Cicatrici


Cicatrici

In un caldo giorno d’estate nel sud della Florida, un bambino decise di andare a nuotare nella laguna dietro casa sua.
Uscì dalla porta posteriore correndo e si gettò in acqua nuotando felice.
Sua madre lo guardava dalla casa attraverso la finestra quando vide con orrore che un alligatore stava per avvicinarsi al bambino.

Corse subito verso suo figlio gridando più forte che potesse.

Sentendola il bambino si allarmò e nuotò verso sua madre, ma era ormai troppo tardi.
La mamma riuscì ad afferrare il bambino per le braccia, proprio mentre un coccodrillo gli afferrava le gambe.
La donna tirava determinata, con tutta la forza del suo cuore.
L’alligatore era più forte, ma la mamma era molto più determinata e il suo amore non l’abbandonava.

Un uomo udì le grida,

si precipitò sul posto con una pistola e uccise il coccodrillo.
Il bimbo si salvò e, nonostante le sue gambe fossero ferite gravemente, poté di nuovo camminare.
Quando uscì dal trauma, un giornalista domandò al bambino se volesse mostrargli le cicatrici sulle sue gambe.
Il bimbo sollevò la coperta e gliele fece vedere.
Poi, con grande orgoglio si rimboccò le maniche e disse:

“Ma quelle che deve vedere sono queste!”

Erano i segni delle unghie di sua madre che l’avevano stretto con forza.
“Le ho perché la mamma non mi ha lasciato e mi ha salvato la vita!”

Brano senza Autore.

Tu sei la parte più importante della mia giornata!


Tu sei la parte più importante della mia giornata!

“Mamma, guarda!” esclamò Marta, la bambina di sette anni.
“Già, già!” mormorò nervosamente la donna mentre guidava e pensava alle tante cose che l’attendevano a casa.
Poi seguirono la cena, la televisione, il bagnetto, varie telefonate e arrivò anche l’ora di andare a dormire.
“Forza Marta, è ora di andare a letto!”
E lei si avviò di corsa su per le scale.
Stanca morta, la mamma le diede un bacio, recitò le preghiere con lei e le aggiustò le coperte.
“Mamma, ho dimenticato di darti una cosa!”

“Me la darai domattina.” rispose la mamma, ma lei scosse la testa.

“Ma poi domattina non avrai tempo!” esclamò Marta.
“Lo troverò, non preoccuparti!” disse la mamma, un po’ sulla difensiva.
“Buonanotte!” aggiunse e chiuse la porta con decisione.
Però non riusciva a togliersi dalla mente gli occhioni delusi di Marta.
Tornò nella stanza della bambina, cercando di non fare rumore.
Riuscì a vedere che stringeva in una mano dei pezzetti di carta.

Si avvicinò e piano piano aprì la manina di Marta.

La bambina aveva stracciato in mille pezzi un grande cuore rosso con una poesia scritta da lei che si intitolava “Perché voglio bene alla mia mamma.”
Facendo molta attenzione recuperò tutti i pezzetti e cercò di ricostruire il foglio.
Una volta ricostruito il puzzle riuscì a leggere quello che aveva scritto Marta:
“Perché voglio bene alla mia mamma.
Anche se lavori tanto e hai mille cose da fare trovi sempre un po’ di tempo per giocare.
Ti voglio bene mamma perché sono la parte più importante del giorno per te.”

Quelle parole le volarono dritto al cuore.

Dieci minuti più tardi tornò nella camera della bambina portando un vassoio con due tazze di cioccolata e due fette di torta.
Accarezzò teneramente il volto paffuto di Marta.
“Cos’è successo?” chiese la bambina, confusa da quella visita notturna.
“È per te, perché tu sei la parte più importante della mia giornata!” disse dolcemente la mamma.
La bambina sorrise, bevve metà della cioccolata e si riaddormentò.

Brano senza Autore.

Sofia e la fata


Sofia e la fata

Era una bellissima mattina d’inizio autunno.
La piccola Sofia decise di andare a fare una passeggiata nel bosco per cercare le castagne.
La sua mamma le preparò uno spuntino nel caso le venisse fame e le raccomandò di prestare attenzione.
S’inoltrò nel bosco alla ricerca delle castagne.
Ce n’erano proprio tante!
Avrebbe riempito il suo cestino molto presto!
Ad un certo punto, vide una distesa colorata di giallo oro:

non erano le foglie cadute dagli alberi, ma erano cespugli d’erica.

Si ricordò allora di, quando la nonna le raccontava che per incontrare una fata bastava sdraiarsi vicino uno di questi cespugli.
Decise che poteva essere il momento buono per riposarsi un po’ e fare lo spuntino vicino quella distesa dorata:
forse sarebbe anche riuscita ad incontrare una fata, come aveva sempre desiderato!
Iniziò a mangiare, ma della fata nessuna traccia.
Finita la merenda, si alzò un po’ delusa per fa ritorno a casa.
Prima di andar via, prese con se un ramo dorato per regalarlo alla sua mamma.
Staccato il rametto più fiorito, all’improvviso vide che tutto intorno a lei diventava grandissimo, anche il rametto che, infatti, le cadde dalle mani sempre più piccole.

Cosa era mai successo?

La piccola Sofia era diventata uno gnomo!
Le sue orecchie erano a punta, come il cappellino che aveva sulla sua testa.
E adesso?
Come poteva tornare a casa così?
Si mise a piangere disperatamente: pensava alla sua mamma e a quanto avrebbe sofferto nel non vedendola rientrare a casa.
Mentre si disperava, si alzo un venticello che sollevò da terra una nuvola di foglie.
Come il vento si placò, apparve agli occhi di Sofia una fata tutta vestita d’oro, che le disse:
“Ecco qui un altro gnomo da condurre nel mio castello.”
“Ti prego, non portami per favore!” disse Sofia in lacrime “Non so cosa sia successo e perché sono diventata uno gnomo.

Io volevo solo conoscere una fata!

Fammi tornare com’ero, per favore!
Voglio tornare dalla mia mamma!”
La fata raccolse il piccolo gnomo in lacrime e le spiegò perché si era trasformata:
l’erica era la pianta delle fate, e quindi era proibito staccarne un ramo e chiunque l’avesse fatto avrebbe mancato di rispetto alle fate ed era trasformato in uno gnomo.
“Io non lo sapevo!” disse Sofia piagnucolando.
La fata la guardò, sorrise e soffiò dolcemente sullo gnomo:
“Le tue lacrime sono sincere e pure, spezzerò l’incantesimo, ma prometti che d’ora in poi rispetterai non solo l’erica ma tutte le piante del bosco.”
Sofia annuì e tornò bimba.
Prese il suo cestino di castagne e ne regalò per gratitudine un po’ alla fata, poi corse verso casa, ansiosa di riabbracciare la sua mamma.

Brano senza Autore

Il pane della fratellanza


Il pane della fratellanza

Si racconta di una anziana contadina, di nome Giulia, che viveva in una fattoria con i suoi tre figli, Roberto, Michele e Francesco.
Il marito le era morto durante la guerra.
I tre figli, di cuore buono, erano però sempre pronti a litigare.
Si volevano bene ma, bastava una parola in più ed erano litigi senza fine.
A quel punto interveniva Mamma Giulia e ben presto i figli ritrovavano pace.

La mamma divento vecchia, allora i figli si preoccuparono:

“Mamma, cerca di star sempre bene e di non morire, perché quando litighiamo chi rimetterà la pace fra noi?”
“Ma io dovrò pur morire prima o poi.” rispose la mamma
“Allora,” chiesero i figli “inventa qualcosa perché quando tu non ci sarai più noi potremo rifare pace e volerci bene.”
Mamma Giulia pensò a lungo alla cosa e un giorno prese un foglio, vi scrisse come dovevano essere divisi i campi fra i tre figli e aggiunse alcune raccomandazioni perché andassero sempre d’accordo.
La mamma un giorno si ammalò gravemente e dal suo letto chiamò i figli, consegnò loro il suo testamento, poi prese un pane, ne fece tre parti, ne diede una a ciascuno e raccomandò:

“Mangiate e cercate di volervi bene.”

I figli, commossi, mangiarono il pane della mamma, bagnandolo con le loro lacrime.
Di lì a pochi giorni Giulia morì.
Roberto, Michele e Francesco si divisero serenamente i campi e ognuno si mise a lavorare il suo.
Ma un giorno Roberto e Michele scoprirono che il confine fra i loro campi non era chiaro.
Ben presto si misero a litigare.
Stavano per fare a botte, quando arrivò Francesco.
Egli si mise in mezzo a loro:

“Non ricordate la mamma?

Perché non facciamo come quel giorno che ci ha chiamati al suo capezzale?”
Presero un pane, ne fecero tre parti, ne presero una per ciascuno e si misero a mangiare.
Mentre mangiavano nella mente di Roberto e Michele si riaccese l’immagine della mamma; il suo volto e le sue parole scendevano nel loro cuore come una medicina.
Scoppiarono in un pianto dirotto e fecero pace.
La pace non durava molto, perché occasioni di litigio ne incontravano spesso.
Però avevano imparato la soluzione: ogni volta che si creava un’occasione per litigare, i tre fratelli si sedevano attorno ad un tavolo, prendevano un pane, lo mangiavano insieme; ben presto scompariva la rabbia e tornava la pace.

Brano senza Autore.

Il bambino che scriveva sulla sabbia


Il bambino che scriveva sulla sabbia

Un bambino tutti i giorni si recava in spiaggia e scriveva sulla sabbia:
Mamma ti amo!”; poi guardava il mare cancellare la scritta e correva via sorridendo.
Un vecchio triste, passeggiava tutti i giorni su quel litorale e lo vedeva giorno dopo giorno scrivere la stessa frase, e guardare felice il mare portargliela via.

Fra sé e sé pensava:

“Questi bambini, sono così stupidi ed effimeri.”
Un giorno si decise ad avvicinare il bambino, non avrà avuto più di dieci anni, e gli chiese:
“Ma che senso ha che tu scriva “Mamma ti amo!” sulla sabbia che poi il mare te la porta via. Diglielo tu che le vuoi bene.”
Il bambino si alzò, e guardando l’ennesima scritta cancellata dall’acqua salata disse al vecchio:
“Io non ce l’ho la mamma!

Me l’ha portata via Dio, come fa il mare con le mie scritte.

Eppure torno qui ogni giorni a ricordare alla mamma e a Dio che non si può cancellare l’amore di un figlio per la propria madre.”
Il vecchio si inginocchiò, e con le lacrime agli occhi scrisse:
“Nora. Ti amo!” era il nome della moglie appena morta.
Poi prese il bimbo per mano e assieme guardarono la scritta sparire.

Brano tratto dal libro “La persistenza della memoria.” di Alessandro Bon

Dov’è il mio bacio?


Dov’è il mio bacio?

C’era una volta una bambina che si chiamava Cecilia.
Il papà e la mamma della bambina lavoravano tanto.
La loro era una bella famiglia e vivevano felici.
Mancava solo una cosa, ma Cecilia non se ne era mai accorta.
Un giorno, quando aveva nove anni, andò per la prima volta a dormire a casa della sua amica Adele.
Quando fu ora di dormire, la mamma di Adele rimboccò loro le coperte e diede a ognuna il bacio della buonanotte.

“Ti voglio bene!” disse la mamma ad Adele.

“Anch’io!” sussurrò la bambina.
Cecilia era così sconvolta che non riuscì a chiudere occhio.
Nessuno le aveva mai dato il bacio della buonanotte o le aveva detto di volerle bene.
Rimase sveglia tutta la notte, pensando e ripensando:
“È così che dovrebbe essere!”
Quando tornò a casa, non salutò i genitori e corse in camera sua.
Li odiava.
Perché non l’avevano mai baciata?
Perché non l’abbracciavano e non le dicevano che le volevano bene?

Forse non gliene volevano?

Cecilia pianse fino ad addormentarsi e rimase arrabbiata per diversi giorni.
Alla fine decise di scappare di casa.
Preparò il suo zainetto, ma non sapeva dove andare!
Era bloccata per sempre con i genitori più freddi e peggiori del mondo.
All’improvviso, trovò una soluzione.
Andò dritta da sua madre e le stampò un bacio sulla guancia:
“Ti voglio bene!”
Poi corse dal papà, lo abbracciò e gli disse:
“Buonanotte papà!
Ti voglio bene!”

Quindi andò a letto, lasciando i genitori ammutoliti in cucina.

Il mattino seguente, quando scese per colazione, diede un bacio alla mamma e uno al papà.
Alla fermata dell’autobus si sollevò in punta di piedi e diede ancora un bacio alla mamma:
“Ciao, mamma.
Ti voglio bene!”
Cecilia andò avanti così giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese.
A volte, i suoi genitori si scostavano, rigidi e impacciati.
A volte ne ridevano.
Ma Cecilia non smise.
Aveva il suo piano e lo seguiva alla lettera.
Poi, una sera, si dimenticò di dare il bacio alla mamma prima di andare a letto.
Poco dopo, la porta della sua camera si aprì e sua madre entrò.
“Allora, dov’è il mio bacio?” chiese, fingendo di essere contrariata.
Cecilia si sollevò a sedere:
“Oh, l’avevo scordato!”

La baciò e poi:

“Ti voglio bene, mamma!”
Quindi tornò a coricarsi e chiuse gli occhi.
Ma la mamma rimase lì e alla fine disse:
“Anch’io ti voglio bene!”
Poi si chinò e baciò Cecilia proprio sulla guancia.
Poi aggiunse con finta severità:
“E non ti dimenticare più di darmi il bacio della buonanotte!”
Cecilia rise e promise:
“No mamma, non succederà più!”

Brano tratto dal libro “Ma noi abbiamo le ali.” di Bruno Ferrero. Casa editrice ElleDici.

I tre figli

I tre figli

Tre donne andarono alla fontana per attingere acqua.
Presso la fontana, su una panca di pietra, sedeva un uomo anziano che le osservava in silenzio ed ascoltava i loro discorsi.

Le donne lodavano i rispettivi figli.

“Mio figlio,” diceva la prima, “è così svelto ed agile che nessuno gli sta alla pari!”
“Mio figlio,” sosteneva la seconda, “canta come un usignolo.
Non c’è nessuno al mondo che possa vantare una voce bella come la sua!”
“E tu, che cosa dici di tuo figlio?” chiesero alla terza che rimaneva in silenzio.
“Non so che cosa dire di mio figlio!” rispose la donna, “E’ un bravo ragazzo, come ce ne sono tanti. Non sa fare niente di speciale!”
Quando le anfore furono piene, le tre donne ripresero la via di casa.
Il vecchio le seguì per un pezzo di strada.
Le anfore erano pesanti, le braccia delle donne stentavano a reggerle.
Ad un certo punto si fermarono per far riposare le povere schiene doloranti.

Vennero loro incontro tre giovani.

Il primo improvvisò uno spettacolo: appoggiava le mani a terra e faceva la ruota con i piedi per aria, poi inanellava un salto mortale dopo l’altro.
Le donne lo guardavano estasiate:
“Che giovane abile!”
Il secondo giovane intonò una canzone.
Aveva una voce splendida che ricamava armonie nell’aria come un usignolo.
Le donne lo ascoltavano con le lacrime agli occhi: “E’ un angelo!”
Il terzo giovane si diresse verso sua madre, prese la pesante anfora e si mise a portarla, camminando accanto a lei.

Le donne si rivolsero al vecchio:

“Allora che cosa dici dei nostri figli?”
“Figli?” esclamò meravigliato il vecchio “Io ho visto un figlio solo!”

Brano senza Autore, tratto dal Web