La zia e le nipoti

La zia e le nipoti

Un’anziana signora rimasta vedova e senza figli, organizzò a casa sua una cena speciale invitando tutte le nipoti.
Il suo intento segreto era quello di conoscerle meglio e di valutarle.

Voleva capire a chi lasciare una parte molto importante del suo patrimonio.

Aveva deciso di redigere un testamento e dividere in parti uguali case e campi, ma voleva riservare il suo piccolo tesoretto, composto da un arazzo con lo stemma di famiglia, quadri, preziosi d’oro e d’argento, alla nipote che, maggiormente, avesse rappresentato il casato.
Durante la cena, ognuna di esse raccontò alla zia come procedeva la propria vita.

Solamente una di loro parlava in dialetto stretto,

tutte le altre cugine, invece, si servivano di un italiano forbito ed alcuni anglicismi che la zia non sempre capiva.
Tra i numerosi piatti che la zia propose, era presente anche un favoloso minestrone di fagioli e radicchi alla Veneta.
A stento venne assaggiato dalle nipoti, invece colei che parlava dialetto, chiese addirittura il bis.

La cosa rese felice la zia che con quel piatto,

diversi anni prima, aveva vinto il cucchiaio d’oro ad un concorso gastronomico internazionale, suggellato da ampio riscontro mediatico.
A fine serata la matriarca non ebbe alcun dubbio.
Aveva deciso a chi lasciare il suo tesoretto e, fra lo stupore delle cugine, regalò alla “fagiolara”, come anticipo, il suo cucchiaio d’oro.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

L’alpinista e Dio

L’alpinista e Dio

Si narra che un alpinista, fortemente motivato a conquistare un’altissima vetta, iniziò la sua impresa dopo anni di preparazione.
Deciso a non spartire la gloria con alcuno, iniziò l’impresa senza compagni.
Iniziò l’ascesa ma si fece tardi, sempre più tardi, senza che egli si decidesse ad accamparsi, insistendo nell’ascesa.

Ben presto si fece buio.

La notte giunse bruscamente sulle alture della montagna e non si poteva vedere assolutamente nulla.
Tutto era tenebra, il buio regnava sovrano, la luna e le stelle erano coperte dalle nubi.
Salendo per un costone roccioso, a pochi metri dalla cima, scivolò e precipitò nel vuoto, cadendo a velocità vertiginosa.
Nella caduta, l’alpinista poteva appena vedere delle macchie scure e sperimentare la sensazione di essere risucchiato dalla forza di gravità.

Continuava a cadere…

In quegli attimi angosciosi, gli passarono per la mente gli episodi più importanti della sua vita.
Rifletteva, ormai vicino alla morte.
D’improvviso avvertì il violento strappo della lunga fune che aveva assicurato alla cintura.
In quel momento di terrore, sospeso nel vuoto, non gli rimase che gridare:
“Dio mio, aiutami!”
Improvvisamente una voce grave e profonda dal cielo gli domandò:

“Cosa vuoi che io faccia?”

“Mio Dio, salvami!” supplicò l’alpinista.
“Credi realmente che io possa salvarti?” chiese la voce.
“Sì, mio Signore. Lo credo.” replicò l’alpinista.
“Allora, recidi la corda che ti sostiene!” esclamò la voce.
Ci fu un momento di silenzio; poi l’uomo si avvinse ancora più fortemente alla corda.

Il resoconto della squadra di soccorso, afferma che l’alpinista fu trovato, ormai morto per congelamento, fortemente avvinghiato alla corda… a soli due metri dal suolo!

Brano senza Autore

Il buffone del re

Il buffone del re

Un re aveva al suo servizio un buffone di corte che gli riempiva le giornate di battute e scherzi.
Un giorno, il re affidò al buffone il suo scettro dicendogli:
“Tienilo tu, finché non troverai qualcuno più stupido di te:

allora potrai regalarlo a lui.”

Il buffone si mise in viaggio attraverso il regno di quel sovrano e parlò con moltissimi uomini e donne, ma non riuscì a trovare nessuno che fosse più stupido di lui.
Allora, un giorno, quando ormai era trascorso qualche anno, decise di tornare alla reggia.
Trovò il vecchio re costretto a letto da una grave malattia.

Il sovrano lo accolse dicendo:

“Parto per un lungo viaggio…”
“Quando tornerete, Vostra Maestà?” chiese il buffone.
“Non tornerò mai più… Sto per morire!” esclamò il re.
“E che cosa avete fatto, Vostra Maestà, per prepararvi per questo viaggio senza ritorno?” domandò il buffone.

“Purtroppo non ho fatto nulla…

Non mi sento pronto a morire!” spiegò malinconicamente il re.
“Allora, Maestà, eccovi di ritorno il vostro scettro: voi siete sicuramente più stupido di me!” concluse il buffone.

Brano tratto dal libro “40 Storie nel deserto.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il giovanotto ed i “giudizi”

Il giovanotto ed i “giudizi”

Cera una volta, tanti anni fa, un giovanotto di un paese dell’Agordino, forte e bellissimo ma non molto intelligente.
Raggiunta l’età per fidanzarsi, i suoi genitori, preoccupati, chiesero consiglio al vecchio e saggio parroco del paese.
Questo, dopo un lungo colloquio, consigliò ai genitori di far intraprendere al loro figlio un pellegrinaggio a Padova da Sant’Antonio, chiedendo ospitalità lungo la strada ed affidandogli anche una prova da superare.

Preparato l’occorrente per il pellegrinaggio,

quando arrivò il momento della partenza, gli consegnarono una scatoletta con dentro i “giudizi” (in realtà la scatola non conteneva altro che un grillo) da non aprire mai.
Percorso un lungo tratto di strada ed in prossimità del tramontar del sole, il giovanotto chiese ospitalità nella zona appena raggiunta.
Una coppia di contadini, ascoltata la storia del ragazzo,

gli diede la possibilità di riposarsi in un loro fienile.

Dopo aver accettato ed esser rimasto solo, l’aitante giovanotto, sopraffatto dalla curiosità, aprì la scatola e la cosa misteriosa saltò fuori e scomparve rapidamente.
Spaventato per la perdita, cercò la cosa misteriosa per diverse ore, ma rendendosi conto di non essere riuscito a ritrovarla, usando un forcone, buttò giù dal fienile tutto il fieno già riposto.

Al mattino la coppia di contadini gli chiese come mai avesse causato quel disastro,

ed il giovanotto rispose di aver perso i “giudizi.”
I proprietari, rimasti senza parole, sia per la risposta che per il gesto compiuto, esclamarono con rammarico:
“Ce ne siamo resi conto!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

A volte dimentichiamo…

A volte dimentichiamo…

A volte dimentichiamo la nostra importanza.
A volte dimentichiamo che se siamo qui, su questa terra, c’è una ragione, perché tutto ha motivo di essere; dalla forma di vita più piccola ed immobile a quella più maestosa e preponderante.
A volte dimentichiamo che la nostra vita è fatta per entrare in contatto con quella degli altri e che, attraverso gli altri, essa si evolve, cambia, si “aggiusta” per il futuro.
Quando ci sentiamo vuoti, insensati e senza speranza pensiamo a quanto la nostra vita potrebbe essere diversa se, invece di chiuderci come gabbie intorno alla nostra anima, la lasciassimo libera di portare felicità a chi incontra.
Quello che dimentichiamo più spesso è che abbiamo il diritto di essere felici ma anche il dovere di portare felicità al mondo.

Guardati intorno:

non vedi quanto bisogno c’è di portare felicità?
Tutti sono chiusi nel loro pessimismo, nei loro problemi e sono tristi, chiedendosi che senso ha la vita.
Ma tu, tu puoi dare un senso supremo alla vita, puoi scegliere di portare felicità.
Un sorriso, un gesto gentile, l’allegria e la positività di un pensiero fresco e travolgente.
Cosa ci guadagna il mondo ad esser pieno di gente che tristemente pensa solo a se stessa, ai propri problemi e vede tutto negativo?

Cosa ci guadagni tu?

Non si fa altro che generare brutti pensieri, che generano brutte azioni, che generano rassegnazione ed immobilismo.
Portare felicità al mondo, portare felicità agli altri esseri viventi, non fa altro che portare felicità anche a te stesso.
Portare felicità, con piccoli gesti, pensieri o parole positive che danno speranza, crea energia nuova e buona per il futuro.
Perché se tutti ci ricordassimo di portare felicità e positività in ogni nostro giorno, il mondo sarebbe ben diverso da come è adesso, molte persone sarebbero diverse…

sarebbero felici!

Fai dunque in modo di portare felicità; dissemina nel mondo e nel cuore della gente la “follia” dell’allegria e della positività!
“Non c’è un dovere che sottovalutiamo più del dovere di essere felici.
Quando siamo felici, seminiamo anonimi benefici sul mondo, che restano sconosciuti anche a noi stessi o, se rivelati, sorprendono più di tutti il loro benefattore.”

Brano di Robert Louis Stevenson

Le banane (La vita al momento giusto)

Le banane
(La vita al momento giusto)

Un mio amico decise di trascorrere alcune settimane in un monastero del Nepal.
Un pomeriggio, entrò in uno dei numerosi templi del monastero e trovò un monaco che, sorridente, era seduto sull’altare.

“Perché sorridete?” gli chiese.

“Perché capisco il significato delle banane!” rispose il monaco, aprendo la borsa che aveva con sé e tirandone fuori una banana marcia e mostrandola al mio amico.
“Questa è la vita che è passata e non è stata goduta al momento giusto,” disse, “ora è troppo tardi!”
Estrasse poi dalla borsa una banana ancora acerba, gliela mostrò e la ripose di nuovo:

Questa è la vita che non è ancora accaduta, bisogna aspettare il momento giusto!”

Infine, estrasse una banana matura, la sbucciò e la divise con il mio amico.
“Questa è la vita al momento giusto: il presente.
Alimentati con esso, e vivilo senza paura e senza colpa!”

Brano di Paulo Coelho

La penitenza del chierichetto (Il sacchetto di fagioli)

La penitenza del chierichetto
(Il sacchetto di fagioli)

Anch’io sono stato chierichetto ed anche molto serio.
Mia mamma era rimasta molto colpita ed era orgogliosa dell’invito che mi aveva fatto il Parroco dell’epoca, Don Mario, per fare il chierichetto e ciò perché noi eravamo una famiglia di immigrati e, l’immigrato in genere, non è da subito ben inserito nella vita del paese.
Un tempo era così, ora la mentalità è più aperta, ma al tempo dovevi avere pazienza.
Allora mia mamma mi manda subito da un’amica sarta, che mi prenda le misure e mi confeziona la vestina del chierichetto.
Nella mia Parrocchia allora i chierichetti indossavano una tunica nera con sopra una cotta bianca
corta.
La sarta era brava e mi confezionò la più bella vestina di tutti gli altri ragazzi, che facevano i chierichetti.
Io ero uno dei più piccoli e dovevo ancora imparare molte cose allora il Parroco mi affidò ad uno più vecchio che mi doveva insegnare i compiti del chierichetto nelle varie cerimonie.

Scoprii allora che i chierichetti non sono tutti uguali:

c’era il turiferario in genere più anziano (si fa per dire) degli altri, che portava il turibolo per porgerlo al celebrante nel momento opportuno per incensare.
Il turiferario è assistito da quello che porta l’incenso dentro la navicella, poi ci sono quelli che portano le torce accese, quelli che seguono la messa, il cerimoniere che dà gli ordini, quelli che accendono e spengono le candele, quelli che rispondono alla Messa.
Insomma molti compiti e per ogni compito serviva una specifica istruzione perché il Parroco era severissimo, non bisognava assolutamente parlare tra noi, né litigare, ecc.
Il Parroco ci chiamava a fare l’istruzione dei chierichetti una volta la settimana e durante le vacanze anche due volte alla settimana.
Lui teneva la conferenza, ci raccomandava il silenzio, la meditazione, le buone letture e poi ci lasciava alle istruzioni pratiche affidate al capo chierichetto più anziano.
Io venni destinato a “rispondere alla messa” ossia alla liturgia della messa domenicale o feriale, ero troppo piccolo, infatti per il turibolo, che era più alto di me ed anche per le candele alle quali non arrivavo nemmeno con lo stoppino acceso lungo venti centimetri.
La Santa Messa era in latino ed io il latino non lo sapevo,

ma il Parroco mi diede il libricino della messa in latino scritto in due caratteri.

Le frasi scritte con caratteri normali le diceva il Parroco o Celebrante mentre le risposte in neretto le dovevo dire io.
Ed io in un lampo imparai tutte le risposte al celebrante in latino anche se non sapevo cosa volessero dire.
L’altare non era rivolto verso il pubblico come ora ma rivolto verso il fondo della Chiesa ed il Parroco dava le spalle al pubblico e la fila dei chierichetti si metteva nel presbiterio alle spalle del celebrante su due file.
Si entrava dalla Sagrestia, genuflessione ai piedi dell’altare poi il Parroco saliva all’altare poggiava il calice, quindi scendeva e mi ricordo ancora le prime frasi della Messa.
Dopo aver recitato in ginocchio il tradizionale:
“In nomine Patris et Filii…… ecc”, il celebrante diceva:
“introibo ad altare Dei.” ed io subito pronto, “Ad Deum qui laetificat juventutem meam.”
Il Parroco celebrante rispondeva:
“Adiutorium nostrum in nomine Domini.” ed io pronto e immediato, “Qui fecit caelum et terram….”
Poi veniva il Confiteor e cosi via.
Ma noi piccoli chierichetti non sapevano il latino e quindi le frasi le troncavamo o non eravamo pronti a rispondere ed allora il Parroco ci riprendeva ed anche ci suggeriva.

Io però più che dal latino ero impacciato con la mia bella tunica.

La prima parte della Messa si diceva tutta in ginocchio.
Il pavimento del presbiterio non era mai stato finito e non aveva il marmo come adesso, ma c’era il cemento grezzo.
Avevo i calzoni corti, mi sollevavo allora la tunica per non rovinarla e mi inginocchiavo sul cemento grezzo, che era fatto tutto di piccoli sassolini che sulle ginocchia nude diventavano dolorose.
Dopo un po’ bruciavano, allora per trovare un riparo arrotolavo la tunica sotto le ginocchia così per un po’ il dolore passava.
Il Parroco se ne accorgeva dei vari spostamenti e movimenti e sommessamente ci invitava a stare fermi.
Tra i chierichetti mi feci notare per la serietà ed allora mi chiamavano soprattutto per i funerali, mentre quelli più vecchi e forse anche un tantino più furbi preferivano i matrimoni.
Chissà perché!
Tra i chierichetti c’era sempre qualche monello.
Qualche carboncino destinato al turibolo prendeva qualche altra strada e poi lo si usava per accendere il fuoco o per bruciare le barbe del granoturco o i semi del fenocio che davano un certo aroma di anice.
Il Parroco però ci diceva, che il chierichetto doveva essere sempre irreprensibile e studioso ed allora invece che mandarci in gita premio, ci mandava a fare gli esercizi spirituali a Villa Immacolata a Torreglia.

Ci andai anch’io, ancora molto piccolo così scoprii cosa fossero questi esercizi spirituali:

silenzio, raccoglimento, preghiera, poco gioco, nessun pallone, meditazione al mattino, meditazione al pomeriggio, silenzio assoluto dopo la cena.
La Messa tutti i giorni poi l’istruzione dei chierichetti per gruppi.
Anche se non si poteva parlare tuttavia conobbi lo stesso un mio coetaneo di una Parrocchia vicina e facemmo subito amicizia perché mi era parso subito molto sveglio.
Mi confidò infatti che nella sua Parrocchia dopo la Messa degli sposi lui andava dai compari degli sposi li salutava e tra un saluto e l’altro diceva loro:
“La settimana scorsa abbiamo fatto un bel matrimonio, ma così bello che ci hanno anche dato una mancia per i chierichetti!”
In genere l’allusione funzionava e subito, anche i nuovi compari, gli sganciavano una bella mancia, che lui raccoglieva diligentemente in una musina per fare una bella gita a fine anno.
Dopo la meditazione sul finire degli esercizi spirituali venne anche la confessione.
Andai a confessarmi da un prete che non conoscevo.

Si dimostrò subito molto severo ed austero.

Come penitenza, dopo la confessione, non mi prescrisse come faceva di solito il mio Parroco di recitare delle preghiere, ma di mettere una manciata di fagioli nelle scarpe e di camminare il giorno dopo con i fagioli dentro alle scarpe.
Mi consegnò infatti un sacchettino piccolissimo con dentro una decina di fagiolini bianchi con l’occhio nero.
Misi i fagioli nelle scarpe come mi aveva detto e poi non riuscivo più a correre perché mi facevano male le piante dei piedi lungo le stradine in salita della Villa Immacolata.
Incontrai il mio nuovo amico e vidi che lui camminava invece spedito e correva senza problemi.
Lo chiamai e gli dissi sottovoce, perché si doveva stare in silenzio:
“Sono andato a confessarmi ed il prete mi ha dato un sacchettino di fagioli da mettere come penitenza nelle scarpe!”
“Anche a me ha dato la stessa penitenza,” mi disse l’amico, “ed anch’io ho messo i fagioli nelle scarpe!”

Ed allora io replicai tutto stupito:

“Come mai tu corri senza problemi ed io ho un male boia alle piante dei piedi?” gli chiesi molto stupito.
E Lui mi rispose sorridendo:
“I fasoi non mi fanno male ai piedi, perché io ieri sera li ho messi a bagno in una tazza di acqua calda.
Il confessore non mi ha detto, infatti, che i fagioli dovevano essere secchi o bagnati e io prima di metterli nelle scarpe li ho messi a bagno.”
Rimasi molto colpito dalla furbata e dissi tra me questo amico si toglie facilmente dai problemi.
Beh stenterete a credere, poi ci perdemmo di vista, ma questo compagno di esercizi spirituali divenne in seguito Direttore di Banca e le rare volte, che andavo nella sua agenzia dicevo a gran voce:
“Direttore mi fanno male i piedi!” e lui replicava:
“Acqua calda e fasoi!”

Brano senza Autore, tratto dal Web

La chiesa illuminata

La chiesa illuminata

Un principe molto ricco decise di costruire una chiesa per tutte le persone che abitavano nel villaggio.
Era un bell’edificio elegante, posto sulla collina e dunque ben visibile a tutti.
Ma aveva una stranezza:

era senza finestre!

Il giorno dell’inaugurazione, prima che il sacerdote cominciasse la celebrazione, il principe fece il suo discorso per consegnare il tempio alla comunità, disse:
“Questa chiesa sarà un luogo d’incontro con il Signore, che ci chiama a pregarlo ed a volerci bene.
Vi chiederete come mai non sono state costruite finestre.
Lo spiego subito.
Quando ci sarà una celebrazione ad ogni persona che entra in chiesa, verrà consegnata una candela.

Ognuno di noi ha un suo posto.

Quando saremo tutti presenti, la chiesa risplenderà ed ogni suo angolo sarà illuminato.
Quando invece mancherà qualcuno, una parte del tempio rimarrà in ombra.”
Gli abitanti di quel villaggio furono molto grati al principe, che oltre ad essere ricco era anche molto saggio.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Sarà un tramezzino che vi seppellirà

Sarà un tramezzino che vi seppellirà
Lo ha scritto uno dei titolari di un locale storico di Monza, il Libra, che non ho il piacere di conoscere.

L’altro giorno stavo lavorando al bancone del Libra durante un mezzogiorno, come al solito tanta gente, tutto molto informale, insomma un bell’ambiente per lavorare e fare la pausa pranzo.
Verso fine turno lo vedo entrare e so che sarà un problema.
Giacca stazzonata, faccia segnata da una vita sicuramente difficile, lascia l’idea di un uomo che vive in un auto, ha i movimenti rapidi di un predatore spaventato, sul chi vive.
Vede che può ordinare senza pagare subito e mi si avvicina.
Sorrido.
Gli chiedo se ha bisogno di qualcosa.
Ha occhi fermi ma stanchi, si vede che avrebbe bisogno di una doccia e di un buon sonno.

“Panini, quanto?” chiede.

Io glielo offrirei volentieri ma ho paura prima di tutto di ferirlo, sono cose delicate che si capiscono solo quando si lavora tanto con le persone, tutti i tipi di persone.
“3 euro,” gli dico per andargli incontro “e te lo faccio fare come vuoi.”
Sorrido.
“Sensa maiale” dice in uno slavo italianeggiante.
“Un bel tramezzino tonno pomodoro lattuga e salsa, va bene?
3 euro e ci metto anche la Cola, oggi c’è un offerta.” mi invento al volo.
Annuisce, non capisce bene cosa succede, forse pensa che voglia fregarlo, continua a guardarsi intorno, cerca probabilmente la presenza di un buttafuori.
Inizia a rovistarsi nelle tasche.
“Tranquillo, paghi dopo,” gli dico, “siediti pure.”
Si mette su una panca all’esterno da dove può guardarmi.
Mando l’ordine in cucina, spiego la situazione e chiedo che lo facciano bello gozzo quel tramezzino.
Faccio pagare un paio di persone, gli porto la cola giusto mentre arriva il tramezzino.

Che non è un tramezzino.

È “Il Fottuto Tramezzino Di Fine di Mondo.”
È tipo quadruplo e c’è dentro l’equivalente di un pasto-famiglia in tonno e verdure.
Mi viene da ridere e ringrazio la fortuna di avere ragazzi simili a lavorare con me.
“Occhio Stanco” continua a subodorare una fregatura, sembra seduto sui carboni ardenti ma in quattro morsi si divora il “Tramezzinosaurus Rex.”
Visto che sto passandogli vicino mi chiede:
“Posso caffè?”
Sorrido.
Annuisco e vado alla vecchia, storica Faema.
Metto sotto il beccuccio la tazzina e, riflesso nella macchina, vedo che “Giacca Stazzonata” si alza e a passo spedito se ne va attraversando la strada.
Gli auguro dentro di me buona fortuna, con una punta di dispiacere per non avergli potuto far provare il mio caffè.

Vado fiero del mio espresso.

Nel frattempo un altro cliente, che era fermo al bancone a mangiare un panino e ha visto e seguito tutto, si muove deciso e mi viene incontro.
È un quarantino brizzolato bene, con una lacoste di un colore che se lo metto io sembro sbirulino e invece su di lui sembra elegante, jeans falso usurati, occhiali fumé e orologio digitale d’ordinanza.
“Eccallà penso.
Adesso questo mi attaccherà un pippone sugli zingheri, i latri, la riconoscenza, i nostri nonni mica scappavano senza pagare…” e invece dice solo:
“Piadina, birretta, caffè!”
“Sono dieci euro!” dico, e sorrido riconoscente del suo silenzio
Lui prende il portafoglio, mi dà un Ticket Restaurant da 10, poi esita un attimo, e mi dà altri 10 euro dicendo:
“Pago anche per il signore di prima, dice, credo che sia dovuto andare.”
Sorrido, per la prima volta veramente e non solo con la faccia:

“Grazie ma non posso accettare, era mio ospite!”

Lui sembra rimanerci un po’ male, rimette il deca in tasca, fa per girarsi poi invece mi guarda, tira di nuovo fuori i soldi e dice:
“Allora glieli lascio, se torna lui o un suo amico mi farebbe piacere che fossero anche i miei ospiti.”
Prendo i soldi e vorrei stringergli la mano, ma lui saluta ed esce.
E io mi rendo conto che aveva un accento straniero, forse slavo anche lui.
E mi chiedo quale è la sua storia.
Figlio di immigrati?
Arrivato qua in cerca di fortuna?
Avrà avuto anche lui momenti difficili o semplicemente si è sentito solidale con uno straniero in terra straniera?
Lo guardo mentre attraversa veloce la strada e penso che in fondo a qualsiasi tunnel, ai tubi catodici, ai titoli dei giornali e dei talkshow ci sono le persone, che sono sempre meglio di come le immaginiamo.
E che quel manipolo di poveri stronzi, violenti che seminano paure e odio perché è nella paura e nell’odio che vivono, non hanno scampo.
Un giorno un Tramezzino li seppellirà, tutti.

Brano di Paolo Loscalzo

Un lupo, un uomo ed un leone ingrato

Un lupo, un uomo ed un leone ingrato

Molto tempo fa, in un piccolo villaggio, viveva un leone.
Disturbava continuamente la gente del villaggio e uccideva chiunque passasse vicino alla sua capanna.
Il re del villaggio allora indisse una riunione straordinaria, dove tutti i cacciatori del villaggio decisero di andare in cerca del leone e di ucciderlo.
Costruirono anzitutto una capanna molto resistente, dove potessero rinchiudere il leone prima di ucciderlo.
I cacciatori riuscirono, con molti sforzi, a catturare il leone e lo rinchiusero nella capanna in attesa di punirlo senza pietà.

Il giorno dopo, un uomo stava passando vicino alla capanna:

il leone lo supplicò di aprire la capanna e di farlo uscire.
L’uomo all’inizio non voleva, ma poi cedette alla continua implorazione del leone e aprì la capanna.
Appena il leone usci fuori si avventò sull’uomo cercando di ucciderlo.
Questi pregò il leone di risparmiarlo, ma il leone lo voleva mangiare.
Passava di là un lupo, che viveva nelle vicinanze del villaggio, e si fermò ad ascoltare la controversia.

Chiese poi le diverse argomentazioni.

L’uomo e il leone raccontarono la loro versione dei fatti.
L’uomo raccontò al lupo che il leone nella capanna stava soffrendo:
lo aveva supplicato di aprire la capanna per poter uscire.
Così aveva fatto, ma il leone dopo essere uscito aveva cercato di ucciderlo.
Il lupo ascoltò molto attentamente il racconto dell’uomo.
Il lupo, animale molto saggio e intelligente, disse che non gli erano chiari i termini della controversia, per cui proponeva una dimostrazione.

Consigliò di tornare alla capanna per verificare sul posto l’accaduto.

Allora l’uomo tornò alla capanna, aprì la porta e il leone vi entrò; il lupo chiese di riportare la porta nella posizione originaria.
L’uomo e il leone dissero che era chiusa ermeticamente:
l’uomo allora chiuse la porta con il lucchetto, cosi ché il leone non potesse uscire.
Il lupo parlò al leone e gli disse:
“Sei un ingrato: una persona ti ha aiutato a uscire dalla capanna e tu volevi ucciderla.
Perciò tu rimarrai nella capanna e vi morirai, mentre l’uomo andrà via libero.”
L’uomo poté andarsene, mentre il leone rimase dentro la capanna rinchiuso.

Brano senza Autore, tratto dal Web