L’industriale, il manager e l’operaio

L’industriale, il manager e l’operaio

In una piccola città c’era un industriale.
Era un uomo potente, con gli occhiali d’oro, la borsa di cuoio, la voce tonante e una grossa automobile con l’autista in divisa blu.
Quando l’industriale usciva dalla sua palazzina dirigenziale, il manager che dirigeva la sua fabbrica si toglieva il cappello, faceva un profondo inchino e porgeva deliziosi saluti anche alla signora.
Il manager aveva lo sguardo d’acciaio e modi bruschi, usava parole inglesi ed era sempre indaffarato.
Aveva, inoltre, una grossa automobile rossa e quando usciva dall’ufficio, l’operaio si toglieva il cappello, faceva un inchino e porgeva deferenti saluti.

L’operaio viaggiava su una Panda, aveva le spalle un po’ curve e il sorriso triste.

Quando usciva dalla fabbrica nessuno lo salutava.
Solo un cane giallo, con la testa ciondoloni, una sera lo seguì e da quel momento non lo lasciò più.
Quando l’industriale era di cattivo umore strapazzava il manager, lo chiamava “incapace” e “inefficiente”, scaricava sulle sue spalle tutti i guai dell’azienda e faceva svolazzare fogli di carta battendo grandi manate sulla scrivania di mogano.
Quando il manager era di cattivo umore chiamava l’operaio e gli sbraitava “pelandrone” e “scansafatiche”, lo minacciava di licenziamento, mostrandogli i pugni, e gli attribuiva tutte le colpe per le difficoltà dell’azienda.
Quando l’operaio era di cattivo umore se la prendeva con il cane e lo chiamava “bastardo”.

Il cane non se la prendeva, perché era la verità.

I figli dell’industriale frequentavano la migliore scuola privata della regione, arrivavano a scuola con il macchinone e avevano il tutor che li aiutava a studiare e a fare i compiti.
I figli del manager frequentavano una scuola del centro, arrivavano a scuola con il fuoristrada della mamma e avevano lezioni private di inglese e informatica.
I figli dell’operaio andavano a scuola in tram (quando pioveva) e facevano i compiti da soli perché la mamma aveva tanto da fare e l’operaio non sapeva le risposte.
L’industriale abitava in una grossa villa con giardino e aveva tre persone di servizio.
Il manager abitava in una graziosa villetta e aveva la colf filippina.
L’operario abitava al settimo piano di un condominio rumoroso.
Il cane si nascondeva dietro i cassonetti dell’immondizia.
L’industriale non voleva che i suoi figli giocassero con i figli del manager e dell’operaio e li mandava in un costoso centro sportivo.
Il manager non voleva che i figli giocassero con i figli dell’operaio e regalava loro sempre nuove playstation.
I figli dell’operaio giocavano con il cane.
Tutti i bambini erano infelici perché, insieme, avrebbero potuto giocare a calcio nel campo dell’oratorio.

Anche i grandi erano infelici.

L’operaio aveva paura del manager, il manager aveva paura dell’industriale, l’industriale aveva paura di morire.
Il cane aveva paura di tutti.
Poi arrivò Natale.
Nella parrocchia dell’industriale, del manager e dell’operaio si faceva ogni anno una “sacra rappresentazione” del mistero della nascita di Gesù e i personaggi erano presi tra la gente.
Essere scelto per la recita natalizia era un motivo di gran prestigio e tutti lo volevano fare.
Così i personaggi venivano tirati a sorte.
L’industriale, il manager e l’operaio furono sorteggiati per personificare i tre Re Magi.
L’industriale si fece fare un prezioso costume dal sarto, il manager noleggiò un magnifico costume da sultano e l’operaio si avvolse nel copriletto della nonna e si dipinse la faccia di nero.
Il cane fu dipinto di bianco per fare la pecorella.
Venne la sera della rappresentazione.
Tutto si svolse in modo meraviglioso.

Alla fine avanzarono solennemente i tre Magi.

Dovevano posare i doni sulla culla del bambino e andarsene.
Si avvicinarono e tesero contemporaneamente le mani verso il bambino, che secondo il copione avrebbe dovuto dormire.
Ma il cane-pecorella abbaiò e il bambino si svegliò.
Gorgogliando felice, spalancò gli occhioni e afferrò con le braccine paffute le sei mani protese verso di lui.
I tre Magi, imbarazzati, tentarono di liberare le mani, ma il bambino scoppiò a piangere e furono costretti a prendere in braccio il bambino tutti e tre insieme, finché non arrivò la mamma del piccolo con il biberon.
I tre Magi scesero dal palco turbati.
Avevano tutti e tre dentro un pensiero del tipo:
“Il bambino è venuto dal cielo per tutti.
Per l’industriale, per il manager e per l’operaio.
E per tutti morirà sulla croce…”
Così, nelle vacanze di Natale, tutti videro i figli dell’industriale, del manager e dell’operaio giocare felici ed insieme sul prato dell’oratorio.
Il cane giocava in porta.

Brano tratto dal libro “Storie di Natale, d’Avvento e d’Epifania.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

La forchetta mancante

La forchetta mancante

Ad una nobildonna veneta venne svaligiata, durante una assenza, la villa di campagna, nonostante vari e costosissimi sistemi d’allarme.
I professionisti di questo fastidioso crimine avevano sottratto vari oggetti di valore, tra cui un servizio di posate d’argento con incise le iniziali della casata che, negli anni, si era distinta in fatto di armi e, in seguito, per aver organizzato cenacoli per letterati e artisti di acclamata fama, tra cui il gaudente e avventuroso Giovanni Casanova.

Le posate in questione avevano, per la contessa,

un valore inestimabile poiché erano state usate in numerosi pranzi e cene da favola, composte da numerose portate, con il bel mondo di cui amava, anche in quel momento, circondarsi al desco.
Una sua vecchia e sagace domestica le aveva suggerito di nascondere in un altro posto una forchetta del prezioso servizio e che, solo un giorno, avrebbe capito il perché del suo singolare stratagemma.

Dopo la denuncia di prassi alle forze dell’ordine,

la derubata lasciò passare un breve periodo dopodiché iniziò ad andare nei mercatini di antiquariato sperando di recuperarle.
In una bancarella le fu facile individuare il suo servizio d’argento esposto in vendita ad un prezzo ribassato per la mancanza di una forchetta dal servizio da dodici.
All’incauto antiquario la contessa mostrò la forchetta mancante che si era portata appresso nella borsetta, intimandogli:

“Ti consiglio di ridarmi il mal sottratto,

se non vuoi essere denunciato per ricettazione, avendo con me la prova del furto!”
Saggio e lungimirante fu il consiglio della domestica per tornare in possesso con facilità del prezioso servizio e la forchetta nascosta si mostrò essere, come il coperchio mancante della pentola del diavolo, determinante per smascherare i progetti criminosi.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La donna che profumava di pane

La donna che profumava di pane

In un lontano paese, una povera vedova si manteneva prestando servizio ad una ricca e misteriosa signora che viveva solitaria in una villa dall’aspetto lugubre, seminascosta nel cuore di un bosco.
La buona vedova compiva il suo lavoro con generosità e precisione, e un giorno inaspettatamente la signora le fece un regalo:

un anello straordinario.

“Ruotando due volte questo anello intorno al dito, ti potrai trasformare in tutto ciò che vorrai!” le spiegò la strana signora.
La vedova non ci fece un gran caso, ma quando una terribile carestia si abbatté sulla regione, si ricordò dell’anello.
Lo girò due volte attorno al dito e si trasformò in un magnifico falco dalle ali affilate.
Aveva deciso di volare fino a trovare una terra che potesse fornire sostentamento al figlio e ai suoi vicini.
Volò fino ad esaurire le forze, poi tornò mestamente nella sua casa.
La carestia aveva colpito tutte le terre del regno.
Non c’era scampo per nessuno.

Ma la donna non si rassegnò.

Ruotò l’anello due volte e si trasformò in un’enorme e fragrante forma di pane.
Quando suo figlio tornò a casa e vide quella enorme pagnotta, cominciò a mangiare di gusto.
Era solo pane, ma saziava in modo mirabile.
Mentre masticava con voluttà, il figlio della vedova vide passare un vicino di casa con cui aveva avuto molti dissapori e che gli ispirava una fortissima antipatia.
Era deciso ad ignorarlo, ma una scossa al cuore lo costrinse ad invitarlo a condividere quel pane miracoloso.
La voce si sparse e da tutto il villaggio la gente accorse:
grandi e piccoli, giovani e vecchi, poveri, ammalati e sani, disperati e inquieti.
Quel pane sembrava non finire mai.
Inoltre, non si limitava a togliere la fame, ma infondeva serenità e voglia di pace, senso di bontà e salute per il corpo.
Quelli che erano nemici si riconciliavano e quelli che prima si ignoravano si sorridevano cordialmente.
Ogni notte, l’ultima briciola di pane si trasformava di nuovo nella vedova generosa.
Ogni mattino, la donna ridiventava una gigantesca pagnotta profumata e deliziosa, che nutriva il corpo e lo spirito della gente del villaggio.

Così fu fino al nuovo raccolto.

Quel giorno fu organizzata una grande festa.
Naturalmente partecipò anche la vedova.
Tutti quelli che si avvicinavano a lei provavano una strana sensazione:
la donna profumava di pane appena sfornato.

Brano tratto dal libro “I fiori semplicemente fioriscono.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il sogno di Rodolfo

Il sogno di Rodolfo

Anticamente, quando i genitori volevano inculcare nei figli l’idea che l’uomo, fin dall’infanzia, deve battere le vie della santità, senza lasciare le questioni della religione per la vecchiaia, erano soliti raccontare loro delle storie, come questa.
Il giovane Rodolfo, uomo forte e sano, di bell’aspetto, non immaginava che sarebbe un giorno morto o, per lo meno, pensava questo gli sarebbe accaduto dopo molti e molti anni.
In un freddo pomeriggio di ottobre del 1321, egli si inoltrò in una folta foresta, durante una passeggiata.
Ormai all’imbrunire, avvistò tra gli alberi qualcosa che gli sembrava una parete.
Stanco, si avvicinò e vide che era un’antica cappella abbandonata.
Entrò.

Tutto era in rovina:

vetrate rotte, banchi capovolti, polvere accumulata, pipistrelli, ecc.
Per lo meno, pensò, ci sono le pareti ed un tetto, è meglio che niente.
Unendo alcuni banchi, improvvisò dunque un letto e, esausto com’era, si addormentò in un baleno.
A notte fonda fu svegliato da un suono di campane.
Estremamente sorpreso, si sfregò bene gli occhi, non riuscendo a credere a quello che vedeva:
la piccola cappella era illuminata e piena di fedeli.
Sull’altare, un sacerdote stava celebrando la Messa.
Vicino al presbiterio, c’era una bara.
Era dunque una Messa funebre, concluse.
“Mi scusi, signora, ma in memoria di chi è celebrata questa Messa?” chiese.
“Allora non sa chi è morto?
È uno che si è perso in questa foresta, mentre faceva una passeggiata ed è stato trovato morto oggi…

Rodolfo ebbe un sussulto.

Con uno strano presentimento, volle sapere chi fosse quel giovane.
Si avvicinò alla bara, sollevò il velo che copriva il volto del defunto e… sentì un terribile brivido lungo la schiena.
Il morto era lui!
Era ormai invecchiato, certamente, ma non c’era alcun dubbio che era proprio lui quello che si trovava nella bara.
Lanciò un grido di spavento e… si svegliò.
Comprese allora che quel terribile sogno era un avvertimento del cielo: egli sarebbe morto esattamente di lì a 50 anni.
Uscì dalla chiesa e ritornò nella bella casa della sua agiata famiglia, dove era in corso una magnifica festa.
In mezzo all’allegria e ai divertimenti, pensò:
“50 anni è molto tempo.
Vuoi sapere una cosa?

Farò una ripartizione intelligente:

nei primi 25 anni, mi godrò la vita e nei 25 seguenti mi preparerò seriamente alla morte.
Trascorse così 25 anni in divertimenti, viaggi, feste, gite e continua allegria.
Ma… passarono molto rapidamente!
Allora, il Conte decise:
“Guarda, guarda, 25 anni è troppo tempo per prepararsi alla morte, così, i prossimi 15 anni saranno un prolungamento dei 25 anni che sono già passati.
Quando ne mancheranno solo 10, allora sì, mi preparerò seriamente!”
E così accadde… furono altri 15 anni di piaceri, che trascorsero più rapidamente dei 25 anni precedenti.
Ad ogni scadenza, il Conte faceva una nuova “ripartizione intelligente” del tempo restante, giungendo in questo modo, al suo ultimo mese di vita.
Un mese soltanto!
Era, dunque, necessario congedarsi da parenti e amici.
Mandò una lettera a tutti gli amici, invitandoli ad una grande festa.
Dopo 25 giorni, erano tutti riuniti nella sua villa.
Furono tre giorni d’intensa commemorazione.

Gli restavano ora soltanto due giorni!

“Non posso lasciar partire i miei ospiti senza un banchetto di commiato!” pensò il Conte fissando un monumentale pranzo per il 25 ottobre, suo ultimo giorno di vita!
Dopo la festicciola, sentì la necessità di riposare un poco, per poter allora fare una buona confessione.
Mentre era a letto, sentì le prime avvisaglie della morte imminente, chiamò un domestico e, con voce da oltre tomba, lo mandò a chiamare in gran fretta un prete.
Il fedele servitore corse al villaggio vicino, alla ricerca del Parroco.
Nel frattempo Rodolfo, che aveva sprecato i 50 anni di tempo che aveva per prepararsi, cominciò a vedere figure che si muovevano intorno al suo letto, come fossero in attesa del momento di condurlo all’aldilà.
Ansimante, osservava l’ampollina del tempo che stava ormai esaurendosi.
Mancavano appena cinque minuti alla mezzanotte, ed egli udì il rumore del carro che si approssimava, con il prete.

Troppo tardi!

Prima che entrasse il sacerdote, scoccò il primo rintocco delle campane, che annunciavano il nuovo giorno!
Disperato, Rodolfo emise un terribile urlo e… si svegliò veramente.
Con grande sollievo, si rese conto di trovarsi davanti al crocifisso arrugginito della cappella in rovina nel mezzo della foresta, dov’era entrato a riposare poche ore prima.
Non si era trattato che di un sogno.
Ma non di un semplice sogno, no!
Perché il giovane Rodolfo prese sul serio il misericordioso avvertimento.
Da quel momento in poi, seguì con determinazione il cammino della virtù.
Facendo un esame di coscienza quotidiano e la confessione frequente, si mantenne sempre preparato per l’ultimo e più importante giorno della sua vita:
quello del suo incontro con Dio.

Brano senza Autore.

Il topo ubriaco

Il topo ubriaco

Un topo domestico, nobile, gentile e di bell’aspetto, durante una delle sue disperate corse per sfuggire al gatto, si trovò un bel giorno nella cantina di una ricca villa.
Là, a causa del buio, finì dentro una strana pozzanghera.

Era una pozzanghera di ottimo brandy,

sfuggito dallo spinotto difettoso di una botticella di pregiato rovere.
Il buon topo dapprima diede qualche timida leccatina a quel liquido curioso.

Il sapore gli piacque.

Aveva un gusto forte e deciso, scendeva in gola come fuoco.
Quando ebbe “bevuto” la pozzanghera, il topo si raddrizzò, picchiò i pugni sul petto, fece la faccia feroce e gridò:
“Dov’è il gatto?”

Brano tratto dal libro “Il canto del grillo.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Un posto a sedere

Un posto a sedere

C’era una volta un uomo che acquistò una casa e impegnò tutto il suo tempo e le sue energie per farla diventare una reggia.
Si alzava al mattino presto e subito a lavoro per realizzare la sua reggia.
Passarono gli anni, la casa cambiò d’aspetto, ma questo non gli bastava, la voleva ancora più bella, così continuò con modifiche e ritocchi, tanto che la gente del suo paese diceva:

“Ma come è cambiata questa casa!” e questo rallegrava il proprietario.

Questo signore aveva a cuore solo il suo progetto tanto che i compaesani bussarono alla sua casa per dirgli:
“Il parroco vorrebbe vederti domenica in parrocchia.”
Ma lui non volle smuoversi dalla sua casa:
“Ho da fare, devo finire qui, non mi scocciate!”
Altre persone gli fecero lo stesso annuncio ed ebbero la stessa risposta.
Un giorno andò anche il parroco del paese a parlargli ed ebbe la stessa risposta.

L’uomo terminò la sua villa e un giorno anche la morte bussò alla sua porta:

“Stavolta devi venire per forza!”
E comparve alla presenza dell’Altissimo però non trovò posto dove sedersi e si domandò:
“Mi scusi, non trovo un posto per sedermi.”
E il Signore rispose:
“Ti ho mandato tante persone per farti venire ad occupare il tuo posto e tu non sei mai venuto.
Ora se vuoi sederti devi usare per forza questa.”

E gli mostrò la prima pietra che usò per erigere la sua villa.

Era una pietra piccola e scomoda e non dava possibilità di sedersi bene.
L’uomo si lamentava e chiese se si poteva avere un’altra sedia.
Il Signore gli disse:
“Questa è la sedia che ti sei portato, hai fatto tutto tu, io non c’entro nulla!”

Brano di Stefano Molisso

Vivere, non sopravvivere. Uccidete quella mucca.

Vivere, non sopravvivere.
Uccidete quella mucca.

Un monaco durante il suo pellegrinaggio venne ospitato da una famiglia di contadini.
Gli offrirono un pezzo di formaggio e un po’ di latte, ma rimase in forte imbarazzo nel vedere che queste brave persone erano davvero poverissime.
Il monaco chiese come facessero a tirare avanti in quella capanna isolata e senza risorse di alcun genere.
La moglie del contadino rispose che, grazie ad una mucca che mungono ogni mattina, vendevano il latte alle famiglie che abitavano nelle vicinanze e sopravvivevano risparmiando i pochi soldi ricavati dalla vendita e mangiando un po’ di formaggio preparato con il siero.

La mattina dopo il monaco disse al contadino e sua moglie:

“Ho pensato tutta la notte a cosa posso fare per voi e… vi dico di uccidere la vostra mucca subito!”
Il contadino e la moglie sorpresi dalle parole del monaco si disperarono e si misero a piangere.
Erano molto affezionati all’animale, ma sapevano in cuor loro che il monaco aveva ragione e, pur con la morte nel cuore, condussero la mucca al precipizio dietro la casa e la buttarono giù uccidendola,

mentre il monaco riprese il suo viaggio.

Dopo due anni il monaco tornò a far visita alla famiglia di contadini e quello che vide una situazione completamente diversa:
al posto di una fattoria diroccata c’era una bellissima villa con giardino, allevamenti di animali, frutteti, orti e un bellissimo lago dove nuotavano pesci di ogni genere.
Quando il capofamiglia vide il monaco lo abbracciò in lacrime ringraziandolo del suo consiglio che gli aveva cambiato la vita!
Venne accolto dai padroni di casa e gli fu offerto ogni ben di Dio.
Sorpreso e felice che questi contadini avessero stravolto fino a quel punto il loro tenore di vita chiese di raccontargli come avessero fatto.

Da quando non c’era più la mucca,

ogni mattina, si alzavano con la forte motivazione di doversi trovare un modo per guadagnarsi da vivere, e questo gli permise di conoscere gente nuova e affrontare situazioni che furono il motivo della loro fortuna.
Il capofamiglia non si era infatti mai reso conto che la mucca non gli permetteva di vivere ma solo di sopravvivere

Storia Zen
Brano senza Autore, tratto dal Web

Le cose non sono sempre quelle che sembrano


Le cose non sono sempre quelle che sembrano

Due angeli viaggiatori si fermarono per passare la notte nella casa di una famiglia ricca.
Era una famiglia di persone molto avare che si rifiutarono di far dormire i due angeli nella camera degli ospiti.
Infatti concessero loro solo un piccolo spazio fuori, sul duro e freddo pavimento del pergolato davanti alla casa.
Mentre gli angeli si preparavano come potevano un giaciglio per terra, il più vecchio dei due vide un buco nel muro e lo riparò.
Quando l’angelo più giovane gliene chiese il motivo lui rispose soltanto:

“Le cose non sono sempre quelle che sembrano!”

La notte dopo la coppia di angeli cercò riparo nella casa di una famiglia molto povera ma molto ospitale dove furono accolti da un contadino e da sua moglie.
Dopo aver diviso con gli angeli il seppur scarso cibo che avevano, i contadini insistettero per cedere agli angeli i loro letti, dove finalmente gli angeli viaggiatori poterono riposare comodamente.
La mattina dopo quando il sole sorse, gli angeli trovarono l’uomo e sua moglie in lacrime.
La loro unica mucca, la loro unica fonte di sostentamento, giaceva morta nel campo.
Il giovane angelo si infuriò e chiese al più vecchio come avesse potuto lasciar accadere una cosa del genere.

“Al primo uomo, che pure aveva tutto, hai fatto un favore!” lo accusò.

“Questa famiglia benché avesse pochissimo è stata pronta a dividere tutto con noi, e tu hai lasciato che la loro mucca morisse!”
“Le cose non sono sempre quelle che sembrano!” replicò l’angelo più anziano.
“Quando eravamo nel cortile della villa, ho notato che c’era dell’oro nascosto nel muro e che si sarebbe potuto scoprirlo grazie a quel piccolo buco, in modo tale che avrebbero avuto modo di trovare anche quella ricchezza.
La notte scorsa, poi, mentre dormivamo nel letto del contadino, venne l’angelo della morte per portarsi via sua moglie.

Ed io invece di lei gli ho dato la mucca!”

Le cose non sono sempre quelle che sembrano.
Qualche volta questo è precisamente quello che succede quando le cose sembrano non andare come dovrebbero.

Brano senza Autore, tratto dal Web

I giorni perduti



I giorni perduti

Qualche giorno dopo aver preso possesso della sontuosa villa, Ernest Kazirra, rincasando, avvistò da lontano un uomo che con una cassa sulle spalle usciva da una porticina secondaria del muro di cinta, e caricava la cassa su di un camion.
Non fece in tempo a raggiungerlo prima che fosse partito.
Allora lo inseguì in auto.
Lo sconosciuto scaricò la cassa dal camion e, fatti pochi passi, la scaraventò nel baratro, che era ingombro di migliaia e migliaia di altre casse uguali.
Kazirra si avvicinò all’uomo e gli chiese:
“Ti ho visto portare fuori quella cassa dal mio parco.

Cosa c’era dentro?

E cosa sono tutte queste casse?”
Quello lo guardò e sorrise:
“Ne ho ancora tante sul camion, da buttare.
Non sai?
Sono i tuoi giorni perduti.
Li aspettavi vero?
Sono venuti.
Che ne hai fatto?
Guardali, infatti, ancora gonfi.

E adesso…”

Kazirra guardò.
Formavano un gruppo immenso.
Scese giù per la scarpata e ne aprì uno.
C’era dentro una strada d’autunno, e in fondo Graziella, la sua fidanzata che se ne andava per sempre.
E lui neppure la chiamava.
Ne aprì un secondo.
C’era una camera d’ospedale, e sul letto suo fratello Giosuè che stava male e lo aspettava.
Ma lui era in giro per affari.
Si sentì prendere da una certa cosa qui, alla bocca dello stomaco.

Boccheggiò.

Lo scaricatore stava diritto sul ciglio del vallone, immobile come un giustiziere.
“Signore,” gridò Kazirra, “mi ascolti.
Lasci che mi porti via almeno questi due giorni.
La supplico.
Io sono ricco.
Le darò tutto quello che vuole!”
Lo scaricatore fece un gesto con la destra, come per dire che era troppo tardi.
Poi svanì nell’aria.
E l’ombra della notte scendeva.

Brano tratto dal libro “Centottanta racconti.” di Dino Buzzati

La corruzione


La corruzione

Un capomastro lavorava da molti anni alle dipendenze di una grossa società edile.
Un giorno ricevette l’ordine di costruire una villa esemplare secondo un progetto a suo piacere.

Poteva costruirla nel posto che più gradiva e non badare alle spese.

I lavori cominciarono ben presto.
Ma, approfittando di questa cieca fiducia,

il capomastro pensò di usare materiali scadenti,

di assumere operai poco competenti a stipendio più basso, e di intascare così la somma risparmiata.
Quando la villa fu terminata, durante una festicciola, il capomastro consegnò al Presidente della società la chiave d’entrata.

Il Presidente gliela restituì sorridendo e disse, stringendogli la mano:

“Questa villa è il nostro regalo per lei in segno di stima e di riconoscenza.”

Questi tuoi giorni sono i mattoni della tua casa futura.

Brano tratto dal libro “C’è qualcuno lassù.” di Bruno Ferrero