La sedia vuota


La sedia vuota

Un uomo anziano si era ammalato gravemente.
Il suo parroco andò a visitarlo a casa.
Appena entrò nella stanza del malato, il parroco notò una sedia vuota, sistemata in una strana posizione accanto al letto su cui riposava l’anziano e gli domandò a cosa gli servisse.

L’uomo gli rispose, sorridendo debolmente:

“Immagino che ci sia Gesù seduto su quella sedia, e prima che lei arrivasse gli stavo parlando.
Per anni avevo trovato estremamente difficile la preghiera, finché un amico mi spiegò che la preghiera consiste nel parlare con Gesù.

Così ora immagino Gesù seduto su una sedia di fronte a me e gli parlo e ascolto cosa dice in risposta.

Da allora non ho più avuto difficoltà nel pregare.”
Qualche giorno dopo, la figlia dell’anziano signore si presentò in canonica per informare il parroco che suo padre era morto.

Disse:

“L’ho lasciato solo per un paio d’ore.
Quando sono tornata nella stanza l’ho trovato morto con la testa appoggiata sulla sedia vuota che voleva sempre accanto al suo letto.”

Brano tratto dal libro “Il libro della saggezza interiore. 99 storie intorno all’uomo.” di Piero Gribaudi

Lentamente muore



Lentamente muore

Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marcia, chi non rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione,

chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle “i” piuttosto che un insieme di emozioni, proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti all’errore e ai sentimenti.

Lentamente muore chi non capovolge il tavolo,

chi è infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l’incertezza, per inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati.
Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso.

Muore lentamente chi distrugge l’amor proprio, chi non si lascia aiutare;

chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.
Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.
Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.
Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità.

Brano di Martha Medeiros, attribuito a Neruda.

Quello che ci fa volare. (Il venditore di palloncini)



Quello che ci fa volare
(Il venditore di palloncini)

Parecchi anni fa, un uomo vendeva palloncini per le strade di New York.
Quando gli affari erano un po’ fiacchi, faceva volare in aria un palloncino.

Mentre volteggiava in aria,

si radunava una nuova folla di acquirenti e le vendite riprendevano per qualche minuto.
Alternava i colori, sciogliendone prima uno bianco, poi uno rosso e uno giallo.

Dopo un po’ un ragazzino afroamericano gli dette uno strattone alla manica della giacca,

guardò negli occhi e gli fece una domanda acuta:
“Signore, se lasciasse andare un palloncino nero, salirebbe in alto?”

Il venditore di palloncini guardò il ragazzo e con saggezza e comprensione gli disse:

“Figliolo, è quello che è dentro i palloncini che li fa salire verso il cielo.”

Brano tratto dal libro “Ci vediamo sulla cima.” di Zig Ziglar, attribuito anche a Anthony De Mello

La quercia e il giunco. (Forza e saggezza)



La quercia e il giunco.
(Forza e saggezza)

La quercia è il simbolo della forza e della saggezza.
Essa si erge maestosa e potente tra il verde dei prati, innalza le fronde verso il cielo con forza e determinazione e domina incontrastata su tutto il paesaggio che la circonda.
Nemmeno l’inverno è in grado di sottometterla:
la quercia a differenza degli altri alberi non si denuda, non cede mai il suo fogliame al signore del gelo, ma conserva sempre la sua dignità, soprattutto di fronte alle intemperie.
Fiera e composta, essa è signora degli alberi e padrona di se medesima, ostello misericordioso per i piccoli roditori e gli uccelli, nido di sapienza e di esperienza, roccaforte inespugnabile e grandiosa, torre imperturbabile e quasi eterna…

Ma, nonostante questo, la quercia talvolta pecca di superbia e il suo orgoglio e la sua fierezza spesso possono rivelarsi fatali.

E, così, nelle giornate in cui infuria la tempesta, la grande quercia si ostina a sfidare il vento violento e brutale.
Non si abbassa, ma conserva il suo fiero comportamento anche di fronte al vento più crudele e impetuoso.
Consapevole e orgogliosa della propria potenza, non si piega e ostenta un’incrollabile fermezza.
Ma, nonostante questo, nonostante la sua esasperata ostinazione, non riesce a resistere alla furia del vento, il quale senza alcuna pietà la spezza.
Così la quercia cade a terra, spezzata in due, distrutta dalla sua stessa arroganza.
In fin di vita si guarda intorno per osservare per l’ultima volta quella che è sempre stata la sua terra, il luogo dove essa stessa ha mostrato a tutti la sua incredibile forza.

Ed è in tale momento che la bellissima quercia scorge un timido e insignificante giunco.

Lo guarda attentamente stupendosi di trovarlo ancora lì, ancorato al suolo, nonostante la brutalità del vento.
In un primo momento non riesce a spiegarsi un fatto tanto assurdo:
il giunco ha ancora le sue radici, mentre lei, la signora degli alberi, si trova in fin di vita e, inoltre, con una buona parte del suo corpo distesa al suolo, spezzata dalla bufera.
Ed è allora che la quercia comprende.
Il giunco è salvo per il semplice, ma pur sempre straordinario fatto, che, a differenza di lei, ha saputo piegarsi alla follia del vento, torcendo l’esile corpicino e avvicinandolo al suolo.
Umile e consapevole dei propri limiti, il giunco ha saputo saggiamente piegarsi e il vento l’ha risparmiato.

Superba e altera, la quercia ha voluto dimostrare la sua forza e il vento l’ha punita.

Fissando il giunco, la quercia prova dolore e il suo viso s’inumidisce.
Che siano lacrime o rugiada la quercia lo sa bene, ma preferisce non pensarci.
Essa si spegne e abbandonando questo mondo comprende finalmente il significato della sua esistenza e il senso del suo patetico destino.
Infine nella sua mente prende consistenza una domanda, di cui la quercia conosce bene la risposta:
nei giorni di tempesta chi è il più forte tra la quercia e il giunco?

Brano di Jean de La Fontaine

La gazzella ed il cespuglio



La gazzella ed il cespuglio

Una gazzella era inseguita dai cacciatori.
Passando vicino a un cespuglio verde, si raccomandò:

“Nascondimi per carità. Vogliono la mia morte.”

Il cespuglio la lasciò entrare, poi si richiuse, in modo che la gazzella scomparisse dalla vista dei cacciatori.
Passò qualche minuto.
La gazzella aveva il cuore in tumulto.
Poi si quietò e incominciò a brucare le foglie del cespuglio.

“Ahi!” fece il cespuglio “Mi fai male!”

“Ho corso tanto e mi è venuto appetito.” rispose la gazzella ingrata.
“Io ti ho nascosto volentieri, e tu ora mi strappi le foglie!” esclamò il cespuglio.
“Così è la vita.” rispose la gazzella, dando un morso più violento al cespuglio.

Ma fu subito punita della sua ingratitudine.

I cacciatori, che erano ancora nei dintorni, vedendo il cespuglio muoversi, intuirono la presenza della gazzella.
Spararono e l’uccisero.

Brano di Paolo Bargellini

Posso portare il mio cane?


Posso portare il mio cane?

Un signore scrisse una lettera a un piccolo albergo in una cittadina che prevedeva di visitare durante le vacanze.
Scrisse:
“Mi piacerebbe portare con me il mio cane.

È pulito e ben educato.

Mi consentireste di tenerlo nella mia camera durante la notte?”
Immediata giunse la risposta del titolare dell’albergo che disse:

“Gestisco questo albergo da molti anni.

In tutto questo tempo non ho mai visto nessun cane rubare asciugamani, coperte o argenteria o quadri appesi alla parete.
Non ho mai dovuto cacciar via un cane in piena notte per ubriachezza molesta.

E non ho mai visto un cane andarsene senza pagare.

Sì, effettivamente il Suo cane è il benvenuto, nel mio albergo.
E se il Suo cane garantisce per Lei, anche Lei sarà il benvenuto.”

Brano di Kark Albrech

La strada che non andava da nessuna parte


La strada che non andava da nessuna parte

All’uscita del paese si dividevano tre strade:
una andava verso il mare, la seconda verso la città e la terza non andava in nessun posto.
Martino lo sapeva perché lo aveva chiesto un po’ a tutti e da tutti aveva ricevuto la stessa risposta:
“Quella strada lì?
Non va in nessun posto.
E’ inutile camminarci!”
“E fin dove arriva?” chiedeva.
“Non arriva da nessuna parte!” gli rispondevano
“Ma allora perché l’hanno fatta?” ribadiva.

“Non l’ha fatta nessuno, è sempre stata lì!” replicavano.

“Ma nessuno è mai andato a vedere?” insisteva il ragazzo.
“Sei una bella testa dura: se ti diciamo che non c’è niente da vedere…” concludevano.
“Non potete saperlo se non ci siete mai stati!” diceva Martino.
Era così ostinato che cominciarono a chiamarlo Martino Testadura, ma lui non se la prendeva e continuava a pensare alla strada che non andava in nessun posto.
Quando fu abbastanza grande, una mattina si alzò per tempo, uscì dal paese e senza esitare imboccò la strada misteriosa e andò sempre avanti.
Il fondo era pieno di buche e di erbacce e ben presto cominciarono i boschi.
Cammina cammina la strada non finiva mai, a Martino dolevano i piedi e già cominciava a pensare che avrebbe fatto bene a tornarsene indietro quando vide un cane.

Il cane gli corse incontro scodinzolando e gli leccò le mani,

poi si avviò lungo la strada e ad ogni passo si voltava per controllare se Martino lo seguiva ancora.
Finalmente il bosco cominciò a diradarsi e la strada terminò sulla soglia di un grande cancello di ferro.
Attraverso le sbarre Martino vide un castello e a un balcone una bellissima signora che salutava con la mano.
Spinse il cancello, attraversò il parco e sulla porta trovò la bellissima signora.
Era bella, vestita come una principessa e in più era allegra e rideva:
“Allora non ci hai creduto!”
“A che cosa?” chiese stupito Martino.
“Alla storia della strada che non andava da nessuna parte!” replicò la signora.
“Era troppo stupida e secondo me ci sono più posti che strade!” rispose Martino.
“Certo, basta aver voglia di muoversi.
Ora vieni ti farò vedere il castello!” disse la bellissima signora.
C’erano più di cento saloni zeppi di tesori.
C’erano diamanti, pietre preziose, oro, argento e ad ogni momento la bella signora diceva:

“Prendi, prendi quello che vuoi…

Ti presterò un carretto per portare il peso!”
Martino non si fece pregare e ripartì col carretto pieno.
In paese, dove l’avevano già dato per morto, Martino fu accolto con grande sorpresa.
Scaricato il tesoro il carro ripartì.
Martino fece tanti regali a tutti e dovette raccontare cento volte la sua storia.
Ogni volta che finiva, qualcuno correva a casa a prendere cavallo e carretto e si precipitava giù per la strada che non andava da nessuna parte.
Ma quella sera stessa tornarono uno dopo l’altro, con la faccia lunga per il dispetto:
la strada per loro finiva in mezzo al bosco in un mare di spine.
Non c’era né cancello, né castello, né bella signora.
Perché certi tesori esistono soltanto per chi batte per primo una strada nuova.

Brano di Gianni Rodari

I cambiamenti dentro di noi

I cambiamenti dentro di noi

Un giovane di nome Naresh incontrò un santo.
Il santo gli chiese chi fosse, e il giovane rispose: “Sono Naresh!”
“Chi sei?” ribadì il santo.
Naresh, pensando che il santo non lo avesse udito, disse: “Mi chiamo Naresh!”
“Sì, ma chi sei?” incalzò il santo.
Perplesso, Naresh rispose:
“Mio padre si chiama Ram Dutta.
Vivo a Delhi.
Faccio il ragioniere.”
“Sì, ma chi sei?” continuò il santo.
Il giovane si spremette le meningi per capire quella domanda.
Il santo era forse duro d’orecchi?

O stava diventando vecchio e un po’ senile?

“Beh, se non lo sai,” disse il santo con un sorriso, “forse è bene che tu sia venuto da me!”
A questo punto il giovane rimase completamente sconcertato!
Sentiva però una certa pace in presenza del santo e quindi tornò molte volte da lui, pur senza sapere veramente il perché.
Un po’ alla volta, cominciò a riflettere:
“Posso davvero definire me stesso in un modo così limitato, ad esempio dicendo che sono un ragioniere?”
Cominciò a pensare:
“Io non sono ciò che faccio.
Sono un giovane con molti interessi, incluso quello di fare visita a questo santo, anche se lo faccio per ragioni che non comprendo pienamente!”

“Chi sei?” gli chiese nuovamente il santo, un giorno.

A quel punto, il vecchio apparve al giovane non solo perfettamente normale, ma perfino saggio.
“Non so chi sono veramente!” disse Naresh.
“Adesso va meglio!” esclamò il santo “Allora pensaci di nuovo. Chi sei?”
Bene, rifletté il giovane.
Ho un nome, una famiglia, un domicilio.
Ma sono davvero una qualunque di queste cose?
All’improvviso ebbe questa rivelazione:
“Sono un’anima in cerca di se stessa!”
Il suo corpo era ancora giovane, ma sapeva che col tempo sarebbe invecchiato.
Anche adesso, nel suo intimo, egli era la stessa persona che era stato da bambino.
Il corpo era cambiato, ma lui no.
Quindi non era il corpo.

Continuò a riflettere.

La sua comprensione era cambiata da quando aveva incontrato il santo, ma nel suo intimo era ancora lo stesso.
La sua personalità era cambiata, ma qualcosa nella sua coscienza era rimasto immutato.
Lentamente comprese che lui, proprio lui, era un punto di percezione interiore dal quale si limitava ad osservare quei cambiamenti, senza però definire se stesso in base a essi.
Ciò che cambia, comprese, non può essere ciò che sono.
Io sono quel qualcosa dentro di me che rimane immutato, che semplicemente osserva il cambiamento.
Così, giunse ad identificarsi sempre più con la sua anima.
Un giorno disse al guru:
“So chi sono, ma non ci sono parole con cui io possa parlarne!”
Il santo, nell’udire questo, si limitò a sorridere.
Più tardi disse:
“Ora che ti mancano le parole, c’è così tanto che possiamo dirci!”

Brano tratto dal libro “L’essenza della Bhagavad Gita.” di Paramhansa Yogananda e Swami Kriyanand

Credo in te, amico. Credo nel tuo sorriso…


Credo in te, amico.
Credo nel tuo sorriso…

Credo in te, amico.
Credo nel tuo sorriso,
finestra aperta nel tuo essere.

Credo nel tuo sguardo,

specchio della tua onestà.

Credo nella tua mano,
sempre tesa per dare.

Credo nel tuo abbraccio,

accoglienza sincera del tuo cuore.

Credo nella tua parola,
espressione di quel che ami e speri.

Credo in te, amico,

così, semplicemente,
nell’eloquenza del silenzio.

Poesia di Elena Oshiro

La ragazza che regalava il tempo



La ragazza che regalava il tempo

“Chi ha bisogno di un’ora?”
Gliela regalo.
Lo diceva camminando per la strada, come un ambulante che offra mazzetti di fiori e accendini.
Naturalmente nessuno le badava, pensavano che scherzasse o fosse un po’ matta.
Solo una donna le si avvicinò:
stava andando all’ospedale dal vecchio padre moribondo e per questo le prestò ascolto.
“Davvero puoi darmela?” chiese.

“Certo,” disse la ragazza “e gliela diede.”

La donna corse a portarla al padre, che poté così vivere un’ora in più.
Quando la cosa si seppe, la voce che una ragazza regalava il tempo si sparse in un baleno.
La casetta dove abitava fu assediata, la gente non bussava solo alla porta, ma anche ai vetri delle finestre.
“A me! A me!” gridavano.
“Regalami un mese, te lo pago a peso d’oro!”
“Dammi una settimana! Un giorno solo!”

Lei accontentava tutti, e senza farsi pagare.

Una madre le chiese un mese per la sua bambina gravemente ammalata e lo ebbe.
Un’altra, sofferente di cuore, aveva un unico figlio emigrato in Australia.
“Posso morire da un momento all’altro,” disse “e lui ha bisogno di tempo per mettere da parte i soldi per venire a trovarmi.
Posso non rivederlo più, capisci?”
La ragazza le regalò un anno.
Regalava ore, mesi, anni, ed erano pezzetti della sua vita che dava via.
Quando le chiedevano:
“Perché lo fai?” lei non sapeva rispondere.

Qualcuno diceva addirittura:

“Non lo farà perché non ama vivere?”
Invece chi è generoso non sa spiegare perché lo è, o forse lei si vergognava di dire che, essendo
molto povera, non aveva nient’altro da regalare.
Si penserà che a furia di dar via pezzetti della sua vita morì giovane.
Invece no, chi regala il suo tempo agli altri, non lo perde, lo guadagna:
gliene ricresce tanto.

Brano tratto dal libro “Storie del Tic-Tac.” di Marcello Argilli