I fagioli del diavolo

I fagioli del diavolo

I parenti di una giovane donna avevano organizzato delle nozze combinate tra la stessa ed un contadino molto più anziano di lei.
La motivazione di questo matrimonio si poteva trovare nel fatto che il contadino anziano possedesse molti beni e, conseguentemente, potesse garantire alla ragazza una vita agita.
In attesa del ritorno del marito dai campi, la giovane donna trascorreva diverse ore in compagnia di un ex garzone di cui si era profondamente innamorata.

Usava ogni stratagemma per evitare di cucinare al marito, asserendo che dovesse andare da amiche o in chiesa.

Però, non era emotivamente tranquilla, difatti il marito iniziava a sospettare che qualcosa non andasse, non trovando, sempre più spesso, la cena pronta.
Una vecchia megera, che ogni tanto bussava alla sua porta per leggerle la mano e lucrarle del buon vino ed un pezzo di focaccia, dopo qualche tempo, entrò in confidenza con la giovane ragazza, che le raccontò le sue pene d’amore.

L’anziana signora le suggerì di cucinare, nei giorni degli incontri con il suo spasimante, un bel minestrone di fagioli, il famoso “acceca mariti”.

Questo minestrone necessita di una lunga e lenta cottura in un pentolone, dove la fretta non serve.
In questo modo, si sarebbe potuta assentare per continuare la tresca amorosa senza destare sospetti.
Il marito, al ritorno dai campi, capendo poco di cucina e vedendola accaldata, la lodò per essere stata costantemente al focolare per preparargli il suo piatto preferito.

Il minestrone “acceca mariti” era preparato con una varietà particolare di fagioli.

Questi venivano, e vengono, chiamati i fagioli del diavolo, per il caratteristico colore nero con delle striature rosse.
Una leggenda veneta vuole che il nero raffiguri il diavolo mentre le striature rosse, presenti nella buccia del legume, simboleggiano le fiamme dell’inferno e la vergogna.
Vergogna che anche la sposa provava nei confronti dell’inconsapevole marito.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La leggenda della Stella di Natale

La leggenda della Stella di Natale

Anche a Città del Messico, nella lontana America, il Natale è una grande occasione di festa.
Tutti ne approfittano per sfoggiare vestiti nuovi, imbandire le tavole con cibi e bevande abbondanti e diversi dal solito, scambiarsi regali costosi e raffinati.
Che è poi quello che succede in gran parte del mondo.
Ma anche a Città del Messico ci sono persone che non possono permettersi di far festa neppure la Vigilia di Natale.
Una di queste, forse la più povera di tutte, si chiamava Ines.
Era una piccola e graziosa bambina indiana, grandi occhi neri nel visetto scuro, che anche la Vigilia di Natale vagava per il mercato grande a piedi nudi, sgranando gli occhi sulla mercanzia esposta sulle bancarelle:
trionfi di frutta colorata, dolci, tacchini e oche arrostiti, profumate patatine.
Tutte cose proibite per Ines, ricca solo del suo sorriso con cui cercava di intenerire i venditori, che le volevano bene e le regalavano sempre qualcosa.
La mamma le aveva cucito una grossa tasca sul davanti della gonna, e tutto quello che la bambina riceveva finiva in quella tasca.
Ogni giorno la piccola Ines la controllava perché nulla di quanto raccoglieva andasse perduto.

Il contenuto di quella tasca era preziosissimo:

quello era il cibo per i suoi fratellini e la mamma ammalata che aspettavano a casa.
Ines aveva l’occhio allenato a scoprire anche nei mucchi di rifiuti del mercato qualche cosa ancora in buono stato e la sua mano veloce sapeva sceglierlo con cura, ripulirlo, renderlo accettabile.
La sera della Vigilia di Natale, la tasca era colma più del solito.
Anche i suoi fratellini avrebbero fatto festa quella sera.
Ma Ines non era del tutto felice.
Aveva un piccolo ma insistente, segreto, cruccio.
A Città del Messico c’era una simpatica tradizione.
Nella Notte di Natale tutti i bambini della città portavano un fiore a Gesù Bambino nella chiesa della loro parrocchia.
C’era una specie di gara a chi portava il fiore più bello.
Ines desiderava portare anche lei un fiore a Gesù Bambino.
A volte si immaginava nel gesto di offrire, proprio lei, povera piccola bambina indiana, il fiore più bello.
Ma già faticava tanto a procurarsi un po’ di frutta e di verdura, come poteva procurarsi un fiore?
Aveva visto qualche fiore sui balconi più ricchi, altri fiori facevano capolino invitanti da cancelli di ferro battuto.

Era tentata di coglierli, ma non si può donare a Gesù un fiore rubato.

La piccola pensava con soddisfazione alle cose buone che portava ai fratellini, alla gioia con cui l’avrebbero accolta, ma non si decideva a tornare a casa.
Vagava inquieta, alla ricerca di un fiore, il più bello, quello che aveva visto solo nella sua fantasia.
La stradina tortuosa che portava al suo quartiere attraversava una zona di ruderi antichi.
Altre volte aveva visto tra le rovine ciuffi di foglie verdi con qualche fiore colorato.
Forse là avrebbe potuto trovare qualche fiore speciale da portare a Gesù Bambino.
Cautamente si addentrò tra i ruderi.
Girò, cercò, frugò attentamente tra le vecchie pietre, ma non c’era niente da fare.
Non c’era neppure un fiorellino.
Era quasi buio.
La mamma e i fratellini la stavano certo aspettando con impazienza.
Doveva tornare a casa.
Gettò un ultimo sguardo intorno e vide, in un angolo, un ciuffo di piantine che avevano foglie verdi, lucide, disposte come i petali di un fiore.
Si chinò e in fretta ne raccolse alcuni rametti; li mise insieme nel modo più gradevole possibile e formò un piccolo mazzo.

Mancava ugualmente qualcosa.

Con un sospiro, la bambina si tolse la cosa più bella che possedeva:
il nastro rosso che le serviva a legare i capelli.
Con il nastro fece una coccarda intorno alle foglie verdi.
Fu soddisfatta del risultato.
“Gesù Bambino gradirà i miei fiori verdi.” pensò, “E poi li ho legati con il nastro rosso!”
Era buio ormai e Ines si diresse verso casa.
Passò davanti alla chiesa:
il portone principale era spalancato.
“A quest’ora non ci sarà nessuno in chiesa!” pensò, “È l’ora di cena.
Verranno più tardi a portare i fiori a Gesù!”
Entrò furtivamente, con i suoi piedini nudi, il grembiulone sporco con la tasca piena di frutta e verdura.
Sgattaiolò, leggera come un’ombra, dietro le colonne della navata verso l’angolo pieno di luce dove su un cuscino ricamato avevano posto la statua di Gesù Bambino.
Con le lacrime agli occhi, Ines guardò il suo mazzo di foglie verdi e poi, rivolta alla statua del Bambino Gesù disse:
“Te li lascio adesso.
Non posso venire dopo con gli altri bambini.
Mi vergognerei troppo.
Spero ti piacciano lo stesso!”

Un “Oh!” di meraviglia la fece trasalire.

C’era un gruppo di gente intorno a lei.
Tutti fissavano meravigliati il mazzo che stringeva in mano.
“Che bei fiori…
Dove li hai trovati?
Non ho mai visto dei fiori così!”
Ines abbassò gli occhi sul suo mazzo di foglie e rimase senza fiato per la sorpresa.
Le foglie erano diventate di un bel rosso vivo.
Al centro della corolla le bacche avevano formato come un cuore d’oro.
Timidamente, la bambina depose il suo prezioso mazzo di stelle rosso-oro au piedi della statua del Bambino Gesù e poi corse a casa.
Non le sembrava neanche di toccare il terreno per la felicità.
Ora sapeva che Gesù aveva gradito il suo dono e aveva trasformato delle semplici foglie nel fiore più bello del Messico:
la stella di Natale.
Ancora oggi, a Natale, in tutto il mondo, le rosse stelle dal cuore d’oro ricordano il miracolo della fede di una povera bambina indiana.

Brano senza Autore

L’uccellino, le scimmie e la lucciola

L’uccellino, le scimmie e la lucciola

Una tribù di scimmie viveva nella giungla, ai margini di un villaggio di contadini.
Ciò che più le incuriosiva era il fuoco.
Stavano ore ad osservare le rosse fiamme che danzavano nelle case e nei cortili e i contadini che si accoccolavano accanto ad esse a riscaldarsi,

con una beata soddisfazione dipinta sul viso.

Una sera particolarmente fredda, le scimmie videro una lucciola che palpitava tra le foglie di un cespuglio.
Credettero subito che fosse una scintilla di quella cosa prodigiosa che scaldava gli uomini e la presero con cura.
La coprirono di erba secca e ramoscelli, stesero le mani in avanti, facendo versi di soddisfazione e credendo di scaldarsi.
Una scimmia si mise addirittura a soffiare sulla lucciola, come aveva visto tante volte fare agli uomini.
Un uccellino dalle ali dorate osservava la scena dall’alto di un ramo.

Pieno di compassione per le povere scimmie volò giù e disse:

“Amiche, vi state sbagliando, quello non è fuoco.
È soltanto una lucciola!”
Ma le scimmie lo cacciarono via infastidite e presero a soffiare con maggior vigore.
“Vi ingannate!” continuava a ripetere l’uccellino dalle ali dorate volando intorno alle scimmie che si accalcavano intorno al mucchietto di foglie e ramoscelli:

“Correte al riparo!”

Irritata, una scimmia afferrò l’uccellino dalle ali dorate e lo uccise.
Poi si misero tutte a soffiare.
Al mattino erano tutte morte di freddo.

Brano tratto dal libro “365 piccole storie per l’anima.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il gelso, il bruco e la farfalla

Il gelso, il bruco e la farfalla

C’era una volta un gelso centenario, pieno di rughe e di saggezza, che ospitava una colonia di piccoli bruchi.
Erano bruchi onesti, laboriosi, di poche pretese.
Mangiavano, dormivano e, salvo qualche capatina al bar del penultimo ramo a destra, non facevano chiasso.
La vita scorreva monotona, ma serena e tranquilla.
Faceva eccezione il periodo delle elezioni, durante il quale i bruchi si scaldavano un po’ per le insanabili divergenze tra la destra, la sinistra e il centro.
I bruchi di destra sostenevano che si comincia a mangiare la foglia da destra, i bruchi di sinistra sostenevano il contrario, quelli di centro cominciano a mangiare dove capita.
Alle foglie naturalmente nessuno chiedeva mai un parere.
Tutti trovavano naturale che fossero fatte per essere rosicchiate.
Il buon vecchio gelso nutriva tutti e passava il tempo sonnecchiando, cullato dal rumore delle instancabili mandibole dei suoi ospiti.
Bruco Giovanni era tra tutti il più curioso, quello che con maggiore frequenza si fermava a parlare con il vecchio e saggio gelso.
“Sei veramente fortunato, vecchio mio!” diceva Giovanni al gelso, “Te ne stai tranquillo in ogni caso.
Sai che dopo l’estate verrà l’autunno, poi l’inverno, poi tutto ricomincerà.

Per noi la vita è così breve.

Un lampo, un rapido schioccar di mandibole e tutto è finito!”
Il gelso rideva e rideva, tossicchiando un po’:
“Giovanni, Giovanni, ti ho spiegato mille volte che non finirà così!
Diventerai una creatura stupenda, invidiata da tutti, ammirata…”
Giovanni agitava il testone e brontolava:
“Non la smetti mai di prendermi in giro.
Lo so bene che noi bruchi siamo detestati da tutti.
Facciamo ribrezzo.
Nessun poeta ci ha mai dedicato una poesia.
Tutto quello che dobbiamo fare è mangiare e ingrassare.
E basta!”
“Ma Giovanni,” chiese una volta il gelso, “tu non sogni mai?”
Il bruco arrossì.
“Qualche volta.” rispose timidamente.
“E che cosa sogni?” domandò il vecchio gelso.
“Gli angeli,” disse il bruco, “creature che volano, in un mondo stupendo.”
“E nel sogno sei uno di quelli?” continuò il saggio gelso.
“…Sì.” mormorò con un fil di voce il bruco Giovanni, arrossendo di nuovo.

Ancora una volta, il gelso scoppiò a ridere.

“Giovanni, voi bruchi siete le uniche creature i cui sogni si avverano e non ci credete!” esclamò il vecchio albero.
Qualche volta, il bruco Giovanni ne parlava con gli amici.
“Chi ti mette queste idee in testa?” brontolava Pierbruco, “Il tempo vola, non c’è niente dopo!
Niente di niente.
Si vive una volta sola:
mangia, bevi e divertiti più che puoi!”
“Ma il gelso dice che ci trasformeremo in bellissimi esseri alati…” replicò Giovanni.
“Stupidaggini.
Inventano di tutto per farci stare buoni!” rispondeva l’amico.
Giovanni scrollava la testa e ricominciava a mangiare:
“Presto tutto finirà… scrunch… Non c’è niente dopo… scrunch… Certo, io mangio… scrunch … bevo e mi diverto più che posso… scrunch … ma … scrunch … non sono felice… scrunch…
I sogni resteranno sempre sogni.
Non diventeranno mai realtà.
Sono solo illusioni!” bofonchiava, lavorando di mandibole.
Ben presto i tiepidi raggi del sole autunnale cominciarono ad illuminare tanti piccoli bozzoli bianchi tondeggianti sparsi qua e là sulle foglie del vecchio gelso.
Un mattino, anche Giovanni, spostandosi con estrema lentezza, come in preda ad un invincibile torpore, si rivolse al gelso:
“Sono venuto a salutarti.

È la fine.

Guarda sono l’ultimo.
Ci sono solo tombe in giro.
E ora devo costruirmi la mia!”
“Finalmente!
Potrò far ricrescere un po’ di foglie!
Ho già incominciato a godermi il silenzio!
Mi avete praticamente spogliato!
Arrivederci, Giovanni!” sorrise il gelso.
“Ti sbagli gelso.
Questo… sigh … è… è un addio, amico!” disse il bruco con il cuore gonfio di tristezza, “Un vero addio.
I sogni non si avverano mai, resteranno sempre e solo sogni. Sigh!”
Lentamente, Giovanni cominciò a farsi un bozzolo.
“Oh!” ribatté il gelso, “Vedrai!”
E cominciò a cullare i bianchi bozzoli appesi ai suoi rami.
A primavera, una bellissima farfalla dalle ali rosse e gialle volava leggera intorno al gelso:
“Ehi, gelso, cosa fai di bello?
Non sei felice per questo sole di primavera?”

“Ciao Giovanni!

Hai visto, che avevo ragione io?” sorrise il vecchio albero, “O ti sei già dimenticato di come eri poco tempo fa?”

Parlare di risurrezione agli uomini è proprio come parlare di farfalle ai bruchi.
Molti uomini del nostro tempo pensano e vivono come i bruchi.
Mangiano, bevono e si divertono più che possono: dopotutto non si vive una volta sola?
Nulla di male, sia ben chiaro.
Ma la loro vita è tutta qui.
Per loro, la parola risurrezione non significa nulla.
Eppure non sono felici!

Brano di Bruno Ferrero

L’Usignolo e la Rosa. (L’Usignolo e l’Amore)


L’Usignolo e la Rosa.
(L’Usignolo e l’Amore)

Un giovane studente si lamentava poiché nel proprio giardino non c’era una sola rosa rossa.
Ah, da quali sciocchezze dipende la felicità!
Ho letto gli scritti di tutti i sapienti, conosco tutti i segreti della filosofia, ma nonostante ciò la mancanza di una rosa rossa sconvolge la mia vita!
“La donna che amo ha detto che ballerà con me solo se le porterò delle rose rosse, ma in tutto il giardino non c’è una sola rosa rossa!”
Anche l’usignolo lo ascoltava commosso.
“Il principe dà un ballo domani sera!” singhiozzava ad alta voce l’uomo “Io e lei siamo stati invitati.
Se le porterò una rosa rossa ballerà con me fino all’alba.
Ma non v’è rosa rossa nel mio giardino, e così me ne starò tutto solo e lei mi passerà davanti senza degnarmi di uno sguardo.
Non si curerà di me e il mio cuore si spezzerà.”
“Ecco uno che sa veramente amare!” disse l’usignolo “Quello che io canto, egli lo soffre:
quello che per me è gioia, per lui è dolore.

L’amore è una cosa meravigliosa:

è più prezioso di smeraldi e diamanti.
Non si può comprare con perle e pietre preziose.
Non è venduto al mercato; non ci sono mercanti o bilance per l’amore.”
“Ballerà con tutti, ma non con me.
Perché non ho da offrire una rosa rossa!” si disperò l’uomo buttandosi nell’erba e coprendo il proprio viso con le mani.
“Perché piange?” chiese una lucertolina marrone, passandogli accanto di corsa, con la coda in aria.
“Già, perché piange?” chiese una farfalla che svolazzava dietro a un raggio di sole.
“Sì, perché?” sussurrò una primula alla sua vicina con una voce dolce, sommessa.
“Piange per una rosa rossa!” rispose l’usignolo.
“Per una rosa rossa?” esclamarono “Che cosa ridicola!”
La lucertolina, che era un po’ cinica, sghignazzò senza ritegno.
Ma l’usignolo capiva il segreto del dolore dell’uomo e se ne stette silenzioso, sulla quercia, a riflettere sul mistero del dolore.

D’un tratto spalancò le ali brune e si librò in aria.

Attraversò il boschetto come un’ombra, e come un’ombra veleggiò attraverso il giardino.
Al centro del prato c’era un bel rosaio, e quando lo vide l’usignolo si posò su uno dei suoi rami.
“Dammi una rosa rossa,” implorò “e ti canterò la più dolce delle mie canzoni!”
Il rosaio scosse i rami.
“Le mie rose sono bianche!” rispose “Bianche come la spuma del mare, e più bianche della neve sui monti.
Ma va’ da mio fratello, che cresce intorno alla vecchia meridiana, e forse lui ti darà quello che cerchi.”
Così l’usignolo volò fino al rosaio che cresceva intorno alla vecchia meridiana.
“Dammi una rosa rossa,” implorò “e ti canterò la più dolce delle mie canzoni!”
Ma il rosaio scosse i rami.
“Le mie rose sono gialle!” rispose “Gialle come l’asfodelo che fiorisce nei campi, gialle come grano.
Ma va’ da mio fratello che fiorisce sotto la finestra dell’uomo, e forse lui ti darà quello che cerchi.”
Così l’usignolo volò al rosaio che cresceva sotto la finestra dell’uomo.
“Dammi una rosa rossa,” esclamò “e ti canterò la più dolce delle mie canzoni.”

Ma il rosaio scosse i rami.

“Le mie rose sono rosse,” rispose “più rosse del corallo.
Ma l’inverno mi ha gelato le vene, la neve mi ha distrutto i germogli e la tempesta mi ha spezzato i rami: non avrò nemmeno una rosa”.
“Una rosa rossa è tutto quello che voglio!” gridò l’usignolo “Solo una rosa rossa!
Non esiste un modo per procurarmela?”
“Una maniera c’è,” rispose il rosaio “ma è così terribile che non ho il coraggio di dirtela!”
“Dimmela,” disse l’usignolo “io non ho paura”.
“Se vuoi una rosa rossa,” disse il rosaio “devi tingerla con il tuo sangue.
Devi cantare per me col petto contro una delle mie spine.
Tutta la notte devi cantare per me, e la spina deve trafiggerti il cuore,
e il tuo sangue deve scorrere nelle mie vene e diventare mio.”
“La morte è un prezzo alto da pagare per una rosa rossa!” disse l’usignolo “La vita è bella e cara tutti.
Eppure l’amore è più grande della vita.
E che cos’è mai il cuore di un uccello in confronto al cuore di un uomo?”
Si librò in volo e ritornò dall’uomo, che continuava a disperarsi.
“Sii felice!” gli gridò l’usignolo “Sii felice!

Avrai la tua rosa rossa.

La tingerò io con il sangue del mio cuore.
In cambio ti chiedo solo di essere sincero nel tuo amore.”
L’uomo alzò il capo, ma naturalmente non capiva nulla di quello che l’usignolo diceva.
Ma la quercia capì e si rattristò, perché amava molto l’usignolo che aveva costruito il proprio nido in mezzo ai suoi rami.
“Cantami un’ultima canzone,” sussurrò “sarò tanto sola quando tu non ci sarai più!”
L’usignolo cantò per la quercia e la sua voce sembrava acqua zampillante da una fonte d’argento.
L’uomo se ne andò, sbuffando:
“L’usignolo ha una bella voce, ma certamente nessun sentimento.
Pensa solo al canto, alle belle note.
Non gliene importa niente degli altri.

Sono tutti così gli artisti!”

Andò nella sua stanza, si distese sul letto e, pensando alla sua amata, si addormentò.
Quando in cielo si accese la luna, l’usignolo volò al roseto e mise il petto contro una spina.
Tutta la notte cantò, col petto contro la spina.
Anche la fredda luna di cristallo si chinò e ascoltò.
Tutta la notte cantò, e la spina gli penetrò sempre più profondamente nel petto, mentre il sangue della vita scorreva via.
Sbocciò una rosa meravigliosa, rossa come il sole d’oriente, rossa più di un rubino.
Ma la voce dell’usignolo si affievolì.
Le sue piccole ali cominciarono a tremare e un velo di dolore gli annebbiò gli occhi.
La sua voce meravigliosa si spense in un’ultima esplosione di trilli, mentre la rosa meravigliosa spalancava i petali alla fredda aria del mattino.
“Guarda, guarda!” gridò il rosaio.
“La rosa è finita ora!”
Ma l’usignolo non rispose, perché giaceva morto nell’erba alta.
A mezzogiorno, l’uomo aprì la finestra e guardò fuori.
“Ehi, ma che fortuna incredibile!” esclamò.
“Qui c’è una rosa rossa!
Non ho mai visto una rosa così in tutta la vita.
Così bella che di sicuro deve avere un lungo nome latino!”

Si spenzolò dalla finestra e la colse.

Poi corse alla casa della donna dei suoi sogni con la rosa in mano.
“Hai detto che avresti ballato con me se ti avessi portato una rosa rossa!” esclamò l’uomo.
“Ecco la rosa più rossa del mondo.
La porterai stasera sul cuore, e quando balleremo insieme ti dirò quanto ti voglio bene!”
Ma la donna si accigliò.
“Non mi serve più.
Non si intona con il mio vestito.
E poi il nipote del banchiere mi ha mandato dei gioielli veri, e tutti sanno che i gioielli costano molto più dei fiori!”
“Sei solo un’ingrata!” disse rabbioso l’uomo.
E gettò la rosa nella strada.
La rosa rossa finì in una pozzanghera e la ruota di un carro la schiacciò.
“L’amore non esiste!” concluse l’uomo.
E tornò a casa.
Si chiuse dentro la sua stanza, prese lo dallo scaffale un vecchio libro polveroso, e si mise a leggere.

Brano tratto dal libro “Il principe felice e altri racconti.” di Oscar Wilde