La giornata con i papà

La giornata con i papà

Indossava il vestito più bello, di un luminoso color arancione, aveva i capelli raccolti con un nastro rosso e oro, ed era pronta ad uscire per andare a scuola.
Era la “Giornata con i papà” e tutti i bambini sarebbero dovuti andare a scuola accompagnati dal proprio papà.
Lei sarebbe stata l’unica con la mamma.
La mamma le aveva suggerito di non andare, perché i suoi compagni non avrebbero capito.
Ma la bambina voleva parlare a tutti del suo papà, anche se era un po’ diverso dagli altri.
A scuola c’era una folla di papà che si salutavano un po’ imbarazzati e bambini impazienti che li tenevano per mano.
La maestra li chiamava uno dopo l’altro e ciascuno presentava a tutti il suo papà.
Alla fine, la maestra chiamò la bambina con il vestito arancione e tutti la guardarono, cercando l’uomo che non era là.

“Dov’è il suo papà?” chiese un bambino.

“Per me non ce l’ha!” esclamò un altro.
Dal fondo, una voce brontolò:
“Sarà un altro padre troppo occupato che non ha tempo per venire!”
La bambina sorrise e salutò tutti.
Diede un’occhiata tranquilla alla gente, mentre la maestra la invitava a sbrigarsi.
Con le mani composte e la voce alta e chiara, cominciò a parlare:
“Il mio papà non è qui perché vive molto lontano!

Io, però, so che desidererebbe tanto essere qui con me:

voglio che sappiate tutto sul mio papà e su quanto mi vuole bene!
Gli piaceva raccontarmi le storie e mi insegnò ad andare in bicicletta.
Mi regalava un rosa rossa alle mie feste e mi insegnò a far volare gli aquiloni.
Mangiavamo insieme gelati enormi e, anche se non lo vedete, io non sono sola, perché il mio papà sta sempre con me, anche se viviamo lontani.
Lo so, perché me l’ha promesso lui, che sarebbe stato sempre nel mio cuore!”
Dicendo questo alzò una mano e la posò sul cuore.
La sua mamma, in mezzo alla schiera dei papà, la guardava con orgoglio, piangendo.
Abbassò la mano e terminò con una frase piena di dolcezza:
“Amo molto il mio papà!
È il mio sole e, se avesse potuto, sarebbe stato qui, ma invece è lontano in cielo…
Qualche volta però, se chiudo gli occhi, è come se non se ne fosse mai andato!”
Chiuse gli occhi e la madre, sorpresa, vide che tutti, padri e bambini, avevano chiuso gli occhi.

Che cosa vedevano?

Probabilmente il papà vicino alla bambina.
“So che sei qui con me, papà!” disse la bambina, rompendo il silenzio.
Quello che accadde dopo lasciò tutti emozionati.
Nessuno riuscì a spiegarlo, perché tutti avevano gli occhi chiusi, però sul tavolo ora c’era una magnifica e profumata rosa rossa.
E una bambina aveva ricevuto la benedizione dell’amore del suo papà e il dono di credere che il cielo non è poi così lontano!

Brano senza Autore

La leggenda del canto “Astro del Ciel” (Stille Natch)

La leggenda del canto “Astro del Ciel” (Stille Natch)

Nel piccolo paese di Obendorf, in Austria, un giovane sacerdote, padre Mohr, stava dando le ultime istruzioni ai bimbi e ai piccoli pastori per provare il canto da eseguire nella notte di Natale.
Tra le navate silenziose si spandeva l’eco di un vocio allegro e di piccole risatine:
“Buoni, silenzio!
Incominciamo!”
Ma come padre Mohr appoggiò il dito sulla tastiera dall’interno dell’organo uscì uno strano rumore, poi un altro e un altro ancora.
“Strano!” pensò il giovane prete.
Aprì la porticina dietro l’organo e dieci, venti topi schizzarono fuori inseguiti da un gatto.
Povero padre Mohr.

Si voltò a guardare il mantice:

completamente rosicchiato e fuori uso.
“Pazienza,” pensò, “faremo a meno dell’organo.”
Ma anche i piccoli cantori all’apparire dei topi e del gatto si erano scatenati in una furibonda caccia.
Ed ora non c’era più nessuno.
Con l’organo in quelle condizioni e il coro dileguato dietro ai topi, addio canto di Natale.
Fu un momento di grande sconforto per padre Mohr.
Mentre, davanti all’altare maggiore si chinava nella genuflessione gli venne in mente l’amico Franz Gruber il maestro elementare che, oltre ad essere un discreto organista, se la cava bene nel pizzicare le corde della chitarra.
Quando padre Mohr giunse a casa sua, Gruber stava correggendo i compiti degli scolari al debole chiarore di una lucerna.
“Bisogna inventare qualche cosa di nuovo per la Messa di mezzanotte, un canto semplice che accompagnerai con la chitarra.

Qui ho scritto le parole:

sta a te vestirle di musica…
Ma in fretta mi raccomando!” disse il padre.
Uscito padre Mohr, Gruber prese subito in mano la chitarra e dopo aver scorso il testo lasciatogli dal prete cominciò a cercare tra le corde le note più semplici.
Nella notte silenziosa i fiocchi di neve rimanevano sospesi ad ascoltare la dolce melodia che vagava nell’aria fredda.
A mezzanotte in punto, del 24 dicembre 1818, la chiesa parrocchiale traboccava di fedeli.
L’altare maggiore era tutto sfolgorante di lumi e di candele accese.
Padre Mohr celebrava la quinta Messa.
Dopo aver proclamato con il vangelo di Luca la nascita del Salvatore si avvicinò con il maestro Gruber al presepio e con la voce tremante intonarono:

“Astro del Ciel…”

Dalle navate si persero nel silenzio le ultime parole del canto.
Un attimo dopo l’intero villaggio le ripeteva davanti a Gesù, come la schiera degli angeli del vangelo di Luca.
E da allora non si è più smesso di cantarlo, non solo ad Obendorf ma in tutto il mondo.
È diventata una delle musiche più care del Natale.
E di padre Josef Franz Mohr e di Franz Xaver Gruber che ne è stato?
Nessuno dei due ha avuto il tempo di rendersi conto di quanto ha donato al mondo senza aver avuto in cambio nulla.

Brano senza Autore

Le calze di Giovanni

Le calze di Giovanni

Nel XIX secolo, in una cittadina inglese, dopo mesi di lavoro, una schiera di muratori aveva terminato la costruzione di un’altissima ciminiera per una fabbrica.
L’ultimo operaio era sceso dalla vertiginosa impalcatura di legno.
L’intera popolazione della città era là per festeggiare l’evento e soprattutto per assistere alla caduta spettacolare dell’impalcatura.

Appena il castello di assi e travi crollò tra il frastuono,

la polvere, le risate e le grida della gente, con stupore si vide spuntare sulla sommità della ciminiera la testa di un muratore che aveva appena terminato il lavoro nel colletto interno.
La folla degli spettatori ammutolì di colpo e l’orrore cominciò a serpeggiare in mezzo a loro:
“Ci vorranno giorni per alzare un’altra impalcatura.
E fino ad allora quel muratore sarà morto di freddo, di sete o di fame!”
In mezzo alla gente c’era anche la mamma del muratore, che sembrava disperata.
Ma poi ad un tratto si fece largo ed arrivata sotto la ciminiera fece un segno al figlio e gridò: “Giovanni, togliti le calze!”

Un mormorio si diffuse:

“Poverina, il dolore le ha fatto perdere la ragione!”
Ma la donna insistette.
Per non preoccuparla oltre, Giovanni si tolse la calza.
La donna gridò di nuovo:
“Rovesciala e cerca il nodo, poi tira!”
L’uomo ubbidì e ben presto si trovò in mano una grossa manciata di lana.
“Fai lo stesso con l’altra e lega insieme i fili e poi buttane giù il capo.
E tieni l’altro ben saldo fra le dita!”

Giovanni eseguì.

Al filo di lana fu legato un filo di cotone che l’uomo tirò fino in cima.
Poi al filo di cotone fu attaccata una cordicella e alla cordicella una corda ed infine alla corda un robusto cavo.
Giovanni lo fissò saldamente alla ciminiera e scese in mezzo agli “Urrà” della gente.

La tua vita e la tua salvezza dipendono da cose piccole e fragili, che molto probabilmente già possiedi.
Basta pensarci.

Brano tratto dal libro “I fiori semplicemente fioriscono.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.