Le lenti a contatto

Le lenti a contatto

In una bella e calda giornata di fine primavera, un serpente incontrò nella foresta la sua vecchia amica moffetta.
“Cosa fai di bello?” gli chiese la moffetta, “È tanto tempo che non ti vedo!”
“Direi che me la passo bene!” rispose il serpente,

“Solo che non ci vedo quasi più.

Mi metterò le lenti a contatto il più presto possibile!”
Il serpente, si procurò infatti quelle lenti e pochi giorni dopo incontrò di nuovo la moffetta.
“Adesso, non solo ci vedo alla perfezione!” disse alla sua amica,

“Perfino la mia vita familiare è migliorata!”

“Come possono le lenti a contatto migliorare la vita familiare?” domandò la moffetta.
“Semplice!” rispose il serpente, “Ho scoperto che vivevo con un tubo per innaffiare il giardino!”

Brano di Bruno Ferrero

L’allodola e le tartarughe

L’allodola e le tartarughe

Un re dei tempi antichi aveva, intorno al suo palazzo, un immenso giardino, in cui viveva e prosperava una popolazione di grosse tartarughe.
Un giorno nel giardino delle tartarughe scese un’allodola.
Le tartarughe la trovarono così graziosa che cominciarono a coprirla di complimenti.
“Che belle piume!
Che graziose zampette!
Che beccuccio delicato!
Certo questo uccellino è tra i più belli che esistono!”
L’allodola, confusa, per ringraziarle cantò la canzone più dolce e brillante del suo repertorio.

Le lente tartarughe andarono in visibilio.

“È un’artista!
Che talento!
Che gorgheggi e che senso dello spettacolo!
Stupendo!
Magnifico!”
Gli applausi si sprecarono.
“Chiediamole di fermarsi a vivere con noi!” propose una tartaruga.
Al tramonto, quando l’uccello calò giù in picchiata una furba tartaruga gli disse:
“Cara la mia allodola, per tutte noi sei come una figlia, lo sai.
Ti vogliamo tanto bene che abbiamo chiesto al Re delle tartarughe come farti felice, e lui ci ha risposto che la felicità massima, sulla terra, è starsene con i piedi ben piantati al suolo.

Che ne diresti di non lasciarci più e rinunciare a volare?

Al mondo sono i fatti che contano, e camminare è un fatto, non puoi negarlo!”
“Se lo dici, sarà così!” rispose l’allodola, “Solo che io sono un uccello, e non posso fare diversamente.
Tutti quelli che hanno le ali vogliono andare in alto, verso la luce!”
“Però volare è così faticoso!” proseguì la tartaruga, “Tutti gli animali, tranne voi, non desiderano altro che riposare e avere la pancia piena.
E poi, non hai mai pensato al falco o ai cacciatori?”
L’allodola, pensierosa, finì per rispondere:
“Credo che tu abbia ragione, amica mia.
Che debbo fare per restare sempre qui con voi?”
La tartaruga, tutta contenta, le suggerì di strapparsi ogni giorno una piuma dalle ali:
“A poco a poco volare ti sarà sempre più difficile, e alla fine smetterai senza neppure accorgertene.
E poi vivrai insieme a noi nel giardino, potrai bere l’acqua fresca e mangiare la frutta e l’insalata che gli uomini ci regalano ogni giorno.

Come saremo felici, senza ansie, senza preoccupazioni!”

Da quel giorno, l’allodola badò a strapparsi una piccola penna ogni mattina e alla fine si ritrovò con le ali completamente spennate.
Ora non poteva alzarsi in volo, ma in compenso che pace, e che belle mangiate!
L’allodola razzolava e becchettava nel terreno come un pollo, ingrassava e si divertiva a giocare con le tartarughe.
Erano finite, finalmente, le fatiche mattutine per volare verso il sole in cerchi concentrici, trillando come tutte le altre brave allodole.
Non inventava più canzoni nuove, ma alle sue amiche, in fondo, piacevano anche quelle vecchie.
Finché un giorno, nel giardino capitò una donnola affamata.
Quando vide una grassa allodola che saltellava tra le tartarughe, non credette ai suoi occhi e si preparò ad azzannarla.
Le tartarughe, terrorizzate, si nascosero ciascuna nel proprio guscio.

“Aiutatemi!” gridò l’allodola.

“Cara figlia, la donnola è più veloce di noi, e ha i denti aguzzi!
Non possiamo aiutarti!” risposero quelle, in coro.
“Mi sta bene!” disse allora l’allodola, “Per vanagloria mi sono fatta tartaruga e ho rinunciato alla mia unica salvezza, le ali!”
Nascose la testa sotto l’ala e si rassegnò alla sua sorte.

Brano tratto dal libro “L’allodola e le tartarughe.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Aspettando papà

Aspettando papà

Uno dei ricordi più vivi della mia infanzia si riferisce a quando mio padre tornava a casa dal lavoro alle sei e mezzo di sera.
Io e mio fratello lo sentivamo suonare il campanello più e più volte, per gioco, fino a quando uno di noi due non andava ad aprirgli la porta.

Di solito,

noi eravamo in cucina a fare i compiti o a guardare la televisione e lanciavamo grida d’entusiasmo nel sentire quel familiare scampanellio.
Ci precipitavamo giù per le scale, spalancavamo la porta di casa e a quel punto lui ci diceva:

“Be’, come mai ci avete messo tanto?”

Era il momento migliore della giornata quando lui tornava a casa.
C’è un altro ricordo che mi accompagnerà per sempre e si riferisce a quello che per lui era un vero rito quotidiano: la cena.
Ci accomodavamo a tavola tutti insieme e poi lui, posando una mano sul braccio della mamma, diceva:
“Ma voi due lo sapete che avete la mamma più straordinaria del mondo?”

Era una frase che amava ripetere tutte le sere.

La famiglia, nel progetto di Dio, doveva essere un’oasi di amore, di gioia e di pace.
Noi, oggi, cosa ne stiamo facendo?

Brano senza Autore

Il filo di paglia

Il filo di paglia

I pastori che erano stati alla stalla di Betlemme a onorare il Bambino Gesù tornavano a casa.
Erano arrivati tutti con le braccia cariche di doni, e ora se ne partivano a mani vuote.
Eccetto uno.
Un pastore giovane giovane aveva portato via qualcosa dalla stalla santa di Betlemme.
Una cosa che teneva stretta nel pugno.
Gli altri lì per lì non ci avevano fatto caso, finché uno di essi non disse:
“Che cos’hai in mano?”
“Un filo di paglia!” rispose il giovane pastore, “Un filo di paglia della mangiatoia in cui dormiva il Bambino!”
“Un filo di paglia!” sghignazzarono gli altri, “È solo spazzatura.
Buttalo via!”

Il giovane pastore scosse il capo energicamente.

“No!” disse, “Lo conservo.
Per me è un segno, un segno del Bambino.
Quando tengo questa pagliuzza nelle mie mani, mi ricordo di lui e quindi anche di quello che hanno detto di lui gli angeli!”
Il giorno dopo, gli altri pastori chiesero al giovane:
“Che ne hai fatto della tua pagliuzza?”
Il giovane la mostrò.
“La porto sempre con me!”
“Ma buttala!” esclamarono gli altri pastori.
“No.
Ha un grande valore.
Su di essa giaceva il Figlio di Dio!” ribatté il giovane.
“E con questo?
Il Figlio di Dio vale.
Non la paglia!” gli dissero.

“Avete torto.

Anche la paglia vale tanto.
Su che altro poteva stare il Bambino, povero com’era?
Il Figlio di Dio ha avuto bisogno di un po’ di paglia.
Questo mi insegna che Dio ha bisogno dei piccoli, dei senza valore.
Sì, Dio ha bisogno di noi, i piccoli, che non contiamo molto, che sappiamo così poco!” spiegò il giovane.
Con il passare dei giorni sembrò che il filo di paglia diventasse sempre più importante per il giovane pastore.
Durante le lunghe ore al pascolo lo prendeva spesso in mano:
in quei momenti ripensava alle parole degli angeli ed era felice di sapere che Dio amava tanto gli uomini da farsi piccolo come loro.
Ma un giorno uno dei suoi compagni gli portò via il filo di paglia dalle mani, gridando:
“Tu e la tua maledetta paglia!
Ci hai fatto venire il mal di testa con queste stupidaggini!”
Stropicciò la pagliuzza e la gettò nella polvere.
Il giovane pastore rimase calmo.
Raccolse da terra il filo di paglia, lo lisciò e lo accarezzò con la mano, poi disse all’altro:

“Vedi, è rimasto quello che era:

un filo di paglia.
Tutta la tua rabbia non ha potuto cambiario.
Certo, è facile fare a pezzi un filo di paglia.
Pensa:
perché Dio ci ha mandato un bambino, mentre ci serviva un Salvatore forte e battagliero?
Ma questo Bambino diventerà un uomo, e sarà resistente e incancellabile.
Saprà sopportare tutte le rabbie degli uomini, rimanendo quello che è:
il Salvatore di Dio per noi!”
Il giovane sorrise, con gli occhi luminosi:
“No. L’amore di Dio non si può fare a pezzi e buttare via.
Anche se sembra fragile e debole come un filo di paglia!”

Brano di Bruno Ferrero

Vorrei vedere Dio

Vorrei vedere Dio

Un giorno, un uomo, famoso per il suo scetticismo, andò da un vecchio saggio e chiese:
“Vorrei tanto vedere il tuo Dio!”

“È impossibile!” rispose il saggio.

“Impossibile?
Allora, come posso affidare la mia vita a qualcuno che non posso vedere?” chiese l’uomo.
“Siete sposato?” domandò il saggio.

“Sì, da quindici anni!

Ma perché me lo chiedete?” replicò l’uomo.
“Se siete sposato da quindici anni, allora mostratemi la tasca dove avete riposto l’amore per vostra moglie.
E lasciate che io lo pesi, per vedere se è grande!” chiese il saggio.

“Non siate sciocco!

Nessuno può conservare l’amore in una tasca!” rispose l’uomo, sorpreso dall’insolita richiesta.
“Il sole è soltanto una delle opere che Dio ha messo nell’universo,” spiegò il saggio “eppure, se lo fissate, non potete vederlo.
Tanto meno potete vedere l’amore, ma sapete di essere capace di innamorarvi di una donna e di affidarle la vostra vita.
Non vi sembra evidente che esistono nella vita alcune cose, nelle quali confidiamo anche senza vederle?”

Brano senza Autore

La ragazza ed il mastelletto (Mastellina)

La ragazza ed il mastelletto (Mastellina)

Tanti, tanti anni fa, in un piccolo villaggio, vivevano un uomo e una donna.
Prima essi avevano abitato in una città, in un palazzo bello e ricco.
Ora invece vivevano poveramente in una misera capanna.
In tanta sfortuna, la loro unica consolazione era la figlia che avevano.
Sebbene ancor molto giovane, tutti l’ammiravano già per la sua straordinaria bellezza.
Ma, ahimé, prima che la ragazza fosse cresciuta, il padre morì e dopo pochi mesi anche la madre cadde gravemente malata.
“Che sarà di mia figlia, quando anch’io sarò morta?” ripeteva piangendo la donna, “È povera, e la sua bellezza sarà per lei soltanto un castigo.”
Quando la poverina sentì d’esser prossima a morire, chiamò a sé la ragazza, le raccomandò di essere buona e coraggiosa, e le disse di portarle il mastelletto di legno che stava dietro la porta.
La ragazza ubbidì e si inginocchiò accanto al letto della madre morente.
La donna alzò il mastelletto e lo mise in testa alla figlia in modo da nasconderle quasi completamente la faccia.
“Ora, figlia mia,” disse la donna, “promettimi di non toglierti mai di testa questo mastelletto.
Altrimenti, sarai molto infelice.”

La ragazza promise.

Morta che fu la madre, la ragazza campò come meglio poteva.
Lavorava sodo aiutando i contadini nei campi, e mai nessuno udì da lei una parola di lamento per quel che doveva fare.
La gente che la vedeva sempre col mastelletto in testa cominciò a chiamarla Mastellina.
A poco a poco tutti dimenticarono che sotto quella strana maschera si nascondeva il più bel volto del paese.
Un ricco possidente nei cui campi la ragazza lavorava, finì per accorgersi di lei, ammirato dalla sua modestia e diligenza.
Un giorno la chiamò, e le offrì di andare a servizio nella sua casa a curare la moglie ch’era molto malata.
La ragazza accettò l’incarico e svolse così bene il suo compito da meritarsi la fiducia di tutti.
Un giorno, il maggiore dei figli del padrone tornò a casa dalla città dove studiava.
Conobbe Mastellina, prese ad ammirare il suo carattere tranquillo e la sua indole buona, e andava chiedendo alla gente del villaggio notizie su di lei.
Seppe così che era un povera orfanella, da tutti chiamata Mastellina a causa appunto del mastelletto che portava in testa per nascondere, si diceva, i brutti lineamenti del suo viso.
Ma una sera, il giovanotto si avvicinò a Mastellina che portava un pesante secchio pieno d’acqua e vide il volto della ragazza riflesso nell’acqua del secchio.

Era di una bellezza eccezionale.

Egli decise subito di sposare la giovane serva.
I suoi genitori non approvarono la sua scelta, ma il giovane fu irremovibile e tanto disse e tanto fece che riuscì a fissare la data delle nozze.
Mastellina rimase molto male quando seppe che i suoi padroni non l’accettavano volentieri come nuora in casa loro.
Essa piangeva giorno e notte, e pregò il suo fidanzato di sposare una donna che potesse portargli una ricca dote.
Ma una notte essa vide in sogno sua madre, la quale le disse:
“Non temere, figlia mia.
Sposa pure il figlio del tuo padrone.”
La ragazza ne fu felice, si alzò tutta allegra e cominciò a prepararsi per le nozze.
Prima della cerimonia nuziale, tutti volevano togliere dal capo della sposa quello strano casco, ma nessuno ci riuscì.

Lo sposo però disse:

“Io le voglio tanto bene, e la sposerò così com’è!”
Le nozze furono celebrate.
Dopo la cerimonia ci fu uno splendido banchetto:
tutti erano intorno alla sposa a brindare alla sua salute, quando, all’improvviso, il mastelletto si spaccò in due cadendo per terra a pezzi con gran fracasso.
Oh meraviglia!
I pezzi erano tutti d’oro, d’argento e di pietre preziose.
Così la povera ragazza poté vantare una dote più bella e più ricca di quella di una principessa.
Ma quel che più stupì gli invitati fu la straordinaria bellezza della sposa.
I brindisi in onore della coppia felice non si contarono più; grida, canti e risate andarono avanti fino al mattino.

Brano di Bruno Ferrero

Quanto più il carretto è vuoto, tanto più fa rumore!

Quanto più il carretto è vuoto, tanto più fa rumore!

Camminavo con mio padre, quando all’improvviso si arrestò ad una curva e dopo un breve silenzio mi domandò:
“Oltre al canto dei passeri, senti qualcos’altro?”

Aguzzai le orecchie e dopo alcuni secondi gli risposi:

“Il rumore di un carretto.”
“Giusto!” mi disse, “È un carretto vuoto.”
Io gli domandai:
“Come fai a sapere che si tratta di un carretto vuoto se non lo hai ancora visto?”.

Mi rispose:

“È facile capire quando un carretto è vuoto, dal momento che quanto più è vuoto, tanto più fa rumore.”

Divenni adulto e anche oggi quando vedo una persona che parla troppo, interrompe la conversazione degli altri, è invadente, si vanta delle doti che pensa di avere, è prepotente e pensa di poter fare a meno degli altri,

ho l’impressione di ascoltare la voce di mio padre che dice:

“Quanto più il carretto è vuoto, tanto più fa rumore!”

Brano di Bruno Ferrero

Le cose che ho imparato nella vita

Le cose che ho imparato nella vita

Ecco alcune delle cose che ho imparato nella vita:

  • Non importa quanto buona sia una persona, ogni tanto ti ferirà.
    E per questo bisognerà che tu la perdoni.
  • Ci vogliono anni per costruire la fiducia e solo pochi secondi per distruggerla.
  • Non dobbiamo cambiare amici, se comprendiamo che gli amici cambiano.
  • Le circostanze e l’ambiente hanno influenza su di noi, ma noi siamo responsabili di noi stessi.
  • Dovrai essere tu a controllare i tuoi atti, o essi controlleranno te.
  • Gli eroi sono persone che hanno fatto ciò che era necessario fare, affrontandone le conseguenze.
  • La pazienza richiede molta pratica.
  • Ci sono persone che ci amano profondamente, ma semplicemente non sanno come dimostrarlo.
  • A volte la persona che tu pensi ti sferrerà il colpo mortale quando cadrai è invece una di quelle poche che ti aiuteranno a rialzarti.
  • Solo perché qualcuno non ti ama come tu vorresti, non significa che non ti ami con tutto se stesso.
  • Non si deve mai dire a un bambino che i sogni sono sciocchezze: sarebbe una tragedia se lo credesse.
  • Non sempre è sufficiente essere perdonato da qualcuno.
    Nella maggior parte dei casi sei tu a dover perdonare te stesso.
  • Non importa in quanti pezzi il tuo cuore si è spezzato; il mondo non si ferma aspettando che tu lo ripari.
  • Forse Dio vuole che incontriamo un po’ di gente sbagliata prima di incontrare quella giusta, così, quando finalmente la incontreremo, sapremo come essere riconoscenti per quel regalo.
  • Quando la porta della felicità si chiude, un’altra si apre,

    ma tante volte guardiamo così a lungo a quella chiusa, che non vediamo quella che è stata aperta per noi.

  • La miglior specie d’amico è quel tipo con cui puoi stare seduto in un portico e camminarci insieme, senza dire una parola, e quando vai via senti come se sia stata la miglior conversazione mai avuta.
  • È vero che non conosciamo ciò che abbiamo prima di perderlo, ma è anche vero che non sappiamo ciò che ci è mancato prima che arrivi.
  • Ci vuole solo un minuto per offendere qualcuno, un’ora per piacergli, e un giorno per amarlo, ma ci vuole una vita per dimenticarlo.
  • Non cercare le apparenze: possono ingannare.
    Non cercare la salute, anche quella può affievolirsi.
  • Cerca qualcuno che ti faccia sorridere, perché ci vuole solo un sorriso per far sembrare brillante una giornataccia.
  • Trova la persona che faccia sorridere il tuo cuore.
  • Ci sono momenti nella vita in cui qualcuno ti manca così tanto che vorresti proprio tirarlo fuori dai tuoi sogni per abbracciarlo davvero!
  • Sogna ciò che ti va, vai dove vuoi, sii ciò che vuoi essere, perché hai solo una vita e una possibilità di fare le cose che vuoi fare.
  • Puoi avere abbastanza felicità da renderti dolce, difficoltà a sufficienza da renderti forte, dolore abbastanza da renderti umano, speranza sufficiente a renderti felice.
  • Mettiti sempre nei panni degli altri.
    Se ti senti stretto, probabilmente anche loro si sentono così.
  • Le più felici delle persone non necessariamente hanno il meglio di ogni cosa; soltanto traggono il meglio da ogni cosa che capita sul loro cammino.
  • L’amore comincia con un sorriso, cresce con un bacio e finisce con un the.
  • Il miglior futuro è basato sul passato dimenticato, non puoi andare bene nella vita prima di lasciare andare i tuoi fallimenti passati e i tuoi dolori.
  • Quando sei nato, stavi piangendo e tutti intorno a te sorridevano.
    Vivi la tua vita in modo che quando morirai, tu sia l’unico che sorride e ognuno intorno a te piange.
Brano di Paulo Coelho

Il ricamo

Il ricamo

Quando ero piccolo mia madre era solita cucire tanto.
Mi sedevo vicino a lei e le chiedevo cosa stesse facendo.

Lei mi rispondeva che stava ricamando.

Osservavo il lavoro di mia madre da un punto di vista più basso rispetto a dove stava seduta lei, cosicché ogni volta mi lamentavo dicendole che dal mio punto di vista ciò che stava facendo mi sembrava molto confuso.
Lei mi sorrideva, guardava verso il basso e gentilmente mi diceva:
“Figlio mio, vai fuori a giocare un po’ e quando avrò terminato il mio ricamo ti metterò sul mio grembo e ti lascerò guardare dalla mia posizione!”
Mi domandavo perché utilizzava dei fili di colore scuro e perché mi sembravano così disordinati visti da dove stavo io.

Alcuni minuti dopo sentivo la voce di mia madre che mi diceva:

“Figlio mio, vieni qua e siediti sul mio grembo.”
Io lo facevo immediatamente e mi sorprendevo e mi emozionavo al vedere i bei fiori o il bel tramonto nel ricamo.
Non riuscivo a crederci; da sotto si vedeva così confuso.

Allora mia madre mi diceva:

“Figlio mio, di sotto si vedeva confuso e disordinato ma non ti rendevi conto che di sopra c’era un progetto.
C’era un disegno, io lo stavo solo seguendo.
Adesso guardalo dalla mia posizione e saprai ciò che stavo facendo!”

Brano tratto dal libro “Il Dio Padre di Gesù.” di Giovanni Maddamma