Il cavallo a dondolo

Il cavallo a dondolo

C’era una volta un cavallo a dondolo.
Era il più bello di tutti i giocattoli di Olta, perché era il più amato.
E lui lo sapeva.

Ma un giorno si stancò di dondolare.

“Se mi vuoi bene,” disse alla sua padroncina, “portami fuori, dove sono gli altri cavalli!”
Olta si sentì molto triste, ma prese il suo cavallo e lo portò in un campo, oltre la staccionata.
Lo salutò con un bacio sulla fronte e poi ripartì, col cuore in gola.
Il cavallo a dondolo sentì gli altri cavalli nitrire.

Provò a nitrire anche lui, ma non ci riuscì.

Poi vide gli altri che correvano e si rincorrevano.
Tentò anche lui, ma non poté muoversi.
Quando lo stalliere venne a spazzolare i puledri, il cavallo a dondolo volle lo stesso trattamento.
Ma, quando anche lui fu lavato, si accorse che il manto di legno aveva perso il suo bel colore.
Il giorno dopo, Olta ripassò dal campo perché aveva nostalgia del suo cavallo.
“Se mi vuoi bene,” le disse lui, “riportami a casa, dove mi hai insegnato a dondolare!”

Olta lo baciò sulla fronte e lo riprese con sé.

Il cavallo a dondolo, pieno di graffi e sbucciature, non luccicava più come una volta e scricchiolava al minimo movimento.
Ma adesso sapeva che ogni suo dondolio cullava un sogno di Olta.
E per lui questo sogno era più bello dei campi verdissimi oltre la staccionata.

Brano senza Autore

La ricerca della gioia

La ricerca della gioia

C’era una volta un uomo ricchissimo.
Possedeva tanti negozi, tante fabbriche e tante banche, cosicché ogni settimana riceveva nel suo palazzo molti autocarri carichi di denaro.
Non sapeva più dove metterlo o in che cosa spenderlo.

Si comperava tutto quello che gli piaceva:

aerei, navi, treni, edifici, monumenti, ecc.
Era sempre alla ricerca di cose da comperare.
Arrivò un giorno in cui aveva proprio tutto.
Non c’era cosa che non possedesse.
Tutto era suo.
Tuttavia c’era una cosa che non riusciva ad avere.
E per quanto comprasse, una cosa non la trovava mai.

Era la gioia.

Non trovò mai il negozio in cui la vendessero.
Si impegnò a cercarla a qualunque costo, perché era l’ultima cosa che gli mancava.
Percorse mezzo mondo alla sua ricerca, ma senza risultato.
Un giorno capitò in un piccolo villaggio e venne a sapere che un vecchio saggio poteva aiutarlo.
Viveva in cima a una montagna, in un’umile e povera capanna.
Si diresse verso di lui e quando lo trovò gli disse:
“Mi hanno detto che lei potrebbe aiutarmi a trovare la gioia.”
Il vecchio lo guardò sorridendo e rispose:
“Lei l’ha già incontrata, amico.
Io ho molta gioia.”
“Lei?” esclamò stupito il ricco, “Ma se possiede soltanto una povera capanna e poco più!”
“Certo, e proprio per questo ho la gioia, poiché do a chi ne ha bisogno tutto quello che ho di più.” affermò il vecchio.
“E così si ottiene la gioia?” chiese il ricco.
“Così l’ho trovata io.” confermò il Vecchio.

Il ricco se ne andò pensieroso.

Poco tempo dopo decise di dare tutto quello che non gli era necessario a coloro i quali ne avessero bisogno.
Con grande sorpresa scoprì che facendo così sentiva gioia.
Si era reso conto che c’è più gioia nel dare e nel rendere felici gli altri che nel ricevere e possedere tante cose senza condividerle.

Brano tratto dal libro “C’era una volta… al catechismo. Racconti per educare ai valori cristiani i ragazzi dagli 8 agli 11 anni.” di Josè Real Navarro

I più grandi desideri

I più grandi desideri

C’era un uomo che vagava per il mondo inseguendo i suoi desideri più profondi!
Alla fine, un giorno, stanco della lunga ricerca, si sedette sotto un grande albero…
Non sapeva che si trattasse dell’albero che realizza i più grandi desideri!

Mentre riposava l’uomo pensò:

“Che bel posto questo!
Mi piacerebbe abitare qui!” e subito apparve una bella casa…
“Ho fame!” pensò, “Vorrei avere qualcosa da mangiare!”
Immediatamente apparve un tavolo imbandito con tutti i cibi e le bevande possibili ma,

visto che era ancora molto stanco, pensò:

“Vorrei avere un domestico a mia disposizione!” e, ovviamente, un domestico apparve…
Alla fine del pasto l’uomo si appoggiò al tronco del bellissimo albero e si mise a riflettere!
“Ogni cosa che desideravo si è avverata!
Quest’albero dev’essere magico…
Magari è abitato da un demonio!” e, immediatamente, un gran diavolo apparve…

“Ahimè!” pensò.

“Il demonio, probabilmente, mi mangerà!” ed è esattamente ciò che successe…

Ecco la cosa più complicata:
essere padroni dei propri desideri, trasformarli in progetti e forze per la vita, e non lasciarsi distruggere da essi!

Brano senza Autore

Guarda Pin-hua sull’albero

Guarda Pin-hua sull’albero

C’era una volta un uomo che non sapeva far nulla.
A qualunque lavoro si dedicasse, non combinava che disastri.
C’erano da raccogliere i fichi?
Il cesto di Pin-hua (era questo il suo nome) si rovesciava, quando non era lui stesso a cadere dall’albero.
C’era da andare per legna?
I rami che raccattava Pin-hua erano o marci o ancor verdi, quando non si trattava di qualche insonnolito serpente.

Da intagliare il tek?

Alla larga da Pin-hua, poiché lo scalpello gli s’imbizzarriva in mano e non si sapeva dove andasse a colpire.
Pin-hua, insomma, con la sua inettitudine, era un pericolo non solo per sé ma per tutti; ed egli, che non era uno stupido, era il primo a soffrire di questa situazione.
Stava un giorno seduto sotto l’albero sacro del villaggio, quando gli si avvicinò un monaco:
“A che stai pensando?” gli chiese.
“Al fatto che non so far nulla!” rispose.
“Perché ti preoccupi?” gli disse il monaco, “Se non sai far nulla, fallo bene!”
Allora Pin-hua prese una canna e andò a pescare sul molo.
Naturalmente non prese un sol pesce, perché ruppe subito l’amo.
In compenso, meditò a fondo le parole del monaco e prese la sua decisione.

La notte, si arrampicò sull’albero sacro.

Non ne sarebbe mai più disceso.
La gente, un po’ lo compianse, un po’ ne rise, un po’ si preoccupò:
e se si fosse messo a pregare, che guai avrebbe combinato?
Ma Pin-hua non combinò più alcun guaio:
si limitò ad esserci, nel villaggio.
E poco alla volta la gente cominciò a sentire il beneficio di quella presenza.
“Perché te la prendi tanto?” si diceva a chi si affannava oltre misura, “Guarda Pin-hua sull’albero:
non fa nulla eppure trova sempre chi gli offre una ciotola di riso.”
“Perché litigate tra voi?” si diceva a chi si odiava per un palmo di terra, “Guardate Pin-hua sull’albero:

non ha nulla eppure canta dal mattino alla sera.”

“Perché ti arrabbi coi figli?” diceva la moglie al marito, “Guarda Pin-hua sull’albero:
le formiche lo tormentano persino nel sonno, eppure l’hai mai sentito lagnarsi?”
Ma, soprattutto, quando qualcuno faceva male qualcosa, gli si diceva:
“Perché tanta negligenza?
Guarda Pin-hua sull’albero:
non fa niente, ma lo fa bene.”

Brano senza autore

Il Re che non sapeva ascoltare

Il Re che non sapeva ascoltare

C’era una volta un Re che non sapeva ascoltare.
Quando i suoi sudditi si rivolgevano a lui, li interrompeva non appena aprivano bocca e gridava: “Va bene, va bene, ho capito!
Ti credo!
Guardie, dategli mille monete d’oro!”
Oppure:
“Basta, basta, non ti credo!
Guardie, frustatelo e buttatelo fuori di qui!”
Insomma, il Re era un tipo lunatico e agiva secondo il suo umore.
Non voleva saperne di ascoltare, e quindi era buono e generoso con le persone sbagliate, e viceversa.

I sudditi lo sapevano bene, cercavano di girare alla larga dal castello e speravano ardentemente di non aver mai niente a che fare con il re.

Ma quelli che ci rimettevano più degli altri erano la sua povera moglie e i due principini, perché il re non solo non li ascoltava, ma giudicava stupido e senza senso tutto quello che loro dicevano.
Li criticava continuamente e non prestava mai attenzione alle loro parole, neppure quando gli parlava con la voce del cuore e dell’affetto.
Se, per esempio, la principessina Adelaide si avvicinava al regale papà per mostrargli il disegno fatto a scuola, dicendo timidamente:
“Papà, guarda questo…” il re la interrompeva con aria infastidita e borbottava:
“Va bene, va bene eccoti una moneta d’oro…”
Se il principino Roberto osava chiedere:
“Dove vanno quelli che muoiono?” il regale papà lo zittiva dicendo:

“Piantala con queste stupidaggini!”

Un giorno, il re e la regina litigarono furiosamente, e dal momento che la donna ribadiva le sue ragioni, il re la spinse giù dal trono.
Poi si mise a spiegare alla moglie che se le aveva fatto del male era per il suo bene, e che avrebbe dovuto ringraziarlo, per questo.
La regina, profondamente offesa e indignata, con le ossa rotte e doloranti, gli lanciò una terribile maledizione:
“Che te ne fai di due orecchi, dal momento che non ascolti mai nessuno?
Tu non fai che parlare: bla, bla bla e ancora bla!
Vorrei che ti cadessero le orecchie e che ti venissero due bocche!”
Il Mago Cavatorti, lontano parente della regina, si trovava per caso nelle vicinanze e sentì la maledizione della donna.
Conosceva il re, e sapeva di cosa era capace.
Così, impietosito dalla triste sorte della regina, esaudì il suo desiderio.

Il Mago si presentò al re e gli agitò sotto il naso la nodosa bacchetta di legno di nespolo.

Il re che non voleva mai ascoltare cadde in un sonno profondo, e quando si risvegliò si ritrovò con due bocche identiche, una accanto all’altra, e un orecchio minuscolo sulla fronte, vagamente simile a un cece.
Le altre due orecchie, invece, giacevano sul cuscino come foglie secche.
All’inizio, il re ringraziò il Mago per quel bellissimo regalo.
Adesso poteva parlare più velocemente e ad alta voce.
Ma ben presto si rese conto che non riusciva più a stare zitto.
Parlava, parlava sempre, senza un attimo di tregua.
E mentre beveva e mangiava con una bocca, con l’altra continuava a parlare.

Per i poveri sudditi le cose peggiorarono.

Se prima non ascoltava, adesso il re non faceva che straparlare e interrompere gli altri.
E la moglie che già non sopportava una bocca del marito, con la seconda non ce la faceva proprio più.
Inoltre, il re ora russava il doppio, e la notte non le faceva chiudere occhio.
Con il passare del tempo, il re cominciò ad ascoltare solo le sue due voci, ed amici e nemici presero ad evitarlo come la peste.
Insomma, era insopportabile.
Anche gli affari di stato peggiorarono.
Quando arrivavano gli ambasciatori dei regni vicini con i messaggi dei loro sovrani, il re non prestava la minima attenzione alle loro parole, anzi se quelli parlavano di “terra” capiva “guerra”, se dicevano “doni” pensava ai “cannoni.”
Così, poco alla volta, tutti lo abbandonarono.

Il re fu avvolto da una terribile solitudine e cominciò a rendersi conto dei suoi errori.

Decise che da allora in poi avrebbe tenuto sempre conto della dura lezione che il Mago gli aveva impartito.
Adesso teneva la bocca, anzi le due bocche chiuse, e con il suo piccolo orecchio si sforzava di ascoltare meglio di quando ne aveva due.
In cuor suo, anzi, sperava che il Mago tornasse con la sua bacchetta di nespolo per ridargli le sue due orecchie, che ora rimpiangeva con tutte le sue forze.
Passarono gli anni e la regina cominciò a provare una gran pena per il marito.
Persino i sudditi e i sovrani dei regni vicini avevano dimenticato l’astio che avevano sempre provato nei suoi confronti e si auguravano che venisse perdonato.
Ma trascorsero parecchi anni prima che il Mago Cavatorti si decidesse a tornare da lui.
“Riconosci i tuoi errori?” gli chiese, scuro in volto.

Il re annuì.

“E faresti qualsiasi cosa pur di avere due orecchi e una bocca?”
Il re era pronto a tutto.
Il Mago agitò la sua bacchetta al contrario e il re si ritrovò con una bocca sola e due splendidi orecchi nuovi.
Invece di ricominciare come prima, si fermò ad ascoltare il canto degli uccelli, la musica del vento, le voci dei bambini.
Era la prima volta e gli vennero le lacrime agli occhi per la commozione.
La regina, il principe Roberto e la principessa Adelaide lo abbracciarono e gli dissero:
“Ti vogliamo bene!”
Il re pensò che non aveva mai sentito niente di più bello in tutta la sua vita e che era stato proprio stupido a non accorgersene prima.

Brano di Bruno Ferrero