Aspetta un attimo, tesoro! (Samuele e la mamma)

Aspetta un attimo, tesoro! (Samuele e la mamma)

Ultimamente la fretta ha preso il sopravvento e la mia frase più frequente è:
“Aspetta un attimo, tesoro!”
Lo dico a mio figlio mentre accudisco la sua sorellina; lo dico a mia figlia mentre aiuta suo fratello e lo dico persino al mio paziente marito.
Mi ritrovo a pronunciare questa frase in una serie infinita di circostanze.
Alcune settimane fa, mio figlio mi ha chiesto di preparargli la merenda e io, naturalmente, gli ho risposto:

“Aspetta un attimo, tesoro!”

Mi sono affrettata a finire quello che stavo facendo e poi sono corsa a preparargli la merenda.
Lui si è seduto al tavolo e ha cominciato a mangiare di gusto mentre io già pensavo di tornare a occuparmi delle mie faccende, ma poi ho deciso di prendermi una pausa e di sedermi insieme a lui.
“Grazie per avere aspettato che finissi di riporre i piatti, prima di prepararti la merenda.
Sei stato davvero molto paziente!”
Lui annuì e continuò a riempirsi la bocca di Nutella.
“Sai una cosa, Samuele, ultimamente sono davvero molto indaffarata.
Ti devo chiedere sempre di aspettare un minuto prima di soddisfare le tue richieste.
Capisci, vero, perché qualche volta devi aspettare?”

Lui mi guardò con un’espressione buffa sul viso:

“Sì!” mi dici, “Un secondo, Samuele!” così mi puoi ascoltare con tutti e due le orecchie.
Se ti parlo mentre stai facendo qualcos’altro, mi puoi sentire soltanto con un orecchio.
Ma se aspetto con pazienza poi tu mi puoi sentire meglio!” mi disse annuendo solennemente.
Rimasi di stucco.
Il mio bambino, che non aveva ancora compiuto i cinque anni, aveva già trovato una spiegazione più che plausibile alla situazione.
Capii che quando gli dicevo:
“Aspetta un secondo!” lui interpretava quella frase come una dimostrazione d’affetto.
Era come se io gli dicessi:
“Aspetta un secondo, così ti potrò rivolgere tutta la mia attenzione!” o “Quello che stai dicendo è molto importante per me, voglio sentirlo con entrambe le orecchie!”
“Samuele, hai assolutamente ragione!” gli risposi, “Ti voglio tanto bene e mi piace tanto trascorrere il mio tempo con te.
Voglio sentire quello che mi dici con entrambe le orecchie perché tu sei molto importante nella mia vita!” aggiunsi abbracciandolo forte.
Quella sera, mentre rimboccavo le coperte a Samuele, lui mi prese la faccia fra le mani e cominciò a soffiarmi prima dentro un orecchio poi dentro l’altro.
Non capii che cosa stesse facendo e gli chiesi spiegazione del suo comportamento.
“Voglio essere sicuro che le tue orecchie siano pulite, mamma!”

Mi tirò a sé e mi sussurrò:

“Volevo essere certo che mi sentissi con tutti e due le orecchie mentre ti dicevo che ti voglio bene più del mondo intero!”
Sentii le lacrime salirmi agli occhi mentre gli rispondevo:
“Oh, tesoro, ti voglio tanto bene, anch’io più del mondo intero!”
“Ed io ancora un briciolo di più!” confermò lui con la sua adorabile vocina.

Brano senza Autore

Il pittore e gli allievi (Mamma e figlia)

Il pittore e gli allievi (Mamma e figlia)

Cara figlia mia, voglio narrarti una storia.

“Molto tempo fa, un uomo che aveva ricevuto da Dio il dono di dipingere con pennelli e colori le meraviglie che vedeva attorno a sé, pensò che fosse giusto insegnare la sua arte ad altri giovani così che non morisse con lui.
Spiegò ai suoi allievi come usare i pennelli, a diluire i colori per ottenere le sfumature più infinite per rappresentare il creato.
Quando, secondo lui, furono pronti, mostrò loro un suo dipinto e li esortò a riprodurlo il più fedelmente possibile, seguendo i suoi insegnamenti, concedendo loro una settimana di tempo.

Trascorsi i sette giorni ogni allievo si recò da lui con la propria opera.

Quale fu la meraviglia del maestro quando vide che ogni riproduzione era simile nei tratti alla sua originale, ma i toni e le sfumature li distinguevano una dall’altra.
Deluso e amareggiato li rimproverò per non aver ascoltato i suoi insegnamenti.
Prima che gli allievi avessero modo di difendersi, intervenne la sposa del maestro pittore, che aveva assistito a tutto restando fino ad allora in disparte:
“Marito mio, tu hai trasmesso a questi giovani il tuo dono, mostrando loro come usarlo, secondo il loro cuore e la loro anima.
E sai bene che ogni anima è dono di Dio ed è unica.
Come puoi chiedere, anche ad uno solo di loro, di guardare il mondo coi tuoi occhi… tu puoi insegnargli a osservare la natura e la tecnica per riprodurla, ma è con i suoi occhi che egli la vedrà e la esprimerà attraverso la sua anima, unica e ineguagliabile.
E ogni opera che uscirà dalle sue mani, grazie al dono che tu gli hai fatto, sarà mirabile e unica, degna di onore e ammirazione.

Tu hai donato loro il pennello per dipingere la vita…

ma lascia che lo usino secondo il loro cuore e sii sempre e comunque fiero di loro!”
Fu così che il pittore capì che se facciamo un dono non possiamo ipotecare l’uso che ne verrà fatto.”

Ecco, figlia mia, Dio ha fatto dono ad ogni donna di cooperare alla creazione della vita, attraverso la maternità e in tantissimi altri modi.
Ogni madre userà il pennello avuto in dono per insegnare ai figli a dipingere, secondo coscienza e amore, la vita che decideranno di avere per volontà e aspirazione.
Ogni opera sarà unica, frutto di insegnamenti ricevuti attraverso atti di amore, rispetto, compassione, riconoscenza, carità e umiltà.
Poiché tutti siamo fallibili, gli errori nel tuo dipinto lo renderanno ancora più prezioso e unico.
Ma ricorda che col tuo pennello potrai dipingere qualunque cosa, secondo il tuo cuore e i tuoi desideri, in piena libertà.
Ecco, ora il pennello è tuo, è un dono, usalo come meglio senti di fare; ricorda i miei insegnamenti sempre, perché son frutto della vita che ho ricevuto e che ti ho dato, ma dipingi la tua vita coi colori che vedono i tuoi occhi, attraverso il cuore.

Fai lo stesso coi tuoi figli e, quando verrà il momento, lascia loro in dono questo pennello, come faccio ora con te.

Così che in futuro tutti possano godere degli insegnamenti, ma mantengano la libertà di utilizzarli.
Ciò che ti lascio è la tela dove ho dipinto la mia vita, perché tu la possa osservare e prenderne spunto per dipingere la tua, secondo le tue sole aspirazioni; è la forza di camminare con le tue gambe, ma mai da sola, perché il filo con il quale il Padre ci ha legato non può essere spezzato e io sarò sempre parte di te come tu di me.
Prendi questo dono e sii sempre fiera delle tue capacità, in esso c’è anche il mio cuore che da sempre batte assieme al tuo, per l’eternità.
Con amore, la tua mamma.

Brano senza Autore

Il debito

Il debito

Un uomo molto ricco aveva tanti debitori.
Quando fu assai avanti negli anni, chiamò alcuni di quelli che gli dovevano più denaro e disse:
“Se non potete restituirmi oggi quanto vi ho prestato, mi dovete giurare solennemente che pagherete i vostri debiti nella vostra vita futura e, così facendo, io brucerò le cambiali che mi avete firmato.”

Il primo debitore gli doveva una piccola somma.

Giurò che nella vita futura avrebbe accettato di essere il cavallo del creditore e che l’avrebbe portato in giro sulla groppa dovunque volesse andare.
Il vecchio accettò l’offerta e bruciò le carte con il suo debito.
Il secondo debitore doveva una somma più grossa e promise:
“Io sono pronto a diventare nell’altra vita il tuo bue.
Tirerò l’aratro per arare i campi e i tuoi carri di fieno e così pagherò il mio debito!”

Il vecchio accettò e bruciò le cambiali del secondo debitore.

Per ultimo toccò ad un uomo che aveva un debito enorme.
“Per ripagare il mio debito, disse, nella vita futura sarò tuo padre!”
Il vecchio andò su tutte le furie, prese un bastone e stava per picchiare il debitore irriverente.
L’altro lo fermò e disse:
“Lasciami spiegare prima di picchiarmi.
Il mio debito è enorme, non posso certo ripagarlo diventando solo il tuo bue o il tuo cavallo.

Sono pronto ad essere tuo padre.

Così lavorerò giorno e notte per te, ti proteggerò quando sarai piccolo e veglierò su di te fino a quando sarai cresciuto.
Affronterò qualsiasi sacrificio, rischierò anche la vita perché a te non manchi nulla, e alla mia morte ti lascerò tutte le ricchezze che avrò accumulato.
Non è molto di più che farti da bue e da cavallo?
Non è una buona proposta per pagare il mio debito?”

Brano senza Autore

Il ritorno dei fiori

Il ritorno dei fiori

Siccome non riusciva più ad accettare la cattiveria degli uomini, il più potente dei maghi aveva lasciato la regione per andare a vivere sulla vetta di un’alta montagna.
Dal giorno della sua partenza, tutti i fiori della prateria, quelli che spuntano sulle colline e nei boschi, quelli che fioriscono sui bordi dei fiumi, sulle rive dei laghi e del mare, appassirono e morirono.
Nessuno sopravvisse.
Il paese divenne un deserto, perché dopo la morte dei fiori, gli uccelli, le farfalle, le api e tutti gli insetti fuggirono lontano.
I vecchi abitanti della regione raccontavano ai bambini la bellezza dei fiori e degli insetti, ma i bambini non ci credevano.

“Sono soltanto storie!” dicevano.

Solo il figlio di una povera vedova credeva che esistessero ancora, da qualche parte, fiori e insetti.
E quando la mamma taceva, reclamava ancora un’altra storia, perché voleva sentir parlare della bellezza dei fiori.
“Ah!” diceva, “Quando sarò grande, andrò a cercare il mago per chiedergli di ridarci i fiori.”
Quando fu cresciuto, la sua passione per i fiori era sempre più forte.
Allora disse alla madre:
“Ho deciso: parto per cercare il mago e domandargli di ridarci i fiori!”
Sua madre, all’inizio si rifiutò di credergli.
“Figlio mio!
Io ti ho raccontato solo delle storie!
Ho sentito mia madre raccontarle, perché le aveva sentite da sua madre.
Ma non bisogna credere a queste storie!
Probabilmente i fiori non sono mai esistiti.
E quanto al mago, nessuno potrà mai ritrovarlo.
La montagna su cui vive è la più alta di tutte le montagne!”
Ma il giovane non la ascoltò neppure e un bel mattino partì.
La gente del paese che lo guardava allontanarsi sorrideva ironicamente.
“È proprio matto!” dicevano, “Bisogna essere pazzi per credere a queste storie!”

E i suoi amici lo prendevano in giro.

Il giovane si diresse a nord.
Camminò per tanto e tanto tempo.
Alla fine arrivò ai piedi di una montagna, così alta, ma così alta che non si intravedeva la cima.
Non si perse di coraggio.
Girò intorno alla montagna, ma non vide nessun sentiero, solo rocce ripide e levigate.
Per tre volte, lentamente, ripercorse la base della montagna.
“Se il mago ha trovato un modo per salire, lo troverò anch’io!” si diceva.
Dopo aver scrutato attentamente ogni più piccolo appiglio, si accorse che ad un certo punto una roccia aveva un’attaccatura, che formava come un minuscolo gradino.
Guardò meglio e poco più in alto ne scoprì un altro.
Si allontanò un po’ e vide che sulla parete della montagna era tracciata una scala che saliva a spirale.
Prese a salire, pieno di entusiasmo, senza mai voltarsi indietro perché aveva paura delle vertigini.
Dopo il primo giorno, la vetta della montagna non si vedeva ancora.

Neppure dopo il secondo e il terzo giorno.

Le forze cominciavano ad abbandonarlo quando, il quarto giorno, si rese conto tutto d’un colpo che la vetta era vicina e, al calar della notte, finalmente, riuscì a raggiungerla.
Poco sotto le rocce della cima gorgogliava una sorgente.
Stremato e assetato, il giovane s’inchinò e bevve l’acqua fresca.
Appena le sue labbra assaggiarono l’acqua tutta la sua stanchezza scomparve.
Si sentì rinvigorito e più forte che mai.
In quel momento, sentì una voce che gli chiedeva che cosa era venuto a cercare.
“Sono venuto,” rispose il giovane, “per chiedere al grande mago di ridarci i fiori e gli insetti.
Un paese senza fiori, senza uccelli e senza api, è triste e senza gioia.
Sono sicuro che gli abitanti del mio paese la farebbero finita con tutta la loro cattiveria se il mago ridonasse loro i fiori.”
Allora il giovane fu sollevato da mani invisibili.
Dolcemente fu portato verso la regione dei fiori eterni, e le mani invisibili lo deposero al suolo nel bel mezzo di un tappeto di fiori di tutti i colori.
Il giovane non credeva ai suoi occhi.

Non li aveva immaginati così belli i fiori!

Un profumo delicato aleggiava nell’aria e i raggi del sole danzavano sui fiori multicolori.
La gioia del giovane fu così grande, che si mise a piangere.
Udì nuovamente la voce che gli disse di cogliere tutti i fiori che preferiva.
Si riempì le braccia di tutti i fiori che riuscì a raccogliere.
Poi le mani invisibili lo risollevarono e lo riportarono sulla cima della montagna.
Allora, la voce gli disse:
“Riporta questi fiori nel tuo paese che solo grazie alla tua fede e al tuo coraggio da questo momento non sarà mai più senza fiori.
Fioriranno dappertutto.
I venti del nord, del sud, dell’est e dell’ovest porteranno la pioggia che sarà il loro nutrimento e le api torneranno per donarvi il miele che esse ricaveranno dai fiori.”
Il giovane ringraziò e iniziò subito la discesa dalla montagna che, malgrado la quantità di fiori che portava, gli parve molto più facile della salita.
Quando gli abitanti del paese lo videro tornare con le braccia cariche di fiori, si misero a respirare il profumo e furono presi dalla voglia di cantare.
Non riuscivano a credere alla loro felicità.

Quando furono certi di non sognare, dissero:

“Ah! Lo sapevamo che i fiori esistevano e che le storie dei nostri vecchi dicevano il vero!”
Il paese ridivenne un grande giardino.
Sulle colline, nelle valli, sui bordi dei fiumi e dei laghi, nei boschi, nei campi, i fiori sbocciarono e si moltiplicarono.
I venti dei quattro punti cardinali si davano il cambio per innaffiarli.
Tornarono gli uccelli e le farfalle, gli insetti ronzanti e soprattutto le api.
Finalmente la gente poté riassaggiare il miele e la gioia tornò a regnare nel paese.
Quando gli uomini videro la loro terra trasformata grazie al giovane che aveva osato ciò che nessuno aveva creduto possibile, gli chiesero di essere il loro re.
Egli accettò e divenne un re buono, coraggioso e intelligente.
“Ricordiamoci sempre,” diceva, “che era stata la cattiveria degli uomini a provocare la scomparsa dei fiori dal nostro paese.”
E siccome nessuno voleva ricominciare ad abitare in un deserto ed essere privato del miele, si sforzavano tutti di essere più buoni che mai.

Brano tratto dal libro “Parabole e storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Gli alpinisti

Gli alpinisti

Due alpinisti si arrampicavano su una strada impervia, mentre li flagellava un vento gelido.
La tormenta stava per scatenarsi.
Raffiche turbinanti di schegge di ghiaccio sibilavano fra le rocce.

I due uomini procedevano a fatica.

Sapevano molto bene che se non avessero raggiunto in tempo il rifugio sarebbero periti nella tempesta di neve.
Mentre, con il cuore in gola per l’ansia e gli occhi quasi accecati dal nevischio, costeggiavano l’orlo di un abisso, udirono un gemito.
Un pover’uomo era caduto nella voragine e, incapace di muoversi, invocava soccorso.
Uno dei due disse:
“È il destino.
Quell’uomo è condannato a morte.
Acceleriamo il passo o faremo la sua fine.”

E si affrettò tutto curvo in avanti per opporsi alla forza del vento.

Il secondo invece si impietosì e cominciò a scendere per le pendici scoscese.
Trovò il ferito, se lo caricò sulle spalle e risalì affannosamente sulla mulattiera.
Imbruniva.
Il sentiero era sempre più oscuro.
L’alpinista che portava il ferito sulle spalle era sudato e sfinito, quando vide apparire le luci del rifugio.
Incoraggiò il ferito a resistere, ma all’improvviso inciampò in qualcosa steso di traverso sul sentiero.
Guardò e non poté reprimere l’orrore:
ai suoi piedi era steso il corpo del suo compagno di viaggio.

Il freddo lo aveva ucciso.

Lui era sfuggito alla stessa sorte solo perché si era affaticato a portare sulle spalle il poveretto che aveva salvato nel burrone.
Il suo corpo e lo sforzo avevano mantenuto il calore sufficiente, per salvargli la vita.

Brano senza Autore

Il maestro di tiro con l’arco e gli allievi

Il maestro di tiro con l’arco e gli allievi

Un grande maestro di tiro con l’arco organizzò una gara tra i suoi allievi per valutare il loro grado di preparazione.
Nel giorno fissato, un bersaglio di legno con al centro un cerchio rosso fu legato su un albero ad una estremità della radura.
All’estremità opposta, fu tracciata sul suolo una linea, dietro la quale si piazzarono i concorrenti.
Un giovane avanzò baldanzosamente, impaziente di dimostrare la sua abilità.
Afferrò saldamente l’arco e una delle frecce, poi si sistemò in posizione di tiro.
“Posso tirare, maestro?” chiese.

Il maestro che lo fissava attentamente gli domandò:

“Vedi i grandi alberi che ci circondano?”
“Sì, maestro, li vedo benissimo tutt’intorno alla radura!” rispose il giovane.
“Bene,” rispose il maestro, “torna con gli altri perché non sei ancora pronto.”
L’allievo, sorpreso, posò l’arco e obbedì.
Un secondo concorrente si fece avanti.
Prese l’arco e la freccia e mirò con cura.
Il maestro si portò di fianco all’arciere e gli chiese:
“Puoi vedermi?”
“Sì, maestro, posso vedervi.
Siete qui vicino a me!” replicò il secondo concorrente.
“Torna a sederti con gli altri.” rispose il maestro, “Tu non potrai mai colpire il bersaglio.”
Tutti i partecipanti, gli uni dopo gli altri, afferrarono l’arco e si prepararono a scoccare la freccia, ma ogni volta il maestro poneva loro una domanda, ascoltava la risposta e li rimandava al loro posto.

La folla sorpresa cominciò a rumoreggiare.

Nessuno degli allievi aveva tirato una sola freccia.
Allora si fece avanti il più giovane degli allievi.
Se n’era stato in disparte, silenzioso.
Tese l’arco poi restò perfettamente immobile, gli occhi fissi davanti a lui.
“Vedi gli uccelli che sorvolano il bosco?” gli chiese il maestro.
“No, maestro, non li vedo!” rispose l’allievo.
“Vedi l’albero sul quale è inchiodato il bersaglio di legno?” domandò allora il maestro.
“No, maestro, non lo vedo!” replicò il giovane.
“Vedi almeno il bersaglio?” lo interrogò.
“No, maestro, non lo vedo!” replicò l’allievo.

Dalla folla degli spettatori si levò una risata.

Come poteva quel ragazzo colpire il bersaglio se non riusciva nemmeno a distinguerlo dall’altra parte della radura?
Ma il maestro impose il silenzio e domandò pacatamente all’allievo:
“Allora, dimmi, che cosa vedi?”
“lo vedo un cerchio rosso!” spiegò il giovane.
“Perfetto!” replicò il maestro, “Tu puoi tirare!”
La freccia solcò l’aria sibilando leggera e si piantò vibrando nel centro del cerchio rosso disegnato sul bersaglio di legno.

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Il maestro ed i tre discepoli

Il maestro ed i tre discepoli

Dopo un lungo periodo di vita comune, trascorso nello studio e nella meditazione, tre discepoli lasciarono il vecchio maestro per incominciare la loro missione nel mondo.
Dieci anni più tardi, i tre discepoli tornarono a far visita al maestro.
L’anziano monaco li fece accomodare intorno poiché gli acciacchi ormai gli impedivano di alzarsi.

Ognuno cominciò a raccontare la propria esperienza.

Cominciò il primo, con una punta di orgoglio, e disse:
“Io ho scritto tanti libri e venduto milioni di copie!”
“Tu hai riempito il mondo di carta!” rispose il maestro.

Il secondo, con fierezza, esclamò:

“Io ho predicato in migliaia di posti.”
“Tu hai riempito il mondo di parole!” replicò il maestro.

Si fece avanti il terzo:

“Io ti ho portato questo cuscino perché tu possa appoggiare senza dolore le tue gambe malate!”
“Tu… Tu hai trovato Dio!” concluse sorridendo il maestro.

Brano senza Autore

Il problema dell’orologio

Il problema dell’orologio

C’era una volta un orologio di bell’aspetto che troneggiava su un elegante comò e faceva con entusiasmo il suo lavoro.
Come ogni buon orologio aveva un cuore che ticchettava due battiti al secondo:

“Tic-tac, tic-tac, tic-tac, …”

Così fin dal giorno in cui era uscito dal laboratorio di uno dei migliori orologiai della città.
La sua vita scorreva tranquilla finché nel suo cervello di luccicanti ingranaggi, quasi fosse un granellino di micidiale polvere, si insinuò un dubbio:
“Due battiti al secondo significano centoventi ticchettii al minuto, settemila e duecento battiti all’ora, centosettantaduemilaottocento al giorno, un milione duecentonovemila e seicento alla settimana, sessantaduemilioni ottocentonovantanovemila e ottocento ticchettii all’anno, …”
I delicati ingranaggi dell’orologio emisero un cigolio lamentoso.
“Sessantaduemilioni ottocentonovantanovemila e ottocento ticchettii all’anno!
È impossibile.
Non ce la farò mai!”
In breve, il dubbio si trasformò in panico e poi in profonda depressione.
Così, un giorno, l’orologio prese appuntamento dal miglior psico-orologiaio della città.

“Qual è il suo problema?” chiese gentilmente il dottore.

“Oh, dottore,” si lamentò, “mi è stato affidato un compito immane, nettamente al di sopra delle mie forze.
Devo emettere due battiti al secondo, cioè cento e venti ticchettii al minuto, settemila e duecento battiti all’ora, centosettantaduemilaottocento al giorno, un milione duecentonovemila e seicento alla settimana, sessantaduemilioni ottocentonovantanovemila e ottocento ticchettii all’anno!
E per molti anni!
Non posso farcela!”
“Un momento!” interloquì lo psichiatra, “Quanti ticchettii devi fare alla volta?”
“Un tic alla volta, poi un tac, poi un altro tic e così via!” rispose l’orologio.
“Questa è la cura che ti consiglio:
vai a casa, mettiti tranquillo e pensa ad un tic alla volta, concentrati su ogni tic e goditelo.
Uno alla volta:
non ti preoccupare del successivo!

Pensi di riuscirci?” domandò lo psichiatra.

“Un tic e un tac alla volta!
Ma certo!” rispose l’orologio.
Tornò a casa e non si preoccupò più.

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Il giardino più bello del mondo

Il giardino più bello del mondo

C’era una volta un giardino, chiuso da altissime mura, che suscitava la curiosità di molti!
Finalmente, una notte, quattro uomini si munirono di un’altissima scala per vedere cosa mai ci fosse dall’altra parte del muro.

Quando il primo raggiunse la sommità del muro,

si mise a ridere forte e saltò nel giardino.
Salì a sua volta il secondo, si mise a ridere e saltò anch’egli.
Così il terzo!
Quando toccò al quarto, questi vide dall’alto del muro uno splendido giardino con alberi da frutta, fontane, statue,

fiori di ogni genere e mille altre delizie…

Forte fu il desiderio di gettarsi in quell’oasi di verde e di quiete ma un altro desiderio ebbe il sopravvento:
quello di andare per il mondo a parlare a tutti dell’esistenza di quel giardino e della sua bellezza!

Brano tratto dal libro “Nuovi Incontri per i genitori.” di Don Giuseppe (Pino) Marelli. Edizione ElleDiCi.

Il manager e Dio

Il manager e Dio

Era un manager di successo.
Orologio, telefono satellitare e computer scandivano la sua giornata.
Ogni secondo era importantissimo per lui.
Un giorno, aveva un appuntamento nella sede prestigiosa di uno studio legale.
Purtroppo il lussuoso edificio si trovava in pieno centro e il manager sempre più affannato si accorse con sgomento che non aveva tenuto conto del traffico.
E della corrispondente difficoltà di trovare un posto per parcheggiare l’auto.
Arrivato sul posto, fece un primo giro di ricognizione.

Niente.

Ogni centimetro quadrato era occupato da una vettura.
Provò a compiere un percorso più ampio.
Niente nel modo più assoluto.
Allora, preso dalla preoccupazione, cominciò a pregare:
“Signore, ti supplico, aiutami, ho bisogno di te, adesso.
Fammi trovare un posto per parcheggiare.
Se esaudisci la mia preghiera ti prometto che andrò a Messa tutte le domeniche!”
E fece un altro giro.

Niente.

Riprese a pregare con più intensità:
“Signore, non posso arrivare in ritardo a questo appuntamento.
Se mi liberi un posto per l’auto, mi confesserò anche tutte le settimane e non salterò mai le preghiere della sera!”
Sempre pregando, guidava lentamente, scrutando ogni possibile movimento nelle vie:
“Signore, ti prego, ne va della mia vita, se mi fai trovare un posto per l’auto, leggerò il Vangelo tutti i giorni e magari mi metterò in lista per fare catechismo!”
In quel momento, tre metri davanti a lui, un’auto se ne andò e si liberò un posto.

Con un sospiro di sollievo, il bravo manager disse:

“Signore, non ti disturbare.
Ho appena trovato un posto!”

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