Il salame perfetto (La sopressa con il filetto)

Il salame perfetto
(La sopressa con il filetto)

Un contadino, chiamato da tutti Lenin per le sue simpatie rivoluzionarie e per essere un convinto repubblicano, amava festeggiare la ricorrenza del due giugno attorniato da amici.
Nel corso degli anni aveva inaugurato una “nuova” tradizione.

A tutti i partecipanti offriva la sopressa con dentro il filetto, un grande salame tipico del Veneto.

Per la macellazione famigliare del maiale si rivolgeva ad un suo amico norcino, chiamato Messico per i suoi baffi.
Messico alternava il lavoro a diverse bizzarrie, avvenute grazie alla complicità di Bacco.
Gli insaccati dell’anno precedente erano risultati mollicci e un po’ rancidi e, per questa ragione, l’amico Lenin si era lamentato, poiché aveva fatto una brutta figura con i propri amici.
Messico lo tranquillizzò e lo rassicurò, promettendogli che avrebbe superato sé stesso, realizzando una sopressa con il filetto che sarebbe stata ricordata a lungo, per il sapore e per la consistenza al taglio.

Il due giugno ci fu il rituale taglio della sopressa con il filetto, alla presenza degli amici festanti.

Tutti erano in attesa di gustare la nota specialità.
La prima fettina venne annusata ed assaggiata da Lenin che la trovò perfetta, avendo il giusto dosaggio di spezie.
Dopo aver tagliato un’altra fettina, mentre stava tagliando la terza (fettina), Lenin con il coltello trovò un inaspettato ostacolo.
Messico, in un attimo di confusione, aveva inserito nella sopressa la pietra per affilare i coltelli.

Tutti rimasero senza parole, stupiti ed increduli.

La sopressa con il doppio filetto di Messico sopravvisse al taglio, ma fu la causa della fine della sua carriera di norcino.
Però, per il suo grossolano errore, entrò di diritto nella leggenda popolare.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

I tre cugini e l’eredità

I tre cugini e l’eredità

Tre vignaioli avevano in comune, oltre che una lontana parentela, anche tre appezzamenti di terra pianeggiante pressoché uguali, per estensione e forma, frutto di un’eredità.
Facevano parte di un immenso terreno appartenente ad uno stesso avo, il quale aveva equamente diviso lo stesso ai rispettivi figli, tanti anni prima.

Zolle molto ambite nella fertile e vocata terra di produzione del mitico vino Prosecco.

Terra dalle molte ed ataviche tentazioni di possesso, con confini che si concordavano faticosamente di giorno e si spostavano di notte, come i nanetti da giardino, a seconda delle fasi lunari.
Due dei tre proprietari portavano avanti un contenzioso legale da molto tempo per la definizione dei rispettivi confini.

I geometri a cui si erano rivolti, usavano due diversi tipi di catasto (mappa e registro dei terreni).

Uno usava quello Napoleonico (1807-1816) e l’altro quello Austriaco (1807-1852), in auge in Veneto in quel periodo.
Un’alternanza dettata dalla convenienza, rimandando all’infinito il contenzioso, con la motivazione, non tanto segreta, che avevano figli da mantenere all’università con conseguenti laute parcelle da riscuotere.
Insistevano anche con il terzo, affinché partecipasse alla disputa per i confini, ma questo, essendo saggio, alla maniera di re Salomone, sentenziò:

“Se in origine le parti erano uguali,

per verificare i confini basta tirare un semplice spago di recupero e fare due nodi equidistanti per definire le tre parti, una stretta di mano per finirla per sempre e un brindisi conciliatore!”
Alcune volte, la vita, vuoi per ignoranza e/o per avarizia, è un cinema che costa caro!

Brano di Dino De Lucchi
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Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La leggenda del folletto Mazariol

La leggenda del folletto Mazariol

Quasi tutti i bambini hanno paura di qualcosa.
Io, vivendo in un clima famigliare rassicurante, di paure non ne ebbi molte.
Nella stalla della nostra famiglia, molto frequentata in quegli anni per i filò, arrivò un amico di mio padre, reduce della prima guerra mondiale.
Intratteneva tutti noi bambini con giochi e scherzi, ma soprattutto con racconti fantastici.
Una sera ci narrò del folletto Mazariol, personaggio appartenente alle favole del Veneto, famoso per gli eclatanti dispetti.
La sera successiva, in attesa dell’arrivo degli altri partecipanti al filò, mi mandò a comprare un sigaro nella vicina osteria.
Andai volentieri, sia perché dovevo percorrere poco meno di cento metri, sia perché l’oste spesso mi regalava una caramella.
Dopo pochi passi percepì uno strano fischio-fruscio, non ben definito, il quale aumentava quando acceleravo il passo, mentre smetteva quando mi fermavo.

Il buio non mi aiutava a capire.

Ricordando la storia raccontata la sera prima dall’amico di mio padre, pensai fosse il folletto Mazariol, che mi seguiva per punirmi delle mie marachelle.
Allorché mi spaventai tantissimo e tornai al filò ansimante e cadaverico, nonché con il cuore che batteva fortissimo.
Cercai di spiegare agli adulti quello che mi era successo, i quali capirono al volo la motivazione del mio spavento.
La causa del fischio-fruscio era dovuta, semplicemente, allo strofinamento dei pantaloni nuovi di velluto.
L’episodio lo descrissi più avanti in un tema a scuola.
La maestra, allora, ci spiegò che il folletto Mazariol, secondo la leggenda (che oggi si può trovare in Google), avesse perfino sconfitto Attila, il re barbaro degli Unni, ingannando la sua ferocia con i suoi scherzi da folletto, nella splendida cornice delle montagne della Val Belluna, tra fitti boschi e ampi prati.
Era vestito tutto di rosso, compreso il caratteristico copricapo e le scarpe a punta.
Si riparava nei “covoli”, così chiamati i “covi” (ricoveri) per ripararsi nella notte, e nelle grotte, cavità naturali formatesi da erosioni e fenomeni carsici.

Sono tante le narrazioni che lo riguardano.

Tra le più note, quelle che rivelano come si dedicasse alla pastorizia e di come fosse diventato un ottimo “casaro”, tanto da aver inventato la ricotta e il formaggio “Casatella Trevigiana”, omaggiando la terra pianeggiante che lo ospitava durante la transumanza, nei periodi più freddi dell’inverno.
Negli anni aveva trovato un posto bellissimo, di cui era l’unico privilegiato ospite, posto allo sbocco delle montagne.
Era un ampio “covolo”, formatosi come una grotta, lungo il fiume Piave.
Sulla roccia della sponda destra, aveva creato il suo laboratorio ed il suo magazzino, dove riponeva le sue casatelle di formaggio, realizzate con latte crudo.
In quel periodo la fame era tanta e dilagava la pellagra, malattia, questa, che portava allucinazioni e sonno.

Il folletto Mazariol, nonostante tutto era di buon cuore con gli sfortunati, ma terribile e dispettoso con i cattivi.

Infatti, appendeva sui rami degli alberi la casatella per sfamare i più sfortunati.
Però, quasi nessuno la conosceva e i più, credendo fosse un miraggio, vagavano oltre.
Oggi, grazie a lui, la “Casatella trevigiana” è un prodotto DOP (Denominazione di Origine Protetta) e approda nelle migliori tavole.
Il “covolo” abitato dal mitico folletto si presume dia il nome al bellissimo ed ospitale paese Covolo di Piave.
Solo alcune persone, però, conoscono la storia secondo la quale il folletto Mazariol amasse fare il bagno annuale e asciugare i panni sulla Grave di Ciano, dove le acque erano più tranquille.
Una volta fattosi bello raccoglieva i “Mammai” (la “Stipe Pennata” o “Lino delle Fate”) e faceva il romantico con le Fate del Montello, che proprio sulle Grave di Ciano amavano riunirsi per ballare e cantare, incantate dalla bellezza unica del posto.

Brano di Dino De Lucchi

Il rito della prosperità (Festa di San Giorgio)

Il rito della prosperità
(Festa di San Giorgio)

Il 23 aprile è il giorno della ricorrenza (della morte) di San Giorgio, protettore di tutti i cavalieri che hanno combattuto il male, il quale, in quasi tutte le storie e nelle leggende, veniva rappresentato dal drago.
Cavaliere viene chiamato in Veneto pure un bruco, il Bombyx Mori, conosciuto come baco da seta.
Proprio in questa data, le piccolissime uova del bruco venivano messe in incubazione sotto un caldo cuscino e, addirittura, venivano nascosti in gran segreto tra i seni procaci delle donne di casa, per accelerare la schiusa delle uova.

Mai nessun cavaliere fu così coccolato e viziato, nonostante fosse, per giunta, un insetto.

I bruchi rappresentavano la fonte del primo guadagno dell’anno, atteso dalle donne, soprattutto da quelle che si dovevano sposare, le quali erano in trepidante attesa della propria dote.
Molto spesso ciò avveniva attraverso la vendita dei preziosi bozzoli di seta.
Ricordo ancora oggi quando, un giorno, da ragazzo, andai a trovare un compagno di scuola e di giochi e non trovandolo subito in casa, iniziai a girovagare per le stanze, come facevo di solito.
Giunsi in un grande locale adibito all’allevamento del baco da seta.
L’allevamento era suddiviso in graticole e, nella stessa stanza, intravidi due donne di mezza età.
Non fui notato, quindi poté assistere ad un singolare rito ancestrale, risalente, molto probabilmente, ad una epoca precristiana e riferito all’antico culto della Dea Madre.
Le donne si erano alzate vistosamente le lunghe gonne fino al ventre, mostrando le bianche nudità, con in testa una corona, realizzata con le foglie e con i rami di gelso, e così “bardate” fecero tre giri intorno alle graticole, mormorando frasi a me incomprensibili.
Non rimasi però turbato dalla singolare scena!

Anzi, rimasi divertito!

Pur non riuscendo a capire lo scopo di quello “spettacolo”, non ebbi mai il coraggio di chiedere ai miei il significato di quello che avevo visto.
Infatti, nonostante anche a casa mia si allevasse il baco da seta, non rividi più la scena vista a casa del mio amico.
Continuai a coltivare i bachi da seta con passione finché, dopo essere rimasto l’unico e l’ultimo nel mio paese, fui costretto a smettere nel 1989, a causa dell’inquinamento ambientale portato da un insetticida irrorato a sproposito nei frutteti.
Il baco da seta, essendo una sentinella ecologica, non tollerava questo insetticida.
In quegli anni, su nostro invito, il parroco veniva a benedire l’allevamento e, in quel momento, veniva esposta per la cerimonia una immagine sacra della Madonna, come auspicio devozionale per la buona riuscita dell’allevamento.

Solo in età adulta, leggendo testi di antropologia religiosa,

ricordai il rito ancestrale a cui avevo assistito, non subito da me interpretato, essendo una prerogativa segreta delle donne, sopravvissuta nei secoli.
Penso di essere stato uno degli ultimi, casuali, spettatori che lo possono ancora raccontare.
Diverse volte ripensai alla scena che vidi, vissuta nel mio tranquillo e secolare borgo di Levada, e giunsi alla conclusione che nei muri e nei sassi dell’epoca sono celati, ancora oggi, segreti che a breve andranno persi per sempre, a causa del cambiamento urbanistico e culturale che il mio borgo e la nostra nazione hanno subito negli ultimi 70 anni.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La foto, che è stata gentilmente fornita dall’autore, lo vede impegnato in una delle varie attività agricole che, ormai, svolge da anni.

Tonto Zuccone, la fede

Tonto Zuccone, la fede
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Odore di santità

Al catechismo

Le scarpe miracolose

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“Odore di santità”

 

Dio non fece tutto il bene necessario per la terra, ma delegò le mamme a completare il lavoro.
La mamma di Tonto Zuccone riservava a suo figlio mille amorevoli attenzioni e raccomandazioni.
Lo istruiva, sapendolo svantaggiato dalla sorte e, dovendo assentarsi da casa per un breve periodo, lo affidò ai parenti.
Prima di partire, gli fece un amorevole predicozzo sulla pulizia personale da mantenere sempre e comunque, dicendogli che doveva lavarsi spesso e che, altrettanto spesso, doveva cambiarsi la biancheria.
Lo esortò vivamente a ricordare che l’unico odore ben accetto in un uomo era quello di santità.
Tonto durante l’assenza della madre si lavò per bene ma, invece di fare il cambio completo di biancheria, si rimise la maglia della salute al contrario.
Nello stesso momento fece un ragionamento, per lui logico e nel suo stile, dicendo fra se e se:
“Così ubbidisco alle raccomandazioni della mamma, rimettendo la maglia dal versante meno sudato e sporco ed allo stesso tempo conservo, così, un po’ dell’odore di santità che mi ha nominato.
Anche se non ho ben capito in cosa questo consiste.
Però deve essere una cosa molto importante se me lo ha detto lei!”

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“Al catechismo”

 

Tonto Zuccone fu mandato dai genitori a frequentare il catechismo in parrocchia.
Per le evidenti difficoltà di comprensione, questo avvenne molto più tardi rispetto ai suoi coetanei.
Il parroco, all’iscrizione, lo interrogò per capire il suo livello intellettivo e per capire l’interesse per la materia, chiedendogli:
“Ma tu, Tonto, hai fede?
E questa cosa ti dice?”
Tonto entusiasta ripose sicuro:
“A casa ne ho tre con un montone.
Mi dicono bee bee soprattutto quando hanno fame.”
(In alcune zone del Veneto le pecore vengono chiamate fedi)
Al parroco, sconsolato, non restò che replicare:
“Tonto, tu hai la fede dei semplici citati nel Vangelo e sta scritto che a loro saranno riservati i primi posti nel regno dei cieli, che precederanno noi teologi!”

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“Le scarpe miracolose”

 

Un giorno Tonto Zuccone andò al mercato per comprarsi un paio di scarpe.
Si soffermò davanti ad una bancherella che proponeva scarpe con lievi difetti a prezzi stacciati, tra le quali erano presenti anche scarpe con numeri diversi.
Allettato dal prezzo provò un paio di scarpe, una numero 43 ed una numero 42, che a fatica riuscì a calzare.
Il commerciante per convincerlo a comprarle, gli disse che erano scarpe miracolose che facevano zoppicare anche i sani.
Bastò la parola miracolo per convincere Tonto.
Ed alla fine l’affare fu fatto.

Brani di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione dei racconti a cura di Michele Bruno Salerno

L’ago perduto

L’ago perduto

In Veneto, fino alla fine degli anni 60, era usanza comune fare una veglia serale, chiamata filò.
Il filò era un vero e proprio rito comunitario, ed il nome, probabilmente, era derivato dal filare la lana o dal tenere il filo del discorso.
Una sera d’estate, la stalla in cui si svolgeva questo evento era particolarmente affollata.

Le ragazze erano affaccendate a ricamare corredi mentre le signore più anziane erano intente a rammendare capi di vestiario.

Gli uomini, invece, mentre confabulavano tra loro del più e del meno, riparavano piccoli attrezzi.
Durante la serata, una giovane di nome Teresa, notando l’arrivo del fidanzatino, si distrasse e non ritrovò più l’ago da ricamo, scatenando il panico tra i partecipanti.
Perdere l’ago, secondo la credenza popolare, portava sfortuna e perderlo in una stalla portava ancora più sfortuna, poiché una mucca avrebbe potuto ingoiarlo provocandone, con la perforazione, una peritonite con esito fatale.

Fu accesa un’altra lampada a petrolio e tutti iniziarono a cercare il benedetto ago.

Il vecchio padrone di casa si mise a imprecare contro Teresa come se fosse cascato il mondo, facendola vergognare.
In questo clima surreale, le donne presenti decisero di creare ancor più tensione, iniziando a recitare i sequeri (forma di preghiera popolare cristiana, che la tradizione consiglia per recuperare le cose perdute) in latino.
Giulia, la mia meravigliosa nonna, vista la situazione, interpretò i sequeri a modo suo e, facendo finta di raccoglierlo per terra, mostrò il suo ago ai presenti esclamando:

“Ecco l’ago perso!”

Questo fu sufficiente per far tornare l’armonia in quell’assemblea e, le ombre da molto mosse si chetarono, per far sì che nell’angolo più buio della stalla, i fidanzatini potessero darsi un bacio rubato.
Solo qualche istante dopo Teresa si accorse che il suo l’ago lo aveva avuto, da sempre, appuntato al petto.

Brano di Dino De Lucchi
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Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il cucchiaio

Il cucchiaio

Un noto scrittore, autore di best seller di fama internazionale, andò a mangiare in un caratteristico ristorante nel ridente asolano, dove venivano servite le specialità povere tipiche del Veneto, improvvisamente tornate di moda.
Alle pareti del ristorante erano appese le fotografie dei personaggi famosi che avevano visitato il locale, tra cui un premio Nobel e, conseguentemente, anche la sua foto sarebbe dovuta finire insieme alle altre.
Lo scrittore era molto proficuo nello scrivere, ma avaro di parole e, quando fu il momento della comanda, quando gli chiesero cosa desiderasse, rispose semplicemente:

“La specialità della casa.”

Il titolare, desiderando fare bella figura con l’illustre intellettuale, riservò per lui un cameriere, quello con la maggiore esperienza, nonché sommelier.
Gli venne servita un’invitante “Soppa Coada”, detta anche “zuppa Covata”, che altro non è che un piatto povero, fatto di avanzi di pane raffermo, verdure, brodo caldo e piccione.
Lo scrittore guardò benevolo il caratteristico piatto, ma dopo un attimo di riflessione scuotendo la testa disse:

“Questo non la posso mangiare.”

Il cameriere sottrasse subito il piatto pensando fosse vegetariano e di gran corsa lo sostituì con un fumante minestrone di fagioli.
Accolse il piatto con un largo sorriso accennando un applauso, ma ripeté:
“Anche questo non lo posso mangiare.”

Il cameriere, affranto e tutto rosso in viso, chiese:

“Perché?”
La risposta dell’intellettuale fu:
“Perché non mi avete portato il cucchiaio.”

Brano di Dino De Lucchi
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Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La leggenda dei “gattini” dei salici

La leggenda dei “gattini” dei salici

Un’antica leggenda, tramandata di generazione in generazione, la cui origine si perde nella notte dei tempi, vede diversi popoli attribuirsene la paternità, vantandosi del proprio luogo natio come teatro dello svolgimento.
Mamma gatta era disperata perché i suoi gattini erano stati gettati da un padrone malvagio nel fiume per sbarazzarsene.

Il padrone aveva dimenticato, però, che i gatti hanno sette vite.

La gattina non aveva dimenticato la sua discendenza dalle antiche divinità Egizie dei gatti sacri, chiamati Mau, e supplicò i salici affacciati sulle sponde del fiume affinché li salvassero.
Li avrebbe ricompensati, grazie ai suoi poteri, con un grande e perpetuo riconoscimento.
I salici allora tesero i rami sul fiume fino a lambire la corrente e cosi i gattini poterono aggrapparsi e salvarsi.

Da quel giorno, i salici non fiorirono più,

ma ancora oggi, durante la primavera, si ricoprono di morbide infiorescenze bianche come il manto dei gattini salvati.
Anche i rami rimasero, da allora, protesi verso acqua.
Tale infiorescenza ancor oggi viene chiamata “gattini.”

In dialetto veneto questa parola diventa “gattici.”

Mi piace pensare che l’origine di tale leggenda sia veneta, e che il mio pensiero non sia del tutto fuori luogo, anche perché lungo i corsi d’acqua della regione, questi alberi dove non nascono spontaneamente, vengono piantati a ricordo di ciò.
Il paesaggio veneto, da questi alberi, ne trae grande beneficio.
I salici, nel corso dei secoli, vennero decantati da diversi poeti e raffigurati da pittori di ogni epoca.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La democrazia e le regole da rispettare

La democrazia e le regole da rispettare

Il Veneto è stato interessato interamente dalla nube radioattiva fuggita dalla centrale nucleare di Chernobyl (Cernobil).
A distanza di anni non è stato fatto ancora un bilancio definitivo della portata e delle conseguenze di tale calamità.
Alcune fonti, ovviamente non confermate, affermano che, in regione, siano presenti minime quantità di sostanze radioattive nei funghi dei nostri boschi.

Ricordo quei giorni di emergenza,

la gente era molto preoccupata ed allarmata, poiché non si poteva stare all’aperto e non si potevano consumare ortaggi a foglia, fragole ed asparagi, prodotti abbondanti in quel momento.
Il divieto era assoluto, soprattutto per i giovani, dato che le conseguenze sarebbero potute perdurare ed emergere negli anni.
Mia nonna, incurante dei divieti e delle nostre perplessità, fece grandi scorpacciate di asparagi e fragole, di cui era ghiotta, usufruendo dei prodotti del nostro orto e dei prodotti degli orti dei vicini, che come noi ne rifiutavano il consumo, convinta a suo dire che, essendo anziana, non correva nessun pericolo.

Il Coronavirus,

che tanto danno e dolore ha causato e sta causando in Italia e nel Mondo, ha invertito la situazione dell’epoca ed ora sono gli anziani a correre i maggiori pericoli, registrando, purtroppo, tanti, troppi, decessi.
Sembra quasi che la natura si stia ribellando perché maltrattata, causando diverse calamità.
Infatti oggi gli uomini non riescono a controllare la loro tecnologia e la loro iper produzione, inquinando sempre di più, colpendo così le fasce deboli della società.

Mia nonna, in quel frangente, non fu responsabile,

dato che avrebbe dovuto dare l’esempio in quanto anziana, astenendosi dal consumare questi prodotti.
Alcuni giovani, altrettanto irresponsabilmente, all’inizio del contagio da Coronavirus, sfidando divieti di assembramento, continuavano ad uscire e a mantenere le loro abitudini, dato che, con il virus, a rischiare non erano loro.
Un grande plauso va fatto, invece, a chi di loro è rimasto chiuso in casa fin da subito, come da ordinanza, cantando e suonando inni di speranza dai balconi.
La democrazia è regola comune sempre; soprattutto nelle emergenze.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Neve perenne

Neve perenne

La famiglia di Salvatore, di origine campana, si trasferì nell’alto Veneto, per lavoro, negli anni sessanta.
Poco tempo dopo, Salvatore venne arruolato nel corpo degli alpini.
Differentemente dai suoi colleghi, non aveva mai trascorso molto tempo sulle cime delle alpi, ma avendo dei requisiti da atleta e campione di tiro con la carabina sportiva, disciplina molto richiesta in questo corpo, questo problema venne ignorato.

Da ragazzo di mare si trovò in una situazione imbarazzante.

I suoi colleghi, essendo nati su quei monti, erano quasi tutti montanari e non temevano certo le difficoltà come il freddo e valanghe.
Lui invece ne risentiva parecchio.
Un maresciallo, uomo buono e ottimo sottufficiale, che casualmente aveva il suo stesso cognome, lo prese in simpatia vedendolo pieno di buona volontà, lo aiutò e gli insegnò i nomi delle cime dei monti e la terminologia delle montagne, usando gerghi che Salvatore in alcuni momenti non capiva.
Fortunatamente però, scherzavano sempre, soprattutto sui rispettivi dialetti.
Accampati per alcune manovre ai piedi della Marmolada, il maresciallo indicando la montagna di fronte, che avrebbero dovuto scalare, gli disse:
“Salvatò! La a quella quota la montagna si fa più dura perché incomincia la neve perenne.”

Il ragazzo rispose:

“Marescià, che bello avere qualcosa in comune.
Pure a Napoli la neve incomincia con la enne.”
La battuta spiritosa circolò e divenne nota in tutto il reggimento.

Salvatore fu chiamato da allora alpino Enne,

soprannome che portò sempre con se con orgoglio.
Anche quando terminò il servizio negli alpini, da civile, mantenne questo soprannome.
Perfino quando aprì un laboratorio artigianale di successo, usò questo soprannome come marchiò della sua impresa.

Brano di Dino De Lucchi
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Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno