La ragazza ed il parasole

La ragazza ed il parasole

Min-Hi era una graziosa e simpatica cinesina di dodici anni che viveva con la mamma e il papà in un villaggio al margine della foresta.
Il compleanno di Min-Hi coincideva con la stagione calda, quando il sole scottava e la gente andava in cerca di ombra.
Perciò, per il suo compleanno, ricevette in regalo un bel parasole.
“Posso andare a fare una passeggiata col mio nuovo parasole?” chiese alla mamma.
“Va bene, stai attenta però, e torna presto!” rispose la mamma.
Min-Hi stava camminando sul ciglio di una risaia, quando vide un enorme gorilla dondolarsi su un albero con le braccia penzoloni.
“Povera me!
Non mi resta che nascondermi dietro il mio parasole e aspettare che mi acchiappi!” pensò Min-Hi.
E, tremando tutta, si rincantucciò dietro il parasole.

Ma non accadde niente… proprio niente!

Quando fece capolino, tutto era tranquillo e non c’era traccia del gorilla!
Non aveva fatto molta strada, quando intravide una grande ombra aggirarsi minacciosa fra i cespugli.
Era un’enorme tigre che puntava silenziosamente verso di lei.
“Oh, povera me!
Non mi resta che nascondermi dietro il mio parasole e aspettare che mi acchiappi!” pensò sgomenta.
E, tremando tutta, si accoccolò dietro il parasole.
Ma non successe nulla… decisamente nulla.
Quando fece capolino, tutto era tranquillo e non c’era traccia di tigre.
Non era andata molto più lontano quando un’ombra nera sulla sua testa la fece guardare in alto.
Su di lei stava calando un grosso uccello dalle enormi ali spiegate, con un becco adunco e gli unghioni affilati.

“Oh, povera me!

Non mi resta che nascondermi sotto il mio parasole e aspettare che mi acchiappi!” pensò terrorizzata.
E tremando tutta si fece piccola sotto il parasole.
Ma non successe nulla… assolutamente nulla.
Quando fece capolino, tutto era tranquillo e non c’era traccia dell’aquila.
Tornata a casa, Min-Hi raccontò alla mamma le sue tremende avventure.
“Ma hai guardato cosa c’è sul tuo parasole?” le chiese la mamma.
Min-Hi lo aprì e fece un salto per lo spavento!
Dipinto sopra il parasole c’era un drago coloratissimo e terrificante, con enormi artigli e narici fiammeggianti.
“Hai visto?” le disse la mamma, “Contro il potentissimo drago non c’è gorilla, tigre o rapace che tenga!”

Ed aggiunse:

“Il tuo parasole, farai bene a portarlo sempre con te!”
E, da quel giorno, Min-Hi non se lo fece certo dire due volte.

Brano tratto dal libro “Altre storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

San Bruno e le rane

San Bruno e le rane

C’era una volta un santo, tanto tanto santo, magro magro, allampanato e sempre vestito con un ampio saio bianco.
Si chiamava Bruno, ma era così buono che tutti lo chiamavano “San” Bruno.
Non mangiava mai carne né dolci e si nutriva in pratica di insalata, senza olio.
La cosa che piaceva di più a san Bruno era parlare con Dio e perciò passava il giorno e gran parte della notte in preghiera.
San Bruno si era costruito una capanna in una vallata selvaggia tappezzata di boschi e cespugli arruffati.

E, ahimè, anche di qualche stagno.

E gli stagni, come si sa, sono popolati di rane garrule e chiacchierone.
Così, quando san Bruno si immergeva nella preghiera appassionata della sera, attraverso le finestre arrivava il “cra-cra” incessante e ossessionante delle rane.
Tanto più che al gracidio si aggiungevano i ronzii di mosche e zanzare, il rumore dei becchi degli aironi, il frusciare delle foglie.
San Bruno cercava di concentrarsi nella preghiera e stringeva con feroce intensità il suo crocefisso, ma le rane instancabili si davano il cambio e non smettevano mai.
San Bruno si metteva a recitare le preghiere a voce altissima, gridando con tutte le sue forze per vincere l’irrefrenabile gracidio delle rane, ma non serviva a niente.
Sempre più irritato, allora, si affacciò alla finestra e gridò:
“Silenzio!
Sto pregando!”
Era un santo e gli ordini dei santi sono sempre ascoltati.
Immediatamente, i boschi e gli stagni piombarono nel silenzio, come un fuoco che si spegne, e la capanna di san Bruno fu avvolta da un silenzio profondo e ovattato.

“Oh, finalmente!” sospirò san Bruno.

Rospi e rane non facevano più il minimo rumore, gli aironi guardavano la finestra della capanna con il becco chiuso, le mosche e le zanzare non osavano decollare dalle foglie su cui si erano posate e perfino il venticello della sera taceva.
Soddisfatto, il santo riprese la sua preghiera.
Ma non era contento, si sentiva a disagio.
E chiara, all’interno della sua preghiera, sentì una voce che diceva:
“E se a Dio il canto delle rane piacesse più delle tue preghiere?”
Sorpreso e turbato, il santo rispose:
“Ma come può Dio trovare piacevole il gracidare delle rane o il ronzio delle zanzare?
O qualsiasi altro rumore?
E poi, perché mai Dio ha creato il rumore?”
In preda a questi interrogativi, san Bruno si affacciò di nuovo alla finestra e, pentito, disse:

“Vabbé! Fate come volete!”

Tutto ricominciò come prima.
Insetti e rane riempirono di un ritmo dolce il silenzio della notte.
Le orecchie di san Bruno non opposero più resistenza e quello che prima gli pareva un ignobile fracasso.
Gli sembrò improvvisamente una musica incantata e stupenda che avvolgeva tutto.
Pieno di stupore, il santo sentì che il suo cuore batteva all’unisono con l’universo.
E che il bosco, il cielo, i cespugli, il vento e le creature piccole e grandi della terra erano una meravigliosa preghiera.
Da quella sera, San Bruno divenne famoso come “Il santo che prega con le rane!”

Brano senza Autore

Fonte: Bollettino Salesiano, biesseonline.

La quercia e la rosa

La quercia e la rosa

In un giardino vivevano, in mezzi ad altri alberi, cespugli, fiori e profumate aiuole, una quercia ed una rosa.
La quercia era un albero maestoso e i suoi rami poderosi sembravano una corona,

che si allargava possessiva sulle umili piante del giardino.

La rosa era uno stelo con poche foglie verdi e molte acuminate spine scure.
Aveva un’aria anemica e sembrava sempre sul punto di appassire.
La quercia prosperosa si divertiva ad umiliarla:

“Sei solo un patetico ramoscello spinoso!”

Quando soffiava il vento, il grande albero aveva imparato a far vibrare le sue innumerevoli foglie per modulare suoni, sibili vagamente esotici e graziose armonie.
Tutto questo riempiva d’orgoglio la quercia.
“Io sono un’orchestra!” tuonava, “Riempio il cielo di sublimi sinfonie!
Non come questo squallido stecco che non sa far nulla!

A che serve una rosa?”

Ma quando venne maggio, la rosa fiorì.
E tutto il giardino scoppiò in un lungo, sincero e caloroso applauso.

Brano senza Autore

La leggenda della brocca

La leggenda della brocca

Molto, molto tempo fa, ci fu una grande siccità sulla terra.
Tutti i laghi, le sorgenti, i torrenti e i pozzi si erano prosciugati.
Gli alberi, i cespugli e l’erba erano seccati.
Persone e animali morivano di sete.
In un piccolo villaggio, una bambina guardava angosciata la mamma a letto divorata dalla febbre, con le labbra aride e screpolate dall’arsura.

Anche se era già buio,

si coprì con lo scialle della mamma e uscì con una brocca di terracotta in mano per tentare di trovare un po’ d’acqua.
Camminò in lungo e in largo, ma non riuscì a trovare neanche una goccia d’acqua da nessuna parte, finché sfinita si sdraiò sull’erba di un prato e si addormentò.
Quando si svegliò e riprese la brocca, si accorse che dentro aveva un po’ d’acqua.
Era un’acqua molto fresca e limpida.
La bambina era felice ed era tentata di bere, ma le è venne in mente che poi non sarebbe stata sufficiente per sua madre, e corse a casa con la brocca stretta al petto.
Aveva così tanta fretta che non si accorse nemmeno di un cagnolino davanti a casa sua, inciampò e lasciò cadere la brocca.
La bambina si rialzò con le lacrime agli occhi.
La bambina pensava di aver rovesciato l’acqua.
Invece la brocca era caduta in piedi e non aveva perso neanche una goccia della preziosa acqua.

Il cane uggiolava tristemente.

La bambina verso un po’ d’acqua nella sua mano a coppa e la mise sotto il muso del cane che la leccò avidamente, riprendendo a scodinzolare.
La bambina riprese la brocca e con gran meraviglia vide che non era più di terracotta, ma di argento.
Corse a casa e la diede alla mamma.
“Mamma, mamma!
Ho trovato dell’acqua!”
La madre però le disse:
“Devo morire comunque, è meglio che beva tu!” e restituì la brocca alla figlia.
In quel momento, la brocca d’argento si trasformò in una brocca d’oro.
La bambina aveva una sete terribile e stava per accostare la brocca alle labbra quando bussarono alla porta.

La bambina andò ad aprire.

Sulla soglia c’era un povero vagabondo che mormorò:
“Un po’ d’acqua, vi prego, per amor di Dio!”
La bambina ingoiò la saliva e porse la brocca al vagabondo.
Improvvisamente, sette diamanti splendenti apparvero sulla brocca, e da ognuno di essi scaturì un grande flusso di acqua limpida e fresca.

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Siamo tutti responsabili di un fiorellino

Siamo tutti responsabili di un fiorellino

Una tremenda siccità aveva colpito la regione.
L’erba era prima ingiallita e poi appassita.
Si erano inariditi i cespugli e gli alberi più fragili.
Neppure una goccia d’acqua pioveva dal cielo e le mattine si presentavano alla terra senza la lieve frescura della rugiada.

Migliaia di animali, piccoli e grandi, stavano morendo.

Pochissimi avevano la forza per sfuggire al deserto che ingoiava ogni cosa.
La siccità si faceva ogni giorno più dura.
Persino i forti e vecchi alberi, che affondavano le radici nella profondità della terra, persero le foglie.
Tutte le fontane e le sorgenti erano esaurite.
Ruscelli e fiumi erano inariditi.
Solo un piccolo fiore era rimasto in vita, poiché una piccolissima sorgente dava un paio di gocce d’acqua.

Ma la sorgente disperava:

“Tutto è arido e assetato e muore.
E io non posso farci nulla.
Che senso hanno le mie due gocce d’acqua?”
Lì vicino c’era un vecchio e robusto albero.

Udì il lamento e, prima di morire, disse alla sorgente:

“Nessuno si aspetta da te che tu faccia rinverdire tutto il deserto.
Il tuo compito è tenere in vita quel fiorellino.
Niente più!”
Siamo tutti responsabili di un fiorellino.
Ma ce ne dimentichiamo spesso per lamentarci di tutto quello che non riusciamo a fare.

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L’uomo e l’agnellino

L’uomo e l’agnellino

In una notte buia e profonda un uomo stava per morire.
Era la Vigilia di Natale.
L’uomo era diretto a casa.
Per tutto l’anno aveva lavorato nei boschi, sulle montagne, lontano dal suo paese.
Aveva lavorato disperatamente, senza sosta, ma anche così era riuscito a mettere da parte ben poco denaro.
Aveva deciso ugualmente di tornare a casa.
Ma proprio mentre usciva dalla foresta, era scoppiato uno spaventoso temporale.
La casa dell’uomo era ancora lontana chilometri e chilometri.
L’uomo era sotto una quercia quando un fulmine squarciò la pianta.
Dei rami gli caddero addosso.

Fuggì via.

Perdeva sangue da un braccio e da una gamba.
Fuggiva sotto la grandine, coprendosi appena la testa con le mani.
Via, via, lontano dalla foresta da cui era sbucato il fulmine.
Dopo molto correre, stramazzò ai piedi di un gradone di roccia.
La parete si propendeva minacciosa, verticale.
Steso al suolo, fradicio di pioggia, battuto dalla grandine e dal freddo, perse ogni speranza.
Il gelo che lo attanagliava lo persuase a lasciarsi morire.
Si abbandonò quasi con sollievo alla morte.
Lo prese il sonno:
il conforto, pensò, dell’ultimo istante.
Ma improvviso, cristallino, risuonò un belato.
Il belato risvegliò l’uomo da quel sonno di morte.
Era un grido nella notte.
Pareva ora prossimo, ora lontano.
Un agnellino preso dalla furia della bufera?
L’uomo si scosse.
Lui voleva morire, ma l’agnellino?

Di nuovo l’agnellino belò.

All’uomo morente mancavano le forze e la voglia di vivere.
Però l’agnellino aveva bisogno di lui.
L’uomo sentì quel belato come un’invocazione.
E ritrovò la forza di vincere la stanchezza e la paura.
Avrebbe salvato la bestiola e sarebbe tornato a morire:
questo pensiero gli dette vigore.
Si mise in ascolto.
L’agnello riprese a belare.
L’uomo fu diretto dal belato.
Ogni tanto si fermava.
La grandine gli feriva il volto, coprendo la vocina flebile.
La riudì.
Vicino.
Dietro a dei cespugli.
Girò in mezzo a degli sterpi.
L’agnello non c’era.
Però l’udì, come uscisse dal gradone di roccia.
Tra la grandine vide un buco nella roccia.
Il belato proveniva di là.
Barcollò e si gettò dentro la grotta dove l’agnellino giaceva ferito in una pozza d’acqua.

Lo sollevò.

Lo portò più dentro al cunicolo, all’asciutto.
Lo tenne stretto al petto per riscaldarlo e sentì che l’agnello scaldava lui, gli ridava vita.
Stettero la notte avvinti dal caldo, in compagnia.
Il mattino, un sole morbido entrò nella grotta e svegliò l’uomo e l’agnello.
L’uomo accarezzò l’agnello.
Sentì la piccola vita vibrare di fame.
Anche lui aveva fame.
E soprattutto una infinita voglia di vivere.

Brano di Bruno Ferrero

La famiglia di rospi

La famiglia di rospi

In un angolo del grande parco, in una macchia di alberi e cespugli carichi di fiori e bacche colorate, c’era un piccolo stagno, coperto di ninfee bianche e rosate.
Nello stagno viveva una famiglia di rospi.
Papà, mamma e un vispo piccoletto.

Era una famiglia felice.

“Sei il bambino più bello del mondo.” sussurrava mamma rospo al suo piccolo, che gorgogliava soddisfatto, e poi lo copriva di baci.
“Tu sei la più buona mamma del mondo.” le rispondeva il piccolo e poi correva a tuffarsi nella fresca acqua dello stagno.
Papà rospo guardava con orgoglio la sua famiglia, i bordi fioriti dello stagno, l’acqua scura e fresca e diceva:
“Viviamo nel luogo più incantevole dell’universo.”
Un giorno, la vita tranquilla della famigliola fu messa a soqquadro da una serie di strilli.
Provenivano da un gruppo di ragazzine che passeggiavano sul sentiero che fiancheggiava lo stagno:

“Iiih! Che puzza!”

“Sembra un letamaio… Andiamo via di qui.”
“Che acqua putrida!”
“Ehi! Guarda quegli orribili rospi!”“Che schifo!”
“E quello piccolo, tutto bitorzoluto, che creature orrende!”

Papà e mamma rospo si rincantucciarono nel fango, pieni di vergogna.

Il piccolo si nascose sotto una foglia di ninfea, avvilito e mortificato.
Nello stagno la felicità era finita per sempre.

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Sofia e la fata


Sofia e la fata

Era una bellissima mattina d’inizio autunno.
La piccola Sofia decise di andare a fare una passeggiata nel bosco per cercare le castagne.
La sua mamma le preparò uno spuntino nel caso le venisse fame e le raccomandò di prestare attenzione.
S’inoltrò nel bosco alla ricerca delle castagne.
Ce n’erano proprio tante!
Avrebbe riempito il suo cestino molto presto!
Ad un certo punto, vide una distesa colorata di giallo oro:

non erano le foglie cadute dagli alberi, ma erano cespugli d’erica.

Si ricordò allora di, quando la nonna le raccontava che per incontrare una fata bastava sdraiarsi vicino uno di questi cespugli.
Decise che poteva essere il momento buono per riposarsi un po’ e fare lo spuntino vicino quella distesa dorata:
forse sarebbe anche riuscita ad incontrare una fata, come aveva sempre desiderato!
Iniziò a mangiare, ma della fata nessuna traccia.
Finita la merenda, si alzò un po’ delusa per fa ritorno a casa.
Prima di andar via, prese con se un ramo dorato per regalarlo alla sua mamma.
Staccato il rametto più fiorito, all’improvviso vide che tutto intorno a lei diventava grandissimo, anche il rametto che, infatti, le cadde dalle mani sempre più piccole.

Cosa era mai successo?

La piccola Sofia era diventata uno gnomo!
Le sue orecchie erano a punta, come il cappellino che aveva sulla sua testa.
E adesso?
Come poteva tornare a casa così?
Si mise a piangere disperatamente: pensava alla sua mamma e a quanto avrebbe sofferto nel non vedendola rientrare a casa.
Mentre si disperava, si alzo un venticello che sollevò da terra una nuvola di foglie.
Come il vento si placò, apparve agli occhi di Sofia una fata tutta vestita d’oro, che le disse:
“Ecco qui un altro gnomo da condurre nel mio castello.”
“Ti prego, non portami per favore!” disse Sofia in lacrime “Non so cosa sia successo e perché sono diventata uno gnomo.

Io volevo solo conoscere una fata!

Fammi tornare com’ero, per favore!
Voglio tornare dalla mia mamma!”
La fata raccolse il piccolo gnomo in lacrime e le spiegò perché si era trasformata:
l’erica era la pianta delle fate, e quindi era proibito staccarne un ramo e chiunque l’avesse fatto avrebbe mancato di rispetto alle fate ed era trasformato in uno gnomo.
“Io non lo sapevo!” disse Sofia piagnucolando.
La fata la guardò, sorrise e soffiò dolcemente sullo gnomo:
“Le tue lacrime sono sincere e pure, spezzerò l’incantesimo, ma prometti che d’ora in poi rispetterai non solo l’erica ma tutte le piante del bosco.”
Sofia annuì e tornò bimba.
Prese il suo cestino di castagne e ne regalò per gratitudine un po’ alla fata, poi corse verso casa, ansiosa di riabbracciare la sua mamma.

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