Giulia e l’uva

Giulia e l’uva

Una giovane ragazza, di nome Giulia, nel pieno della gioventù, faceva la domestica tuttofare in una dimora di ricchi proprietari terrieri.
Vigeva in quel tempo l’istituto della mezzadria ed i contadini portavano ai padroni i frutti più belli:

le cosiddette regalie.

Nella stanza dove dormiva Giulia avevano, perfino, appeso alle travi del soffitto i più bei grappoli d’uva, delle varietà migliori, per conservarli, dono dei contadini contraenti.
I suoi padroni le avevano raccomandato, pena il licenziamento, di non mangiare per nessun motivo nemmeno un chicco d’uva.
Vuoi per la fame, vuoi per l’essere golosa, Giulia qualche chicco d’uva qua e là lo aveva mangiato, e si augurava che i proprietari non notassero questi piccoli furti.
Ma non fu così, ed i padroni, noti per essere taccagni e avari, la sgridarono pesantemente.

Giulia si difese dicendo:

“Sono stati i topi!
E voi mi fate addirittura dormire con loro!”
I padroni schifati risposero:
“Se è davvero così, puoi mangiarti tutta l’uva che vuoi perché a noi non interessa più!”

Giulia era mia nonna.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Signora, lei è ricca?

Signora, lei è ricca?

Si rannicchiarono dietro la porta doppia:
due bambini con i cappotti a brandelli troppo piccoli per loro che mi chiesero:
“Ha giornali vecchi, signora?”
Ero indaffarata, volevo rispondere di no… finché guardai i loro piedi:
sandaletti leggeri, inzuppati dal nevischio.
“Entrate e vi farò una tazza di cioccolata calda.” dissi ai due bambini.

Non vi fu conversazione.

I sandali fradici lasciarono impronte sulla piastra del caminetto.
Servii loro cioccolata e pane tostato con marmellata per fortificarli contro il freddo esterno.
Quindi tornai in cucina e ripresi il mio bilancio familiare!
Il silenzio nel soggiorno mi sorprese.
Guardai dentro, la bambina teneva in mano la tazza vuota e la osservava.
Il maschietto mi disse con voce incerta:

“Signora, lei è ricca?”

“Se sono ricca? Misericordia, no!” guardai le consunte foderine del divano.
La bambina rimise la tazza sul suo piattino con cura.
“Le sue tazze sono intonate ai piattini.” aveva osservato la bambina, con una voce vecchia, con una fame che non veniva dallo stomaco.
Quindi se ne andarono, tenendo i pacchi dei giornali contro il vento, non avevano detto grazie, non ne avevano bisogno.
Avevano fatto molto di più.
Tazze e piattini di ceramica azzurra di poco valore.

Ma erano intonati.

Diedi un’occhiata alle patate e mescolai il sugo.
Patate e sugo di carne, un tetto sopra alla testa, mio marito con un lavoro sicuro… umile ma sicuro.
Anche queste cose erano intonate.
Allontanai le sedie dal fuoco e misi in ordine il soggiorno.
Le impronte fangose dei sandaletti erano ancora umide sul caminetto.
Le lasciai lì:
voglio che restino lì caso mai mi dimenticassi di nuovo quanto sono ricca.

Brano tratto dal libro “Brodo caldo per l’anima – Pensa Positivo.” di Marion Doolan

Marion Doolan

Marion Doolan autrice del Brano “Signora, lei è ricca?“ tratto dal libro “Brodo caldo per l’anima – Pensa Positivo.” ▶Home Bruno Ferrero Michele Bruno Salerno…

L’eremita e l’esempio dello sparviero

L’eremita e l’esempio dello sparviero

Un eremita vide una volta, in un bosco, uno sparviero.
Lo sparviero portava al suo nido un pezzo di carne:
lacerò quella carne in tanti piccoli pezzi, e si mise a imbeccare anche una piccola cornacchia ferita.
L’eremita si meravigliò che uno sparviero imbeccasse così una piccola cornacchia, e penso:

“Dio mi ha mandato un segno.

Neppure una piccola cornacchia ferita viene abbandonata da Lui.
Dio ha insegnato addirittura ad un feroce sparviero a nutrire una creaturina d’altra razza, rimasta orfana al mondo.
Si vede proprio che Dio dà il necessario a tutte le creature:
e noi, invece, stiamo sempre in pensiero per noi stessi.
Voglio smetterla di preoccuparmi di me stesso!
Dio mi ha fatto vedere che cosa devo fare.

Non mi procurerò più di mangiare!

Dio non abbandona nessuna delle sue creature:
non abbandonerà neanche me!”
E così fece:
si mise a sedere in quel bosco e non si mosse più di là:
pregava, pregava, e nient’altro.
Per tre giorni e per tre notti rimase così, senza bere un sorso d’acqua e senza mangiare un boccone.
Dopo tre giorni, l’eremita s’era tanto indebolito, che non era più capace d’alzare la mano.

Dalla gran debolezza, s’addormentò.

Ed ecco apparirgli in sogno un angelo.
L’angelo lo guardò accigliato e gli disse:
“Il segno era per te, certo.
Ma perché tu imparassi ad imitare lo sparviero!”

Brano tratto dal libro “A volte basta un raggio di sole.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

L’alpinista e Dio

L’alpinista e Dio

Si narra che un alpinista, fortemente motivato a conquistare un’altissima vetta, iniziò la sua impresa dopo anni di preparazione.
Deciso a non spartire la gloria con alcuno, iniziò l’impresa senza compagni.
Iniziò l’ascesa ma si fece tardi, sempre più tardi, senza che egli si decidesse ad accamparsi, insistendo nell’ascesa.

Ben presto si fece buio.

La notte giunse bruscamente sulle alture della montagna e non si poteva vedere assolutamente nulla.
Tutto era tenebra, il buio regnava sovrano, la luna e le stelle erano coperte dalle nubi.
Salendo per un costone roccioso, a pochi metri dalla cima, scivolò e precipitò nel vuoto, cadendo a velocità vertiginosa.
Nella caduta, l’alpinista poteva appena vedere delle macchie scure e sperimentare la sensazione di essere risucchiato dalla forza di gravità.

Continuava a cadere…

In quegli attimi angosciosi, gli passarono per la mente gli episodi più importanti della sua vita.
Rifletteva, ormai vicino alla morte.
D’improvviso avvertì il violento strappo della lunga fune che aveva assicurato alla cintura.
In quel momento di terrore, sospeso nel vuoto, non gli rimase che gridare:
“Dio mio, aiutami!”
Improvvisamente una voce grave e profonda dal cielo gli domandò:

“Cosa vuoi che io faccia?”

“Mio Dio, salvami!” supplicò l’alpinista.
“Credi realmente che io possa salvarti?” chiese la voce.
“Sì, mio Signore. Lo credo.” replicò l’alpinista.
“Allora, recidi la corda che ti sostiene!” esclamò la voce.
Ci fu un momento di silenzio; poi l’uomo si avvinse ancora più fortemente alla corda.

Il resoconto della squadra di soccorso, afferma che l’alpinista fu trovato, ormai morto per congelamento, fortemente avvinghiato alla corda… a soli due metri dal suolo!

Brano senza Autore

L’umorista davanti a Dio

L’umorista davanti a Dio

Una volta un uomo, un tipo sempre allegro e sorridente, fece un sogno:
gli sembrò d’esser morto e di trovarsi davanti al tribunale di Dio.

Era quasi disperato perché aveva grosse marachelle sulla coscienza.

Sentiva che il Giudice quando sceglieva uno tra i beati gli diceva:
“Avevo fame e mi hai dato da mangiare; avevo freddo e mi hai coperto… vieni a godere nel mio regno!”
L’uomo tremava tutto, perché non si ricordava d’aver fatto nessuna opera buona.
Ma quando venne il suo turno vide che il Signore lo guardava sorridendo.
“Che cosa mai avrò fatto di bene?” si domandava tra sé.

Il Giudice esclamò:

“Ero triste e tu con il tuo umorismo mi hai consolato; ero malinconico e tu con il tuo sorriso mi hai rasserenato:
entra nella gioia del mio paradiso!”

Brano tratto dal libro “Racconti per il volo dell’anima.” di Pino Pellegrino

Festa di compleanno al castello

Festa di compleanno al castello

Il villaggio ai piedi del castello fu svegliato dalla voce dell’araldo del castellano che leggeva un proclama nella piazza:
“Il nostro signore beneamato invita tutti i suoi buoni e fedeli sudditi a partecipare alla festa del suo compleanno.
Ognuno riceverà una piacevole sorpresa.

Domanda a tutti però un piccolo favore:

chi partecipa alla festa abbia la gentilezza di portare un po’ d’acqua per riempire la riserva del castello che è vuota…”
L’araldo ripeté più volte il proclama, poi fece dietrofront e scortato dalle guardie ritornò al castello.
Nel villaggio scoppiarono i commenti più diversi.
“Bah!
È il solito tiranno!
Ha abbastanza servitori per farsi riempire il serbatoio…
Io porterò un bicchiere d’acqua, e sarà abbastanza!” disse un suddito.

“Ma no!

È sempre stato buono e generoso!
Io ne porterò un barile!” rispose un altro suddito.
“Io un… ditale!” replicò un altro ancora.
“Io una botte!” esclamò un suddito devoto.
Il mattino della festa, si vide uno strano corteo salire al castello.
Alcuni spingevano con tutte le loro forze dei grossi barili o ansimavano portando grossi secchi colmi d’acqua.
Altri, sbeffeggiando i compagni di strada, portavano piccole caraffe o un bicchierino su un vassoio.
La processione entrò nel cortile del castello.
Ognuno vuotava il proprio recipiente nella grande vasca, lo posava in un angolo e poi si avviava pieno di gioia verso la sala del banchetto.
Arrosti e vino, danze e canti si succedettero, finché verso sera il signore del castello ringraziò tutti con parole gentili e si ritirò nei suoi appartamenti.
“E la sorpresa promessa?” brontolarono alcuni con disappunto e delusione.

Altri dimostravano una gioia soddisfatta:

“Il nostro signore ci ha regalato la più magnifica delle feste!”
Ciascuno, prima di ripartire, passò a riprendersi il recipiente.
Esplosero allora delle grida che si intensificarono rapidamente.
Esclamazioni di gioia e di rabbia.
I recipienti erano stati riempiti fino all’orlo di monete d’oro!
“Ah! Se avessi portato più acqua…”

Brano tratto dal libro “365 piccole storie per l’anima.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

La leggenda del minestrone di Fagioli di Levada

La leggenda del minestrone di Fagioli di Levada

Tanti secoli orsono, un potente re bandì un editto in cui asseriva che avrebbe concesso la mano di sua figlia a chi avesse portato a corte il piatto più rappresentativo del suo regno.
Il regno era composto da diverse contee, ognuna delle quali vantava eccellenze culinarie.
Ci fu una gara serrata e tanti giovani portarono piatti con prodotti e ricette tipiche,

ma nessuno di questi incontrò i favori del re.

In quel regno era emigrato un giovane veneto per lavoro, il quale era perdutamente innamorato della principessa.
Sapeva però che, come emigrato, non aveva tipicità da portare, ma si ricordò il piatto povero della sua terra; fece un minestrone con un po’ di ortaggi del regno ed abbondò con i fagioli portati dalla sua terra natia.

Il re ne sentì da lontano il profumo ed entusiasta chiese:

“Da dove arriva questo ottimo odore?”
Il giovane rispose:
“È il piatto della mia terra di origine e si chiama minestrone di fagioli;
rende forti come i leoni ed è profumatissimo, nasce da un pentolone,

è un mangiare da poveri ma da re vale un regno.”

Il re entusiasta decretò il minestrone di fagioli piatto tipico delle sue terre e concesse al giovane la mano della figlia.
Da quel momento, i fagioli di Levada divennero, grazie al re, famosi ed ambiti in tutto il mondo.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La collezione di barattoli di fagioli

La collezione di barattoli di fagioli

Qualche anno fa, un’anziana signora prese da uno scaffale del supermercato un barattolo di fagioli con cipolla di una nota marca e subito dopo iniziò a piangere.

La cosa non sfuggì al commesso che dopo averla immediatamente raggiunta per soccorrerla, le disse:

“Signora, è solo un barattolo di fagioli con cipolla e non ha mai fatto piangere nessuno, semmai ridere, dato che, come vede in etichetta, riporta il volto di mister Bean, noto comico inglese!”
La donna rispose:
“Le cipolle no, ma i fagioli sì, perché mi fanno ricordare mio marito che non c’è più!

Bastavano loro per renderlo felice.

Ora colleziono barattoli di fagioli di ogni marca per lui, perché ho sentito dire che anche gli angeli mangiano fagioli e mio marito lo era di nome (Angelo) e di fatto!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

L’aquila ed il falco

L’aquila e il falco

Racconta una leggenda sioux che, una volta, Toro Bravo e Nube Azzurra giunsero tenendosi per mano alla tenda del vecchio stregone della tribù e gli chiesero:
“Noi ci amiamo e ci vogliamo sposare.
Ma ci amiamo tanto che vogliamo un consiglio che ci garantisca di restare per sempre uniti, che ci assicuri di restare l’uno accanto all’altra fino alla morte.
Che cosa possiamo fare?”
Ed il vecchio, emozionato vedendoli così giovani e così innamorati, così ansiosi di una parola bella, disse:

“Fate ciò che dev’essere fatto.

Tu, Nube Azzurra, devi scalare il monte al nord del villaggio.
Solo con una rete, devi prendere il falco più forte e portarlo qui vivo, il terzo giorno dopo la luna nuova.
E tu, Toro Bravo, devi scalare la montagna del tuono; in cima troverai la più forte di tutte le aquile.
Solo con una rete prenderla e portarla a me, viva!”
I giovani si abbracciarono teneramente e poi partirono per compiere la missione.
Il giorno stabilito, davanti alla stregone, i due attendevano con i loro uccelli.
Il vecchio li tolse dal sacco e costatò che erano veramente begli esemplari degli animali richiesti.

“E adesso, che dobbiamo fare?” chiesero i giovani.

“Prendete gli uccelli e legateli fra loro per una zampa con questi lacci di cuoio.
Quando saranno legati, lasciateli andare perché volino liberi.”
Fecero quanto era stato ordinato e liberarono gli uccelli.
L’aquila ed il falco tentarono di volare, ma riuscirono solo a fare piccoli balzi sul terreno.
Dopo un po’, irritati per l’impossibilità di volare, gli uccelli cominciarono ad aggredirsi l’un altro beccandosi fino a ferirsi.
Allora, il vecchio disse:
“Non dimenticate mai quello che state vedendo.

Il mio consiglio è questo:

voi siete come l’aquila e il falco.
Se vi terrete legati l’uno all’altro, fosse pure per amore, non solo vivrete facendovi del male, ma, prima o poi, comincerete a ferirvi a vicenda.
Se volete che l’amore fra voi duri a lungo, volate assieme, ma non legati con l’impossibilità di essere voi stessi.”

Leggenda Sioux.