incontri è un fratello.
… tu sai donare gratuitamente un po’ del tuo tempo per amore.
… tu sai accettare che un altro ti renda un servizio.
… tu dividi il tuo pane e sai aggiungere ad esso un pezzo del tuo cuore, allora …

La pace verrà… se…

… tu credi che il perdono ha più valore della vendetta.
… tu sai cantare la gioia degli altri e dividere la loro allegria.
… tu sai accogliere il misero che ti fa perdere tempo e guardarlo con dolcezza.
… tu sai accogliere e accettare un fare diverso dal tuo.
… tu credi che la pace è possibile, allora …

La pace verrà!

Poesia di Charles de Foucauld

La vera ricchezza (Sapersi accontentare)

La vera ricchezza
(Sapersi accontentare)

In un piccolo villaggio, un contadino accumulò tanta ricchezza da potersi dire il più ricco d’ogni altro.
Ma, potendo disporre di denaro ed essendosi comperato un mulo, ebbe l’idea di viaggiare.
Arrivò in un paese molto più grande del suo e vide una casa molto più bella della sua.
“Di chi è questa casa?” chiese il contadino, “Di qualche Dio?”

“È dell’uomo più ricco del paese!” fu la risposta.

Il contadino tornò al suo villaggio e tanto lavorò, s’affaticò e s’arrabattò che, alla fine, poté costruire una dimora come quella che aveva ammirato.
Questa volta acquistò cavallo e carrozza e andò in una città.
Là, di case come la sua ce n’erano a centinaia.
E a decine ve n’erano d’incomparabilmente più belle.
Che dire poi del palazzo del re?
Neanche lavorando tutta la vita notte e giorno avrebbe potuto competere con tanta ricchezza.
Mentre se ne tornava a casa triste e depresso, al carro si ruppe una ruota, il cavallo morì di stanchezza e al contadino non restò che tornare a casa a piedi.

Fattasi notte, vide un lume lontano:

era la casa di un santo eremita.
Entrato, il contadino notò la grande povertà che vi regnava:
“Come fai,” chiese all’eremita il contadino, “a vivere in una casa tanto miserabile?”
“Mi accontento!” rispose l’eremita, “Tu piuttosto, perché non sei felice?”
“Perché, si vede?” domandò il contadino.
“Si vede dai tuoi occhi.
Cercano qualcosa che non c’è:
la ricchezza.” esclamò l’eremita.
“Eppure la ricchezza io l’ho vista!” spiegò il contadino.

“Hai notato al crepuscolo,” disse l’eremita, “le lucciole nei prati?

S’illudono d’illuminare l’universo, ma la loro vanità scompare quando le stelle sorgono in cielo.
Anche le stelle credono d’illuminare il cielo, ma non appena sale la luna scompaiono lentamente e tristemente.
La luna s’illude anch’essa di inondare la terra con la sua luce, ma quando arriva il sole, a stento la si vede nel cielo.
Se quelli che si vantano delle loro ricchezze meditassero su queste semplici cose, ritroverebbero il sorriso perduto.”
Il contadino sorrise, ma sul suo volto c’era ancora un po’ di tristezza.
Allora l’eremita gli disse:
“Lo sai che rispetto a me tu sei re?”
“Be’, non esageriamo.
Ho certo una casa più bella della tua, qualche soldo da parte e…” continuò il contadino.
“Non è di questo che parlo!” disse l’eremita e, avvicinando il lume al proprio povero corpo, glielo mostrò: non aveva le gambe.
Allora il contadino, che doveva sorridere, pianse.

Brano tratto dal libro “Il libro degli esempi: Fiabe, parabole, episodi per migliorare la propria vita.” Gribaudi Editore.

L’uomo di sale e la donna di zucchero

L’uomo di sale e la donna di zucchero

Ai piedi di una collina, c’era una piccola casetta costruita di sale.
In questa casetta vivevano un uomo di sale e una donna di zucchero.
C’erano dei giorni in cui si amavano e dei giorni in cui si detestavano.
Un giorno si misero a litigare furiosamente.
L’uomo prese un grosso bastone di sale e cacciò la donna.

Gridava come un ossesso:

“Vattene e fatti una casa di mattoni!”
La donna se ne andò piangendo, ma non troppo, perché le sue guance di zucchero rischiavano di sciogliersi.
Si costruì una casetta di mattoni, poco lontano dalla casetta di sale dell’uomo.
Era una casetta di mattoni molto graziosa, con i balconi fioriti e il camino di pietra, ma la donna era triste.
Pensava notte e giorno all’uomo di sale.
Un giorno si decise.
Andò alla casetta di sale e bussò alla porta.

Domandò all’uomo un po’ di sale per la minestra.

Ma l’uomo prese il suo grosso bastone di sale e minacciò la donna:
“Vattene immediatamente o sarà peggio per te!”
La donna tornò a casa piangendo, ma non troppo, per non rischiare di sciogliere le sue guance di zucchero.
Il cielo, grande e pietoso, aveva assistito alla scena e si commosse e cominciò a piangere anche lui.
Così cominciò a piovere.
A piovere a secchiate.
La graziosa casetta di sale cominciò a sciogliersi.
In fretta, fretta, l’uomo corse verso la casetta di mattoni.

Bussò alla finestra:

“Lasciami entrare, ti prego, o questa pioggia mi farà fondere completamente!”
“Ah, ah! È finita la festa!” ridacchiò la donna, “Tu mi hai rifiutato un po’ di sale, adesso arrangiati!”
Ma l’uomo riuscì a trovare parole così gentili e tenere che la donna s’impietosì e gli aprì la porta.
Si gettarono una nelle braccia dell’altro e si scambiarono un lungo bacio dolce-salato.
Ma siccome l’uomo di sale era bagnato fradicio si trovò incollato alla donna di zucchero.
Gli ci volle un bel po’ per asciugare e ritrovare la libertà.
Da quel giorno l’uomo di sale ha la bocca di zucchero e la donna di zucchero ha la bocca salata.
E non litigano più.

Sono proprio le differenze che fanno la ricchezza strabiliante dell’amore…

Brano tratto dal libro “40 Storie nel deserto.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.