L’industriale, il manager e l’operaio

L’industriale, il manager e l’operaio

In una piccola città c’era un industriale.
Era un uomo potente, con gli occhiali d’oro, la borsa di cuoio, la voce tonante e una grossa automobile con l’autista in divisa blu.
Quando l’industriale usciva dalla sua palazzina dirigenziale, il manager che dirigeva la sua fabbrica si toglieva il cappello, faceva un profondo inchino e porgeva deliziosi saluti anche alla signora.
Il manager aveva lo sguardo d’acciaio e modi bruschi, usava parole inglesi ed era sempre indaffarato.
Aveva, inoltre, una grossa automobile rossa e quando usciva dall’ufficio, l’operaio si toglieva il cappello, faceva un inchino e porgeva deferenti saluti.

L’operaio viaggiava su una Panda, aveva le spalle un po’ curve e il sorriso triste.

Quando usciva dalla fabbrica nessuno lo salutava.
Solo un cane giallo, con la testa ciondoloni, una sera lo seguì e da quel momento non lo lasciò più.
Quando l’industriale era di cattivo umore strapazzava il manager, lo chiamava “incapace” e “inefficiente”, scaricava sulle sue spalle tutti i guai dell’azienda e faceva svolazzare fogli di carta battendo grandi manate sulla scrivania di mogano.
Quando il manager era di cattivo umore chiamava l’operaio e gli sbraitava “pelandrone” e “scansafatiche”, lo minacciava di licenziamento, mostrandogli i pugni, e gli attribuiva tutte le colpe per le difficoltà dell’azienda.
Quando l’operaio era di cattivo umore se la prendeva con il cane e lo chiamava “bastardo”.

Il cane non se la prendeva, perché era la verità.

I figli dell’industriale frequentavano la migliore scuola privata della regione, arrivavano a scuola con il macchinone e avevano il tutor che li aiutava a studiare e a fare i compiti.
I figli del manager frequentavano una scuola del centro, arrivavano a scuola con il fuoristrada della mamma e avevano lezioni private di inglese e informatica.
I figli dell’operaio andavano a scuola in tram (quando pioveva) e facevano i compiti da soli perché la mamma aveva tanto da fare e l’operaio non sapeva le risposte.
L’industriale abitava in una grossa villa con giardino e aveva tre persone di servizio.
Il manager abitava in una graziosa villetta e aveva la colf filippina.
L’operario abitava al settimo piano di un condominio rumoroso.
Il cane si nascondeva dietro i cassonetti dell’immondizia.
L’industriale non voleva che i suoi figli giocassero con i figli del manager e dell’operaio e li mandava in un costoso centro sportivo.
Il manager non voleva che i figli giocassero con i figli dell’operaio e regalava loro sempre nuove playstation.
I figli dell’operaio giocavano con il cane.
Tutti i bambini erano infelici perché, insieme, avrebbero potuto giocare a calcio nel campo dell’oratorio.

Anche i grandi erano infelici.

L’operaio aveva paura del manager, il manager aveva paura dell’industriale, l’industriale aveva paura di morire.
Il cane aveva paura di tutti.
Poi arrivò Natale.
Nella parrocchia dell’industriale, del manager e dell’operaio si faceva ogni anno una “sacra rappresentazione” del mistero della nascita di Gesù e i personaggi erano presi tra la gente.
Essere scelto per la recita natalizia era un motivo di gran prestigio e tutti lo volevano fare.
Così i personaggi venivano tirati a sorte.
L’industriale, il manager e l’operaio furono sorteggiati per personificare i tre Re Magi.
L’industriale si fece fare un prezioso costume dal sarto, il manager noleggiò un magnifico costume da sultano e l’operaio si avvolse nel copriletto della nonna e si dipinse la faccia di nero.
Il cane fu dipinto di bianco per fare la pecorella.
Venne la sera della rappresentazione.
Tutto si svolse in modo meraviglioso.

Alla fine avanzarono solennemente i tre Magi.

Dovevano posare i doni sulla culla del bambino e andarsene.
Si avvicinarono e tesero contemporaneamente le mani verso il bambino, che secondo il copione avrebbe dovuto dormire.
Ma il cane-pecorella abbaiò e il bambino si svegliò.
Gorgogliando felice, spalancò gli occhioni e afferrò con le braccine paffute le sei mani protese verso di lui.
I tre Magi, imbarazzati, tentarono di liberare le mani, ma il bambino scoppiò a piangere e furono costretti a prendere in braccio il bambino tutti e tre insieme, finché non arrivò la mamma del piccolo con il biberon.
I tre Magi scesero dal palco turbati.
Avevano tutti e tre dentro un pensiero del tipo:
“Il bambino è venuto dal cielo per tutti.
Per l’industriale, per il manager e per l’operaio.
E per tutti morirà sulla croce…”
Così, nelle vacanze di Natale, tutti videro i figli dell’industriale, del manager e dell’operaio giocare felici ed insieme sul prato dell’oratorio.
Il cane giocava in porta.

Brano tratto dal libro “Storie di Natale, d’Avvento e d’Epifania.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

La chiave d’oro

La chiave d’oro

Paolino aveva alcune cose che lo soddisfacevano, come 12 (dodici) anni, un discreto dribbling, i capelli rossi e 24 (ventiquattro) lentiggini sul naso.
Altre gli piacevano un po’ meno, come dover andare a scuola, la lingua inglese e Giorgio, il suo amico-nemico dichiarato, che gli aveva affibbiato il soprannome di “ketchup” (sempre per via dei capelli).
Per il resto Paolino era un ragazzo come tanti, spesso stanco, disubbidiente Q. B. (quanto basta), gentile e affettuoso nei momenti giusti.
Ma un pomeriggio, avvenne qualcosa che cambiò, in un certo senso, la sua vita.
Era la ventesima volta che Paolino rileggeva la pagina di storia.
Ma non c’era niente da fare: non capiva nulla.
Tutti quei Francheschi, Carli, Enrichi, re ora di qua, ora di là, facevano una gran confusione nella sua testa.

Era stufo e arcistufo.

Sbuffò con la forza di un ippopotamo e sparò un calcio da “telebeam” al cestino della carta.
Dalla cucina filtravano le risate delle sorelline (5 e 3 anni) che guardavano i cartoni animati alla televisione.
“Diventare grandi è una rottura!” pensò per un momento, ma solo per un momento.
Stava per mandare il libro di storia a far compagnia al cestino della carta, quando qualcosa attirò la sua attenzione.
Un leggero picchiettio alla finestra.
Corse a guardare.
Sul davanzale c’era un colombo bianco.
Paolino aprì la finestra.
“Avrà fame!” pensò.
Allungò la mano piano piano:
il colombo non volò via, anzi, andò incontro alla sua mano.
Portava qualcosa di luccicante nel becco.
Con un rapido movimento del capo lo posò nel palmo della mano del ragazzo e poi in un frullo d’ali volò via.

Paolino guardò il regalo del colombo:

era una piccola chiave d’oro.
Si sentiva stranamente tranquillo, come se i colombi che vanno in giro a distribuire chiavi d’oro, fossero una cosa assolutamente normale.
Nel cassetto della scrivania trovò un laccio di cuoio, lo fece passare nell’occhiello della chiave e se lo infilò al collo.
Il giorno, dopo a scuola, tutti ammiravano il suo ciondolo.
“È nuovo?” gli chiese perfino Giorgio.
“No. È lavato con Perlana!” rispose Paolino, tanto per non smentirsi.
Qualcuno gli chiese dove l’avesse preso.
Ma non osò raccontarlo.
Il fatto strano cominciò durante l’intervallo.
Riccardo e Walter lo attaccarono pesantemente sulla diletta Juventus.
La sua squadra del cuore era stata sconfitta la domenica precedente e Paolino l’aveva presa male.
Perfidamente, i due amici cominciarono a farsi beffe di lui, e questo lo poteva sopportate, ma poi attaccarono la squadra, e questa era un’onta da lavare con i pugni.
C’era un angolino nel cortile costantemente fuori portata degli sguardi indagatori degli insegnanti.
Era là che si regolavano le sfide a botte.

Paolino era grosso e svelto:

non aveva certo paura dei suoi compagni.
Li sfidò a raggiungerlo nel cortile.
Era là che aspettava con i pugni chiusi, quando vide sul muro una serratura, lieve ma ben definita.
Chi era quel matto che disegnava serrature sul muro?
La serratura, però, non era disegnata.
Era reale.
Paolino la guardò a bocca aperta, poi capì.
Si sfilò la chiave dal collo e provò nella serratura.
Entrava perfettamente.
La girò piano piano, con il cuore che batteva.
Nel muro si aprì come uno sportello.
Dentro c’era un cielo sereno in cui spiccava nitido e colorato un magnifico arcobaleno.
Sembrava così vicino che Paolino allungò la mano:
l’arcobaleno si avvolse come una sciarpa di seta attorno alla sua mano.
In quell’istante lo sportello nel muro sparì.
Riccardo e Walter arrivarono pronti a fare a botte, ma Paolino allargò le braccia in segno di resa.
Non riusciva proprio a stringere a pugno la mano che era stata fasciata dall’arcobaleno.
Sorpresi dall’improvviso gesto di pace, Riccardo e Walter divennero subito più amichevoli e si avvicinarono a Paolino, quasi sorridenti.
“Bè, dopotutto, la Juventus non è da buttar via!” disse Walter.
La seconda volta successe a casa.
Dopo pranzo.
“Per piacere, Paolino,” disse la mamma, “oggi resta in casa e tieni d’occhio le sorelline.
Devo uscire per delle commissioni e non posso portarle con me!”

“Ma mamma!

Ho promesso di andare all’oratorio con Giorgio:
è il mio pomeriggio libero!
Porta Elena ed Evelina dalla nonna!”
“La mamma ti ha chiesto un piacere, Paolo!” ribatté con aria severa il papà, “Oggi rimani a casa, chiaro?”
“Uffa! È sempre così!
E io esco lo stesso!”
Paolino sbatté la sedia contro il tavolo con malagrazia e si rifugiò nella sua cameretta.
“Esco lo stesso!” si disse, e si infilò il giubbotto.
Era a un passo dalla porta d’ingresso, quando apparve di nuovo, sul muro del corridoio, la misteriosa serratura.
Questa volta Paolino non ebbe dubbi.
Introdusse la chiave d’oro nella serratura, che, come la prima volta, scattò morbidamente.
Lo sportello magico si aprì e, dentro il muro, come in un armadietto, Paolino vide una carezza del papà e un bacio della mamma.
Erano le due cose più belle della sua vita, le purtroppo rare carezze di papà lo riempivano di fierezza e i baci della mamma facevano passare tutto:

le delusioni, il mal di pancia, i brutti voti e le paure.

Lentamente tornò indietro, mentre lo sportello nel muro spariva.
“E va bene!” brontolò, “Farò la guardia a quei due esseri pestilenziali!”
Quella sera non era la più adatta a rialzargli l’umore, nonostante la buona azione del pomeriggio.
Il giorno dopo sarebbe quasi certamente stato interrogato in inglese e perciò gli toccava studiare proprio la materia che gli risultava più indigesta.
Ogni due verbi inglesi accendeva la radio per distrarsi un po’.
Dopo un’ora aveva studiato esattamente quattro verbi.
“Di questo passo a mezzanotte sarò ancora qui, accidenti a questa rottura!” sbuffava.
Fu così che vide la serratura per la terza volta.
Era nell’aria, dietro la lampada da tavolo.
Paolino prese la chiave d’oro e aprì il solito sportello.
Dentro, questa volta c’era lui.
Vide se stesso che saliva una scala che si perdeva nelle nuvole.
Mentre saliva, gli scalini dietro di lui scomparivano.
Per quella scala si poteva solo salire.

Era impossibile tornare indietro.

Anche questa volta Paolino capì.
Spense la radio e cominciò a studiare.
Non poteva buttare via gli “scalini”:
non li avrebbe recuperati mai più.
Così la chiave d’oro cambiò la vita di Paolino.
Apparentemente era rimasto il ragazzo di prima, con 12 anni, un discreto dribbling, i capelli rossi, 24 lentiggini sul naso e un amico-nemico che lo chiamava “ketchup”, ma in lui qualcosa era diverso.
Se ne accorse perfino il preside che un giorno, mentre Paolino si preparava a battere un “corner” durante la partita nel cortile della scuola, gli passò vicino e gli disse:
“E bravo Paolino!
Hai trovato la chiave della saggezza?”
“Proprio così!” rispose Paolino.
E tirò un magnifico “corner”.
Ma Riccardo, come al solito, “ciccò” ignobilmente il pallone.

Brano tratto dal libro “Altre storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Il monaco, il predone ed il mercante

Il monaco, il predone ed il mercante

C’era una volta un monaco.
Un piccolo monaco che viveva da solo in una modesta e minuscola capanna nel deserto.
Passava il tempo pregando e per guadagnare da vivere fabbricava cestini e cappelli intrecciando foglie di palma.
Molta gente veniva dalla città e gli sottoponeva i suoi problemi e lui cercava di aiutarli e confortarli.
Il piccolo monaco indossava un vestito di tela grezza, mangiava pane e acqua e non possedeva proprio niente eccetto un libro speciale, che era il suo tesoro e che leggeva ogni giorno.
Un giorno, un predone entrò come una furia nella capanna del monaco.
Un predone truce e cattivo.
Con una folta barba scarmigliata e un’affilata e minacciosa spada.

“Dammi il tuo tesoro!” sbraitò.

Il piccolo monaco gli consegnò il libro prezioso, nonché unico, e stette tristemente a guardare il predone che se andava.
Quando il predone arrivò alla città, si precipitò nella bottega di un mercante e senza tanti preamboli gli chiese il valore di quel libro straordinario.
“Ma io non so niente di libri!” si lamentò il mercante.
“Io ho bisogno di soldi!
Tanti!
Dimmi quanto vale questo librò e io lo venderò!” gridò il predone.
“Non lo so proprio” pigolò il mercante, sfogliando il libro, “Ma conosco qualcuno che se ne intende, un vero esperto.
Lasciami il libro per un giorno o due e glielo chiederò!”
“D’accordo!” grugnì il predone, sguainando la spada, “Tornerò qui tra due giorni.
Fa’ in modo che il libro sia qui, quando tornerò!”
Quella sera, dopo la chiusura della bottega, il mercante montò sul suo mulo e lo spronò nel deserto.
Cavalcò per chilometri finché giunse alla piccola capanna e incontrò il piccolo monaco.
“Ho un libro!” gli spiegò, “Un tipo grande e grosso con una folta barba è venuto da me.

Vuole venderlo.

Mi puoi dire quanto vale?”
Trasse il libro dalla borsa e lo mostrò al monaco.
Il piccolo monaco fissò il libro.
Non avrebbe mai immaginato di rivedere così presto il suo tesoro.
Ma non gridò:
“È mio!” ne puntò il dito contro il mercante dicendo:
“Quell’uomo è un ladro!”
No.
Tutto quello che disse fu:
“Questo è un libro di grandissimo valore.
Vale almeno lo stipendio di un anno!”
Il mercante si accomiatò e ritornò in città.
Quando il predone si presentò aveva l’aria più spietata che mai.
“Allora dimmi,” brontolò, “quanto vale il mio libro?”
“Parecchio!” sorrise il mercante. “Almeno lo stipendio di un anno!”
L’umore del bandito cambiò un po’.
“Magnifico!” ghignò, “E come fai ad esserne così sicuro?”
“È stato facile!” spiegò il mercante, “C’è un piccolo monaco che vive nel deserto in una piccola capanna.
Lui conosce tutto di queste cose.
Gli ho portato il libro e gliel’ho mostrato!”

L’umore del bandito cambiò del tutto.

“Un piccolo monaco?
Nel deserto?” balbettò.
“Proprio così!” rispose il mercante.
“E gli hai detto chi voleva vendere il libro?” domandò il predone.
“Un uomo grande e grosso con una folta barba: questo gli ho detto!” replicò il mercante.
“E il monaco non ha detto niente del libro?
Niente di me?” chiese, allora, il predone.
“Niente.
Perché?” replicò il mercante.

“Così!” mentì il predone, “Tanto per dire.”

Poi afferrò il libro e lasciò la bottega in fretta e furia.
Salì sul suo cavallo e ritornò nel deserto.
Cavalcò e cavalcò fino alla piccola capanna.
“Che cosa significa?” sbraitò entrando come una raffica di vento nella capanna, “Avresti potuto denunciarmi e mi avrebbero arrestato.
Perché non hai detto niente?”
“Perché ti avevo già perdonato!” rispose il monaco.
“Perdonato me?” gridò il predone, “Perdonato?”
La sua voce si smorzò.
“Nessuno mi ha mai perdonato!” quasi sussurrò.
“Mi hanno odiato, cacciato, inseguito, esiliato, condannato.
Ma perdonato, mai!”
In quel momento qualcosa mutò nel cuore del predone grande e grosso.

Estrasse il libro dal suo sacco e lo porse al monaco:

“È tuo!”
Il piccolo monaco sorrise e ringraziò il bandito.
Poi lo invitò a fermarsi nella capanna per imparare qualcosa di più sul perdono e la pace nel cuore.
Non molto tempo dopo, il predone si fece monaco, un monaco grande e grosso con una folta barba, felice di dividere con gli altri il poco che aveva.

Brano tratto dal libro “Tante storie per parlare di Dio.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Il piccolo mago e la civetta

Il piccolo mago e la civetta

Il piccolo mago era sempre stato allegro e di buon umore.
Ma negli ultimi tempi, veniva assalito da un’improvvisa tristezza e pensieri pieni di nuvoloni neri.
Le mele sono mature, pensava, e io non ho nessuno con cui condividere una bella mela rossa.
I funghi sono cresciuti nel bosco, ma non c’è nessuno che viene a raccoglierli con me per fare insieme una squisita pizza ai funghi.
E sospirava pensando a come sarebbe stato bello avere un amico.
Un giorno passò di là un ragazzo.
Lesto il piccolo mago uscì dalla sua casetta nel bosco e gli domandò:

“Vuoi essere mio amico?”

“Ho già un amico, si chiama Mariolone.” rispose il ragazzo e continuò la sua strada.
Allora il piccolo mago andò a trovare il leprotto e gli chiese:
“Vuoi essere mio amico?”
Ma il leprotto si accontentò di scuotere la testa e fare “no” con le lunghe orecchie.
La stessa cosa risposero il capriolo, il cinghiale ed il boscaiolo.
“Tanto peggio per voi!” pensò il piccolo mago. “Io posso farmi un amico perfetto con un colpo di bacchetta magica.”
Salì su una grossa pietra, si avvolse nel mantello blu picchiettato di stelle dorare, alzò la bacchetta e pronunciò una formula magica.
Poi chiuse gli occhi, perché voleva farsi una sorpresa e, quando li aprì, accanto a lui era ferma una minuscola civetta.
“Abracada… braccidenti!” esclamò sorpreso il piccolo mago, “Mi ero immaginato un amico un po’ più grosso.”
“Un amico non si può fabbricare con un colpo di bacchetta magica!” dichiarò la civetta, aprendo e chiudendo gli occhi grossi e tondi, “Un amico, bisogna meritarlo e guadagnarselo.

E poco importa se è piccolo o grosso!”

Allora il piccolo mago si sforzò di guadagnarsi l’amicizia della piccola civetta.
Cantavano insieme, giocavano agli indovinelli ed il piccolo mago portava la civetta a passeggio tenendola sulla sua mano.
Così un giorno si accorsero che erano diventati veramente amici ed era una cosa stupenda.
Ma un giorno, vagabondando nel bosco, giunsero in una dorata radura di faggi.
“Guarda!” esclamò subito la civetta che indicò una cavità nera nel tronco di un albero, “È là che voglio abitare!”
“Ma,” obiettò il piccolo mago, “tu non puoi abbandonarmi.
Tu sei mio amico.”
“Si!” rispose la civetta, che era già scivolata nella cavità dell’albero, “Ma io sono una civetta e una civetta deve abitare in un albero.
È sempre stato così!
Per favore, dammi il permesso!

Io sarò felice.

E chi ama veramente un amico, deve aiutarlo ad essere felice!”
“Chi ama veramente un amico, deve aiutarlo ad essere felice!” ripeté lentamente il piccolo mago.
Così rimasero amici per sempre.

Brano di Bruno Ferrero

L’oroscopo personale

L’oroscopo personale

Non tutti gli anni che viviamo durante la nostra vita sono uguali; basta vedere questo 2020 quanto sconquasso ha portato per colpa del coronavirus.
Anche alcuni giorni iniziano apparentemente uguali, ma cambiano senza neanche saperne il perché;

basta crederci in modo da farli diventare unici.

Anni fa mi capitò di recarmi come turista a Venezia, con un treno locale, in una bella giornata fra tanta bella gente.
Vedere dai finestrini il susseguirsi della campagna veneta mi ha sempre messo di buon umore.
Contemporaneamente nella mia mente componevo poesie in piena libertà, momenti unici che fanno tanto bene al cuore.
Dopo alcune fermate, sul treno salì un mio caro amico di infanzia che, sedendosi di fronte, mi chiese come andasse.

Gli risposi:

“Bene! Alla grande! Oggi sono proprio contento, sento dentro di me una forza positiva che sarei capace di far alzare in piedi mezza carrozza.”
Il mio amico replicò:
“Sei sempre il solito che si fa l’oroscopo da solo!”
Allora mi alzai di scatto e guardando fuori dal finestrino esclamai ad alta voce:

“Guarda! Guarda quante pecorelle!”

Non ci crederete, ma mezza carrozza passeggeri si alzò in piedi contemporaneamente per guardare fuori sperando di vedere un gregge.
Il mio amico, ma anche tutti gli altri passeggeri, non vedendo niente, si stizzirono.
Con molta tranquillità esclamai:
“Nuvole, cari amici, nuvole a pecorelle!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il giocoliere di Notre Dame

Il giocoliere di Notre Dame

C’era un giocoliere, nativo di Compiègne, paesino nel nord-est della Francia, che tanti secoli fa girava le piazze dei paesi divertendo la gente con i suoi giochi di destrezza.
Un suo pezzo forte era quello di mettersi con la testa all’ingiù e, sostenendosi sulle mani, buttare in aria sei palle di rame e prenderle con i piedi.
Un altro numero rinomato era quello di arrotolarsi come una palla in modo che i suoi piedi toccassero la nuca e in quella posizione maneggiare dodici coltelli.
La gente sbarrava gli occhi per la meraviglia e volentieri sganciava qualche monetina.
Durante la buona stagione, la cosa funzionava discretamente e Barnabé, questo era il nome dell’uomo, viveva dignitosamente.
La situazione, invece, diventava molto difficile con l’arrivo dell’autunno e dell’inverno, quando,

a causa del freddo, non si poteva esibire.

Il nostro amico pativa la fame, ma lui era timorato di Dio e molto devoto della Vergine Maria, perciò non si lamentava, tantomeno imprecava o bestemmiava come invece facevano altri giocolieri.
Un giorno, nel suo vagabondare da un paese all’altro, incontrò un monaco, a cui aprì il cuore:
gli disse che il suo sarebbe stato il più bel mestiere del mondo, se non fosse stato per le ristrettezze e la fame che tante volte era costretto a sopportare.
Al che il suo compagno di strada ribatté che il più bello stato di vita era quello dei monaci, perché in convento essi potevano celebrare ogni giorno le lodi a Dio, alla Vergine ed ai Santi, sicché la loro vita era un continuo cantico al Signore.
Nella semplicità del suo cuore, Barnabé restò ammaliato dal racconto e chiese di entrare in convento.
Quando arrivò in convento, vide che tutti i monaci, secondo le loro doti e capacità,

servivano Dio e veneravano la Vergine:

alcuni scrivendo dei libri e degli inni, altri dipingendo o facendo delle miniature, altri ancora scolpendo o svolgendo i lavori più umili…
Barnabé, ignorante com’era, si rese conto di non saper fare nulla di tutto questo e si senti immediatamente molto triste ed umiliato.
Ad un certo punto, però, i suoi confratelli si accorsero che il suo umore era cambiato:
non era più triste e non si lamentava più.
Incuriositi ed insospettiti, lo pedinarono e, un giorno, lo scoprirono in cappella, dove davanti all’altare della Vergine stava eseguendo in suo onore i numeri che un tempo erano i più ammirati nelle piazze dei paesi:
quello con le sei palle di rame e quello con i dodici coltelli.

Che cosa gli era venuto in mente?

Di lodare la Vergine con le uniche cose che sapeva fare.
I monaci gridarono allo scandalo ed il priore, pur conoscendo la sua semplicità d’animo, lo considerò matto e tentò di trascinarlo a forza fuori dalla cappella, ma a quel punto successe qualcosa che fece rimanere tutti di stucco:
miracolosamente la Vergine scese dall’altare, si avvicinò a Barnabé e con il manto gli asciugò il sudore che gli rigava la fronte.

Favola medioevale.
Brano di Daniele Cunial

Per colpa di una bugia

Per colpa di una bugia

Un giorno un bambino giocava in casa con la palla.
Sua madre glielo aveva proibito, ma siccome era assente, egli disubbidì.

E così accadde quel che doveva accadere:

con il pallone ruppe il vaso preferito di sua madre.
Quando ella ritornò, il bambino le disse una bugia per evitare il castigo.
Le disse che era stato il fratellino, che, camminando a gattoni, lo aveva rotto.
La madre si irritò molto.

Raccolse i pezzi e cercò di ricomporre il vaso.

Era così arrabbiata che dimenticò di togliere l’arrosto da forno, e quello si bruciò.
Quando il padre arrivò a casa, non c’era niente da mangiare.
Dopo aver bisticciato con la moglie per quel motivo, seccato andò a pranzare al bar dell’angolo.
Adirato come era, trattò in malo modo il cameriere che divenne molto nervoso, e, senza volerlo, versò una tazza di caffè su una signora, macchiandole il vestito.
La signora salì in macchina arrabbiatissima e si diresse verso casa per cambiarsi, ma piangeva tanto che non vedeva bene la strada.

Così, senza accorgersene, tamponò un’auto ferma al semaforo.

L’autista uscì molto arrabbiato, e dopo aver discusso e presi i dati per l’assicurazione, si diresse molto infastidito al suo lavoro.
Era un maestro, e casualmente aveva tra gli scolari il fanciullo che aveva rotto il vaso.
Entrò in classe di pessimo umore, e gli parve di sentire qualcuno che disturbava.
Allora castigò il primo che gli capitò, ed era proprio il ragazzo che aveva provocato tutte queste contrarietà.
Senza prevederlo, il fanciullo, disubbidendo a sua madre e mentendole, aveva cominciato una catena di irritazioni e di discussioni.
E ora pagava le conseguenze di quello che aveva fatto.

Brano tratto dal libro “C’era una volta… al Catechismo.” di Josè Real Navarro

Un abbraccio tra madre e figlia

Un abbraccio tra madre e figlia

La ragazza era di pessimo umore.
Aveva tutte le sue spine fuori, proprio come un porcospino tormentato da un cane.
Troppi compiti a casa, troppe interrogazioni, troppo tutto… ecco!

La madre le ripeteva la solita predica,

con ragionamenti, spiegazioni e raccomandazioni.
La ragazza si fece ancora più scura.
Poi guardò la madre dritta negli occhi e scandì:
“Mamma, sono stanca e stufa delle tue prediche.

Perché invece non mi prendi tra le tue braccia e mi tieni stretta?

Nessun consiglio potrà mai farmi altrettanto bene!”
La madre rimase a bocca aperta.
Gli occhi della figlia imploravano un abbraccio.
Con la voce rotta dalla voglia di piangere, disse:

“Vuoi… vuoi che ti abbracci?

Ma lo sai che anch’io… anch’io voglio che tu mi abbracci?”
Accolse la figlia nelle braccia aperte e la strinse a sé, come fosse ancora una bimba.
E, quasi d’incanto, non ci furono più discussioni…

Brano senza Autore

Il Re che non sapeva ascoltare

Il Re che non sapeva ascoltare

C’era una volta un Re che non sapeva ascoltare.
Quando i suoi sudditi si rivolgevano a lui, li interrompeva non appena aprivano bocca e gridava: “Va bene, va bene, ho capito!
Ti credo!
Guardie, dategli mille monete d’oro!”
Oppure:
“Basta, basta, non ti credo!
Guardie, frustatelo e buttatelo fuori di qui!”
Insomma, il Re era un tipo lunatico e agiva secondo il suo umore.
Non voleva saperne di ascoltare, e quindi era buono e generoso con le persone sbagliate, e viceversa.

I sudditi lo sapevano bene, cercavano di girare alla larga dal castello e speravano ardentemente di non aver mai niente a che fare con il re.

Ma quelli che ci rimettevano più degli altri erano la sua povera moglie e i due principini, perché il re non solo non li ascoltava, ma giudicava stupido e senza senso tutto quello che loro dicevano.
Li criticava continuamente e non prestava mai attenzione alle loro parole, neppure quando gli parlava con la voce del cuore e dell’affetto.
Se, per esempio, la principessina Adelaide si avvicinava al regale papà per mostrargli il disegno fatto a scuola, dicendo timidamente:
“Papà, guarda questo…” il re la interrompeva con aria infastidita e borbottava:
“Va bene, va bene eccoti una moneta d’oro…”
Se il principino Roberto osava chiedere:
“Dove vanno quelli che muoiono?” il regale papà lo zittiva dicendo:

“Piantala con queste stupidaggini!”

Un giorno, il re e la regina litigarono furiosamente, e dal momento che la donna ribadiva le sue ragioni, il re la spinse giù dal trono.
Poi si mise a spiegare alla moglie che se le aveva fatto del male era per il suo bene, e che avrebbe dovuto ringraziarlo, per questo.
La regina, profondamente offesa e indignata, con le ossa rotte e doloranti, gli lanciò una terribile maledizione:
“Che te ne fai di due orecchi, dal momento che non ascolti mai nessuno?
Tu non fai che parlare: bla, bla bla e ancora bla!
Vorrei che ti cadessero le orecchie e che ti venissero due bocche!”
Il Mago Cavatorti, lontano parente della regina, si trovava per caso nelle vicinanze e sentì la maledizione della donna.
Conosceva il re, e sapeva di cosa era capace.
Così, impietosito dalla triste sorte della regina, esaudì il suo desiderio.

Il Mago si presentò al re e gli agitò sotto il naso la nodosa bacchetta di legno di nespolo.

Il re che non voleva mai ascoltare cadde in un sonno profondo, e quando si risvegliò si ritrovò con due bocche identiche, una accanto all’altra, e un orecchio minuscolo sulla fronte, vagamente simile a un cece.
Le altre due orecchie, invece, giacevano sul cuscino come foglie secche.
All’inizio, il re ringraziò il Mago per quel bellissimo regalo.
Adesso poteva parlare più velocemente e ad alta voce.
Ma ben presto si rese conto che non riusciva più a stare zitto.
Parlava, parlava sempre, senza un attimo di tregua.
E mentre beveva e mangiava con una bocca, con l’altra continuava a parlare.

Per i poveri sudditi le cose peggiorarono.

Se prima non ascoltava, adesso il re non faceva che straparlare e interrompere gli altri.
E la moglie che già non sopportava una bocca del marito, con la seconda non ce la faceva proprio più.
Inoltre, il re ora russava il doppio, e la notte non le faceva chiudere occhio.
Con il passare del tempo, il re cominciò ad ascoltare solo le sue due voci, ed amici e nemici presero ad evitarlo come la peste.
Insomma, era insopportabile.
Anche gli affari di stato peggiorarono.
Quando arrivavano gli ambasciatori dei regni vicini con i messaggi dei loro sovrani, il re non prestava la minima attenzione alle loro parole, anzi se quelli parlavano di “terra” capiva “guerra”, se dicevano “doni” pensava ai “cannoni.”
Così, poco alla volta, tutti lo abbandonarono.

Il re fu avvolto da una terribile solitudine e cominciò a rendersi conto dei suoi errori.

Decise che da allora in poi avrebbe tenuto sempre conto della dura lezione che il Mago gli aveva impartito.
Adesso teneva la bocca, anzi le due bocche chiuse, e con il suo piccolo orecchio si sforzava di ascoltare meglio di quando ne aveva due.
In cuor suo, anzi, sperava che il Mago tornasse con la sua bacchetta di nespolo per ridargli le sue due orecchie, che ora rimpiangeva con tutte le sue forze.
Passarono gli anni e la regina cominciò a provare una gran pena per il marito.
Persino i sudditi e i sovrani dei regni vicini avevano dimenticato l’astio che avevano sempre provato nei suoi confronti e si auguravano che venisse perdonato.
Ma trascorsero parecchi anni prima che il Mago Cavatorti si decidesse a tornare da lui.
“Riconosci i tuoi errori?” gli chiese, scuro in volto.

Il re annuì.

“E faresti qualsiasi cosa pur di avere due orecchi e una bocca?”
Il re era pronto a tutto.
Il Mago agitò la sua bacchetta al contrario e il re si ritrovò con una bocca sola e due splendidi orecchi nuovi.
Invece di ricominciare come prima, si fermò ad ascoltare il canto degli uccelli, la musica del vento, le voci dei bambini.
Era la prima volta e gli vennero le lacrime agli occhi per la commozione.
La regina, il principe Roberto e la principessa Adelaide lo abbracciarono e gli dissero:
“Ti vogliamo bene!”
Il re pensò che non aveva mai sentito niente di più bello in tutta la sua vita e che era stato proprio stupido a non accorgersene prima.

Brano di Bruno Ferrero

Il servo ed il padrone

Il servo ed il padrone

C’era una volta un servo che sopportava quotidianamente il carattere irascibile del suo padrone.
Un giorno, il signore tornò a casa di cattivo umore, si sedette per mangiare.

Trovò davanti a sé un piatto di minestra.

Ma la minestra era fredda!
Così si arrabbiò e gettò il piatto fuori dalla finestra.
Il servo, a sua volta, gettò fuori la carne, il pane, il vino e, infine, la tovaglia e l’argenteria.

Il signore, furioso, gridò:

“Che cosa stai facendo? Stupido!”
“Mi scusi, signore!” rispose seriamente il servo, “Pensavo che oggi volesse mangiare in cortile.

Tutto è così tranquillo e il cielo è sereno!”

Il signore si prese un istante per riflettere su quella risposta.
Riconobbe la sua colpa, si scusò e ringraziò il servo per la lezione che gli aveva appena dato.

Brano senza Autore, tratto dal Web