Il ponte (Un contadino ed il suo bambino)

Il ponte
(Un contadino ed il suo bambino)

Un contadino ed il suo bambino erano in cammino verso un paese vicino, per la fiera annuale.
La strada passava sopra un ponticello di pietra sgretolato e traballante per il fiume in piena.
Il bambino si spaventò.
Papà, pensi che il ponte reggerà?” domandò.

Il padre rispose:

“Ti terrò per mano, figlio mio!”
Ed il bambino mise la sua mano in quella del padre.
Con molta cautela attraversò il ponte a fianco di suo padre e giunsero a destinazione.
Ritornarono che calava la sera.
Mentre camminavano, il piccolo chiese:

“E il fiume, papà?

Come faremo ad attraversare quel ponte pericolante?
Ho paura!”
L’uomo forte e robusto prese in braccio il piccolino e gli disse:
“Resta qui fra le mie braccia e sarai al sicuro!”
Mentre il contadino avanzava con il suo prezioso fardello, il bambino si addormentò profondamente.

Il mattino seguente il piccolo si svegliò e si ritrovò sano e salvo nel suo lettino.

La luce del sole filtrava attraverso la finestra.
Non si era neppure accorto di essere stato trasportato al di là del ponte, sopra il torrente impetuoso.

Brano tratto dal libro “La vita è tutto quello che abbiamo.” di Bruno Ferrero. Edizioni Elledici.

Io seguo il mio Re

Io seguo il mio Re

Un potente sovrano viaggiava nel deserto seguito da una lunga carovana che trasportava il suo favoloso tesoro di oro e pietre preziose.
A metà del cammino, sfinito dall’infuocato sole, un cammello della carovana crollò boccheggiante e non si rialzò più.

Il forziere che trasportava rotolò per i fianchi della duna,

si sfasciò e sparse tutto il suo contenuto, perle e pietre preziose, nella sabbia.
Il principe non voleva rallentare la marcia, anche perché non aveva altri forzieri e i cammelli erano già sovraccarichi.
Con un gesto tra il dispiaciuto e il generoso invitò i suoi paggi e i suoi scudieri a tenersi le pietre preziose che riuscivano a raccogliere e portare con sé.

Mentre i giovani si buttavano avidamente sul ricco bottino e frugavano affannosamente nella sabbia,

il principe continuò il suo viaggio nel deserto.
Si accorse però che qualcuno continuava a camminare dietro di lui.
Si voltò e vide che era uno dei suoi paggi, che lo seguiva ansimante e sudato.

“E tu,” gli chiese il principe, “non ti sei fermato a raccogliere niente?”

Il giovane diede una risposta piena di dignità e di fierezza:
“Io seguo il mio re!”

Brano tratto dal libro “Seguo il mio re!: Una regola di vita per i giovani.” di Don Luigi Ginami. Edizioni Paoline.

Quando il sole tramonta, tu con chi balli?


Quando il sole tramonta, tu con chi balli?

Tanto tempo fa un missionario attraversava le Montagne Rocciose con un giovane indiano che gli faceva da guida.
Tutte le sere, ad un preciso momento del tramonto,

il giovane indiano si appartava,

si voltava verso il sole e cominciava a muovere ritmicamente i piedi e a cantare sottovoce una canzone dolcissima, soffusa di nostalgia.
Quel giovane che danzava e cantava rivolto al sole morente era uno spettacolo che riempiva di ammirata curiosità il missionario.

Così, un giorno, chiese alla sua guida:

“Qual è il significato di quella strana cerimonia che fai tutte le sere?”
“Oh, è una cosa semplice.” rispose il giovane, “Io e mia moglie abbiamo composto insieme questa canzone.
Quando siamo separati, ciascuno di noi, dovunque si trovi, si volta verso il sole un attimo prima che tramonti,

e comincia a danzare e cantare.

Così, ogni sera, anche se siamo lontani, cantiamo e balliamo insieme.”
Quando il sole tramonta, tu con chi balli?

Brano tratto dal libro “Il segreto dei pesci rossi.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Il paese delle ombre

Il paese delle ombre

C’era una volta uno strano piccolo paese addossato ad una montagna altissima.
Un paesino per tanti aspetti come tutti, ma a renderlo unico nel suo genere era il fatto che gli abitanti, sindaco in testa, erano assillati da un problema che poteva sembrare ridicolo, eppure era reale e praticamente irrisolvibile:
eliminare le ombre!
Come fossero arrivati a farsi un problema delle ombre, non si sa:
ne succedono tante nel mondo!
Fatto sta che la cosa era diventata tanto preoccupante che tutti ne erano ossessionati.

Le ombre erano onnipresenti, di tutte le dimensioni!

Si fece persino un museo delle ombre, con dipinti e fotografie; si allestì anche una biblioteca.
Furono chiamati oratori famosi e grandi studiosi per analizzare il più profondamente possibile la grave situazione.
In concreto non si arrivò a nessuna conclusione pratica, a parte qualche tentativo, rivelatosi inutile, come quello di organizzare un gruppetto di pittori che, con pennelli e un secchio di calce pronti, dovevano eliminare le ombre con una mano di bianco.
Era veramente ridicolo vedere per il paese questi onnipresenti pittori alle prese con l’ombra di tutti.
Dove sorgeva un’ombra nuova si precipitavano e tutte le case e le mura erano ormai imbiancate.
Figurarsi quando arrivava uno straniero, era lavoro doppio!
Gli abitanti infatti da tempo, durante il giorno, per non creare nuove ombre rimanevano tappati in casa!
Alcuni poi cercarono, presi dalla mania collettiva, di risolvere il problema per conto proprio:
un vecchietto, per esempio, ogni mattina quando le ombre erano più lunghe, si affannava, spalle al sole, con un grosso piccone a distruggere la propria ombra.

Ma tutto era inutile:

l’ombra era una realtà indistruttibile!
Il peggio fu che, poco a poco, ogni altro problema vero fu lasciato da parte e il paese cadde nel più completo abbandono.
Nessuno più veniva ad abitarvi e tutti si guardavano bene dal prendere iniziative che creassero nuove ombre.
Solo verso sera il paese sembrava entrare nella normalità.
Era quando la grande ombra della montagna scendeva e ricopriva tutto.
Non c’erano più ombre perché c’era un’unica grande ombra, che sembrava estesa quanto il cielo.
Allora il paese si rianimava.
I pittori prendevano un po’ di fiato e di riposo.
Ma presto, con il calare della notte, tutto si immergeva nel silenzio e non si accendevano luci perché esse creavano ombre ancora più fastidiose, per cui in breve tutti si mettevano a letto, pensando al guaio grande di vivere in un paese zeppo di ombre.
Un giorno passò di là un poveraccio, saggio della saggezza di chi aveva camminato tutta una vita e ne aveva visto di tutti i colori in giro per il mondo.
Egli, al vedere quanto succedeva in quel paese, in un primo momento non seppe contenersi dalle risa:
si divertiva soprattutto a far correre i pittori nei punti più svariati del paese, erigendo di nascosto cartelli e sagome varie per creare ombre improvvise, sempre nuove e strane.
Il gioco non durò a lungo.

Egli fu fermato e ammonito:

non si poteva scherzare sui problemi seri, su sforzi estenuanti di anni di ricerca e di tentativi.
Sulle prime il nostro forestiero fu tentato di andarsene.
Però quella gente gli faceva pena:
era sorta in lui una strana curiosità, un interesse che per la prima volta lo teneva bloccato nel suo vagabondare.
Man mano che passavano i giorni, il problema dell’ombra diventò anche per lui un’ossessione.
E fu proprio per scrollarsi di dosso questo incubo che un giorno si inerpicò tutto solo fin sulla vetta della montagna e di lassù vide il paesino illuminato dal sole, in tutta la sua pittoresca realtà.
Altro che ombre!
E’ il paese che esiste!
Il paese da lassù era un paese di case, di alberi, di persone che con la luce si rivelano.
Non era per niente un paese di ombre!
Aveva capito ciò in cui profondamente aveva sempre creduto in fondo al suo cuore e che gli abitanti di quel paese avevano, presi da una strana follia, dimenticato.
Scese di corsa e tutto trafelato andò dal sindaco e gli espose la sua intuizione, ma fu accolto con un sorriso ironico:
in un paese di pazzi il savio passa per matto.
“Sole o non sole, cose o non cose,” gli disse il sindaco “le ombre ci sono e questo è il nostro concreto.

Le ombre sono terribilmente ovunque e questo è evidente.

Tentare di risolvere il problema è il compito più importante che ci siamo assunti; in fondo è fare un servizio alla luce!”
Ormai si era prodotta una così grande distorsione mentale che si pensava alla luce in termini di ombra, come se si volesse decidere di fare il bene solamente cercando di eliminare il male.
Anche il parroco con le sue benedizioni non riusciva ad allontanare le ombre…
Il pover’uomo tornò alla sua capanna in fondo al paese un po’ meravigliato e un po’ sconsolato.
Però si sentiva come guarito da una malattia.
Non guardava più le ombre, anzi ricominciò a fare quello che aveva sempre fatto, ma ora con una grande gioia interiore:
accarezzava con lo sguardo tutte le cose che la luce rivelava.
Tutto era bello, nuovo, sembrava nascere allora.
Anche le ombre erano a loro modo belle perché contribuivano a delineare sempre meglio i contorni delle cose.
Non frequentò più il paese, anche perché quei poveri pittori, guardiani dell’ombra, un’istituzione benemerita, gli facevano pena.

Camminava solo per le strade dei prati o per i sentieri del monte.

Se parlava con qualcuno era per rivolgersi ai piccoli, perché i bambini credono a tutti.
Anzi ne aveva sempre intorno qualcuno che lo ascoltava nel suo raccontare di tante cose e nel dire soprattutto che le cose sono belle per quello che sono; che le ombre ci sono perché ci sono le case illuminate e che la luce è l’unica cosa bella perché ci fa vedere il volto delle persone, altro che l’ossessione di quel paese, dove si riconoscevano per l’ombra anziché per il volto!
I bambini che sono semplici e non capiscono i discorsi e i problemi dei grandi, tanto meno il problema delle ombre, crebbero con spontaneità e diventarono giovani un po’ contestatori, perché non badavano più alle ombre e si davano da fare per rinnovare il paese.
Gli anziani restarono sconcertati:
“Come si fa a ragionare con questa gioventù con idee così diverse!” si confidavano con amarezza e anche con segreta curiosità; e diffidavano chiunque dall’incontrare il forestiero.

Ma ormai il sortilegio era rotto.

A poco a poco il contagio dell’ombra passò.
Tutti cominciarono a guardare le cose per quello che erano e anche il paese delle ombre diventò un paese normale, il paese della realtà come tutti i paesi del mondo.
Il povero saggio da tempo si era rimesso in viaggio.
Il paese era guarito, e a lui era rimasta nel cuore una nuova profonda saggezza:
quando vedeva la sua ombra che fedelissima lo accompagnava, pensava al paese delle ombre e sorrideva dicendo tra sé:
“Se si guarda solo l’ombra, il male, non si vive più!
L’ombra e anche il male sono per la luce, per la vita, per il bene!” e dava un calcio alla propria ombra, un calcio all’aria, contento di vivere nella realtà.

Brano senza Autore, tratto dal Web

La bambola di sale

La bambola di sale

Una bambola di sale voleva ad ogni costo il mare.
Era una bambola di sale, ma non sapeva che cosa fosse il mare.
Un giorno decise di partire.
Era l’unico modo per soddisfare la sua esigenza.
Dopo un interminabile pellegrinaggio attraverso territori aridi e desolati, giunse in riva al mare e scoprì qualcosa di immenso, affascinante e misterioso nello stesso tempo.
Era l’alba, il sole cominciava a sfiorare l’acqua accendendo timidi riflessi, e la bambola non riusciva a capire.
Rimase lì impalata a lungo, solidamente piantata al suolo, la bocca aperta.
Dinanzi a lei, quell’ estensione seducente.

Si decise.

Domandò al mare:
“Dimmi chi sei?”
“Sono il mare.” rispose.
“E che cos’è il mare?” chiese la bambola di sale.
“Sono io!” rispose il mare.
“Non riesco a capire, ma lo vorrei tanto.
Spiegami che cosa posso fare.” esclamò la bambola.
“E’ semplicissimo: toccami…” disse il mare.
Allora la bambola si fece coraggio.

Mosse un passo e avanzò verso l’acqua.

Dopo parecchie esitazioni, sfiorò quella massa con un piede.
Ne ricavò una strana sensazione.
Eppure aveva l’impressione di cominciare a comprendere qualcosa.
Allorché ritrasse la gamba, si accorse che le dita dei piedi erano sparite.
Ne risultò spaventata e protestò:
“Cattivo!
Che cosa mi hai fatto?
Dove sono finite le mie dita?”
Replicò imperturbabile il mare:
“Perché ti lamenti?
Semplicemente hai offerto qualche cosa per poter capire.
Non era quello che chiedevi?

L’altra patì:

“Sì veramente, non pensavo, ma…”
Stette a riflettere un po’.
Poi avanzò decisamente nell’acqua.
E questa, progressivamente, la avvolgeva, le staccava qualcosa, dolorosamente.
Ad ogni passo, la bambola perdeva qualche frammento.
Ma più avanzava, più si sentiva impoverita di una parte di sè, e più aveva la sensazione di capire meglio.
Ma non riusciva ancora a dire cosa fosse il mare.
Cavò fuori la solita domanda:
“Che cosa è il mare?”
Un’ ultima ondata inghiottì ciò che restava di lei.
E proprio nell’ istante in cui scompariva, perduta nell’onda che la travolgeva e la portava chissà dove, la bambola esclamò:
“Sono io!”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Pace e le sue sorelle

Pace e le sue sorelle

Quando il mondo iniziò ad esistere, quando il grande sole giallo riscaldava la terra e di notte la bianca luna tutto illuminava, nacquero in una tiepida mattina d’autunno Pace e le sue sorelle.
Adagiate su una foglia di ninfea che faceva loro da culla, le piccole creature del bene si guardavano intorno incuriosite da tanta bellezza:
prati verdeggianti, animali liberi, un cielo azzurro e pulito, cascate limpide e cristalline.
Quando Felicità svolazzava nei prati, era solita fare a gara con le farfalle a chi raggiungeva prima la grande quercia.
E dove passava lei era felicità ovunque.
Armonia, poi, amava dondolarsi pigramente su un’altalena di liane, canticchiando dolci melodie ai suoi amici animali che, catturati da tanta soavità, rimanevano ore ed ore ad ascoltare quella meravigliosa voce.

E quando cantava lei era armonia ovunque.

Di notte Silenzio raggiungeva a piedi nudi la collina e, seduto sull’erba baciata dalla rugiada, rimirava quel paesaggio incantevole rischiarato da luna e stelle e ne assaporava la quiete.
E quando il sonno li rapiva, era silenzio ovunque.
Amore e Amicizia insegnavano agli abitanti di quel paradiso ad ascoltare il proprio cuore e ad essere sempre pronti ad aiutarsi a vicenda.
E quando parlavano loro, tutti si volevano bene ovunque.
Pace, dal canto suo, regnava sovrana ed era tanto felice nel vedere che era facile mantenere quell’equilibrio così ben costruito dal Buon Dio.
E fino a che lei regnò vi fu pace su tutta la Terra.
Poi arrivò l’uomo.
Era un essere umile e buono, rispettoso e gentile verso i suoi simili:
ma non fu così a lungo.
L’uomo iniziò a coltivare dentro di sé il seme della gelosia e dell’invidia, voleva possedere sempre più cose per essere il padrone indiscusso su tutto.
Gelosia, Invidia e Potere, creature del male senza fissa dimora, giunsero nel regno di Pace e tutto distrussero.

E al loro passaggio vi fu desolazione ovunque.

Infine arrivò Guerra, e dopo lei Tristezza.
Il mondo si tinse dei toni del nero, gli animali cercavano riparo nei boschi, l’uomo si scagliava contro i suoi fratelli, disseminando dolore ovunque.
Pace e le sue sorelle piansero per giorni e giorni, non trovando il modo per rimettere ordine sulla Terra.
In disparte, in un cantuccio, se ne stavano silenziose le due sorelline più piccole, Uguaglianza e Fratellanza, timide e un po’ impaurite.
Pace fissò a lungo i loro occhi e, avvicinandosi, disse:
“È giunto il tempo di far sentire la vostra voce.
Il mondo così sta morendo:
l’uomo lo sta rovinando con le sue stesse mani e noi dobbiamo fermarlo.
A me sta a cuore il futuro dei bambini che così non avranno più case, patiranno la fame e non giocheranno più.
Il loro mestiere è quello di fare i bambini, non vivere tra lo scempio delle guerre dei grandi.”
Uguaglianza e Fratellanza partirono subito.

Anche Amore si unì alle due sorelle.

Dall’alto, lo scenario era tanto triste:
guerra e dolore ovunque.
“Dove saranno i bambini?” si domandavano.
Poi li videro:
chiusi nelle case con le loro mamme, senza sorriso, spaventati.
“Ci pensiamo noi, piccoli.
Venite, seguiteci, fate presto e non abbiate paura!” disse a gran voce Amore.
E così, poco a poco, si formò una catena di bambini che via via diventava sempre più forte e sempre più lunga:
un vero e proprio esercito di chiassosi bimbi.
Al loro passaggio, come per magia, la terra si ricopriva di profumati fiori: fiori ovunque.

Fiori che uscivano dai fucili, dalle macchine da guerra.

Fiori nelle stanze dei bottoni, fiori che cadevano dagli aerei in volo come una pioggia colorata.
Gli uomini così non poterono più fare la guerra e finalmente capirono e si vergognarono tanto per ciò che avevano fatto.
Riposero le armi e la cattiveria e ritornarono nelle loro case, dalle loro famiglie.
Pace tornò così a regnare sulla Terra.
“La guerra è stata vinta dai bambini!” dissero le tre sorelle al loro ritorno.
Pace le accolse con gioia e disse:
“Durante la vostra assenza è venuta alla luce un’altra sorellina. Venite, vuole abbracciarvi!”
Mai i colori della Terra furono meravigliosi come in quel giorno, un giorno da ricordare.
Era nata la Speranza.

Fiaba di Greta Blu

L’aquilone

L’aquilone

Un padre mette sempre a disposizione la sua allegria, la sua inventiva, la sua esperienza per trascorrere dei bei momenti con i propri figli.
Questo è un dono talmente meraviglioso che ogni gioco e ogni attività si trasformano per i ragazzi in appassionanti avventure.
L’aquilone, che con cannucce, carta da pacchi e colla il padre confeziona per i bambini, quando si libra nel cielo può quasi sembrare il simbolo di una situazione magica di rapporti fra padre e figli.

Uno Scoglio d’Isola rappresentò per varie estati la realizzazione dei nostri sogni di ragazzi, quando dall’obbligo e dalla fatica della scuola la nostra immaginazione correva alla libertà delle vacanze.

Ma una di quelle estati, tutte belle, fu per noi specialmente splendida:

l’estate in cui nostro padre, che di solito stava con noi per pochi giorni, decise di prendersi anche lui una vacanza completa.
Diventava un nostro compagno maggiore, la nostra guida; noi ci affidavamo a lui, come una vela s’affida al vento favorevole, come una squadra s’affida al suo capo geniale.
La casetta in cui abitavamo, si trasformava in certi giorni in una officina; i campi delle nostre gesta erano il gran prato sopra lo scoglio e lo specchio di mare davanti ad esso.
Un giorno papà veniva a casa con un mazzo di canne palustri e da queste, con arte, egli ricavava per noi fischietti, piccoli zufoli e schizzetti:
per una settimana, con disperazione della mamma, noi assordavamo l’aria di fischi e nessun passaggio all’aperto era più al sicuro dai nostri spruzzi.
Un altro giorno vedevamo papà manipolare misteriosamente ogni sorta di stracci; noi eravamo stati sguinzagliati a procurargliene e non gli bastavano mai:
ne venne fuori, con nostra gioia e sorpresa, una bella palla vibrata, cucita solidamente, con un forte manico di stoffa.

Non appena il sole declinava un poco, eravamo sul prato,

divisi in due squadre opposte, a lanciarci la palla e a farci sotto per afferrarla a volo; e che urti, certe volte, da stramazzare a terra!
I primi giorni, nell’entusiasmo, il sole tramontava e noi eravamo ancora sudati e pesti ad accanirci nel gioco, senza neppure udire i ripetuti richiami che ci invitavano a rientrare in casa per la cena.
Quell’anno delle meraviglie fu anche Panno delle nasse.
Papà, che era andato a Trieste, tornò una sera con due strane gabbie di fil di ferro lucido; noi, andati a prenderlo al vaporetto, gli saltammo intorno inebriati dalla novità e dietro a noi gli altri ragazzi dell’isola, curiosi di vedere e di toccare quelle belle nasse (antichi attrezzi da pesca), fiammeggianti, di tipo tanto diverso dalle vecchie di vimini a cui erano abituati.
Il giorno dopo, visto il tramonto, prese tutte le precauzioni e determinato ben bene il posto davanti allo Scoglio, dalla barca calammo a fondo le nasse.
Quella notte non dormimmo, nell’attesa dell’alba, per tirarle di nuovo su.
Fu veramente un entusiasmo di gioia quando, nel risollevarle a bordo, vedemmo dentro quelle gabbie dibattersi un mucchio di pesci fra i quali molte bellissime varietà di sarago ed un’orata di un quarto di chilo.

Ma il divertimento delle nasse durò ben poco.

Un brutto giorno, cerca e ricerca, perdemmo due ore a scandagliare il fondo inutilmente:
le nasse, che facevano troppa gola anche ai pescatori, ci erano state rubate.
A consolare il nostro dolore venne presto un’altra trovata di nostro padre.
Una mattina lo vedemmo davanti la casa, affaccendato con grandi fogli di carta d’impacco, con lunghe stecche ricavate da canne con barattoli di colla, di farina, con gomitoli di spago.
Fu una giornata indimenticabile; il lavoro durò ininterrotto per ore ed ore.
Il risultato fu un aquilone spettacolare, robusto come un aeroplano, con una coda lunghissima e, per reggerlo, un gomitolo di spago sforzino che non ci stava nelle mani.
Trasportammo il drago sul prato, come un trofeo.
I nostri cuori battevano, quando papà ci dette tutte le istruzioni per il via.
Noi dovevamo sollevare quel drago enorme quanto più in alto potessimo, reggergli la lunghissima coda e, a un suo ordine, mollare tutto,
Lui, che teneva il grosso gomitolo dello spago, dopo aver spiato il vento prese a un tratto la rincorsa in direzione opposta e ci gridò di mollare.
Trepidanti seguimmo il mostro, che barcollò, poi trasportato dal vento, cominciò a salire, salire e ad allontanarsi nel cielo.
Fra lo stupore commosso di tutti noi, si levò più su del campanile.
Lo vedevamo piccolo come un falchetto, superbo nel volo, e il filo vibrava e noi facevamo fatica a trattenerlo.
Il nostro aquilone fu per parecchi giorni la meraviglia d’Isola e tutti venivano sullo Scoglio a vederlo.

Brano di Giani Stuparich

La pazienza dei fiori di pesco

La pazienza dei fiori di pesco

C’era una volta una prospera comunità di alberi da frutto che viveva sul dolce declivio di una collina.
I loro frutti erano splendide e succose pesche.
In primavera, i loro fiori formavano una morbida nuvola rosa, che faceva la gioia dei viandanti.
In mezzo ai peschi di lungo corso, era spuntato un giovane pesco, che cresceva vigoroso.
Quando le giornate di inizio Marzo si fecero tiepide, il giovane pesco cominciò a chiedere:
“È ora?
Possiamo fiorire?”

“Porta pazienza, ragazzo!

È presto!
Possono ancora venire venti freddi, ed anche qualche gelata…
Aspetta, verrà anche la tua ora!” gli diceva il vecchio ed esperto pesco, accanto a lui.
Brontolando, il giovane pesco annuiva, ma gonfiava le sue gemme.
“Sono solo invidiosi, perché sono vecchi!” rimuginava tra sé.
Una delle prime sere di Marzo, illuminata da un sole particolarmente dolce, il giovane pesco tornò a chiedere:
“Adesso, posso fiorire?”

Il vecchio pesco rispose:

“No, ragazzo mio!
Non è ancora primavera.
È probabile che vengano ancora giorni di freddo!”
Il giovane pesco sbottò:
“Uffa! Voi grandi, siete tutti così!
Sempre con i vostri stai attento qui, aspetta là, abbi pazienza…
Sono stufo, delle vostre lagne! C’è un bel sole, e decido io per me!”
Ed i boccioli del giovane pesco esplosero, in magnifici fiori rosa.

“Guarda, quel pesco: è già fiorito!

È bellissimo!” dicevano i passanti, ammirati.
Sulla collina, era l’unico pesco fiorito, e tutte le attenzioni e l’ammirazione della gente erano solo per lui.
Il giovane pesco si pavoneggiò, esultante!
Il sole di Marzo purtroppo durò poco ed il giorno seguente una lama di aria gelida annientò crudelmente i suoi fiori, così come i suoi sogni.

Brano senza Autore, tratto dal Web