Non aver fretta e non aver paura.

Scegli quello che ti sembra giusto ma, ogni tanto, quando puoi, anche quello che ti fa felice.
Se non ti vengono le parole, lascia che siano i tuoi occhi a parlare.
E impara a leggere gli occhi degli altri, impara a capire quel che non ti dicono.
Non lasciarti fermare dalla paura per fare le cose che devono essere fatte.

Scappa quando devi, fermati quando puoi:

c’è un momento per seminare e un momento per raccogliere:
impara a distinguerli, impara ad assaporare entrambi.
Ascolta il tuo corpo e rispettalo: riposati quando te lo chiede, mangia quando hai fame e ogni tanto ubriacati:
di vino, di amore o di qualche sogno.
Ma soprattutto cerca di sorridere sempre di più.

Citazione di Catherine Black.

La paziente e l’infermiere

La paziente e l’infermiere

La scrittrice Antonia Arslan ricorda così quello che successe quando, dopo un periodo di coma farmacologico, riprese coscienza.

“Io avevo sete, tanta sete!
Ogni tanto provavo a farmi capire con gli occhi, perché non riuscivo a muovere le mani, sentendo la gola ostruita da qualcosa di viscido ma pesante come un sasso.
“Ho sete! Voglio acqua!” cercavo di dire e mi raschiavo la gola per parlare, ma non riuscivo a tirare fuori la voce.
Tentavo e ritentavo continuamente, pensando che la voce uscisse ma poi non la sentivo:
neanche un soffio.
Non c’era nessuno intorno:
il buio si faceva, di momento in momento, più intenso e la sete ancora più acuta!
Riemergevo da un sonno opprimente ma non potevo chiamare, solo aspettare, quando fui colpita da un’acuta nostalgia:
una voglia di piangere sulla mia miseria, sulla mia solitudine, sulla mia sete.

Fu in quel momento che tornarono in due:

l’infermiera e un giovane, poco più di un ragazzo.
Ogni tanto vengono in coppia:
quando ti devono sollevare e cambiare!
Mi sprimacciarono il cuscino, mi rassettarono il lenzuolo, controllarono che i piedi fossero coperti e che le lucette sul quadro dei controlli fossero a posto.
Poi l’infermiera andò ad aggiornare il diario!
Mentre facevano queste cose, io li seguivo con gli occhi ansiosa, cercando di parlargli, di farmi capire, di fargli capire che avevo bisogno di acqua.
Non sapevo ancora, allora, di avere un tubo in gola.
Stavano per andarsene e l’infermiera uscì per prima.
Ma, come se avesse sentito l’intensità disperata del mio sguardo, il ragazzo si voltò lentamente, mi guardò con attenzione e sorrise!
Poi disse con semplicità:
“Cosa stai pensando, cara:
forse hai bisogno di un’acquata?”

E, come fra sé, si rispose:

“Certo che ne ha bisogno!” e uscì svelto per ritornare, dopo un momento, con larghi teli bianchi e un catino d’acqua, appena tiepida.
Cominciò a bagnare i teli e me li appoggiava sul corpo, dappertutto con meticolosa attenzione, rimettendoli nell’acqua ogni tanto.
Tamponandomi, con un angolo di tela, la fronte e le labbra.
Un senso di frescura infinita mi si diffondeva per le membra e perfino l’arsura in gola si attenuava.
Il buio sembrava meno denso!
Per mezz’ora ci parlammo con gli occhi.
Ogni tanto mi guardava, scuoteva la testa, e diceva:
“Ancora un po’ vero?
Ti fa star meglio, si vede!”
Quando lo vennero a chiamare rispose:
“Non la posso ancora lasciare!” e continuò a darmi acqua sul corpo.
Così mi addormentai di nuovo e lui se ne andò, piano piano, silenziosamente:
per qualche ora dormii tranquilla.

Speravo di rivederlo il giorno dopo:

speravo che mi facesse un’altra acquata, volevo dirgli ancora grazie con gli occhi.
Ma non lo rividi, né il giorno dopo né quelli seguenti!
E quando, finalmente, mi tolsero il tubo e potevo parlare cominciai a chiedere di lui, ma nessuno lo conosceva, né le infermiere né i dottori:
e mi accorsi che tutti loro pensavano che avessi avuto un’allucinazione;
che m’immaginavo di ricordare qualche cosa che, invece, era stata solo un desiderio, una visione interiore dovuta alla troppa sete, ai tanti farmaci, chissà…
Allora smisi di chiedere!
Ma, molti giorni dopo, entrò proprio lui, verso sera, nella mia stanza portando un bicchiere.
Lo riconobbi immediatamente, ma lui no!
Io cominciai a parlargli dell’acquata, sorridendo nervosa, accavallando le parole:
e, finalmente, si ricordò di me!
Ma non pensava di aver fatto nulla di speciale.
Lui, quella sera, aveva fatto un turno per caso, una sostituzione.
Io insistetti, gli dissi quanto avesse significato per me quel suo darmi l’acqua, bagnarmi tutta contro i fantasmi notturni.
E, solo allora, arrossì tutto in viso, come un ragazzino!”

Brano senza Autore

Beniamino

Beniamino

Beniamino era un bambino delizioso.
Quando sgambettava nella culla, in mezzo alle lenzuoline e le coperte di raso celesti, sembrava proprio un angioletto.
La mamma, il papà, le nonne e le zie non sì stancavano di vezzeggiarlo e di ripetergli tante parole dolci e carine.
La nonna materna diceva:
“Guardate che piccole graziose orecchie che ha, e come ci sentono bene!
Certamente diventerà un grande musicista!”
La nonna paterna, per non essere da meno, incalzava:
“Osservate piuttosto la sua adorabile boccuccia e come dice bene ‘nghée, ‘nghée.
Sicuramente diventerà un grande poeta!”

La zia Clotilde cinguettava:

“Macché, macché!
Sono i piedini che devono essere ammirati:
sarà un grandissimo ballerino, ve lo dico io che me ne intendo!”
A sentire tutti questi complimenti, i genitori di Beniamino esprimevano tanta soddisfazione, con il cuore gonfio d’orgoglio paterno e materno.
Beniamino cresceva un po’ capriccioso, ma papà, mamma, nonne e zie si consolavano facilmente dicendo:
“Sono tutti così, da piccoli!”
Così arrivò, anche per Beniamino, il momento di varcare, con aria baldanzosa e lo zainetto nuovo, il portone della scuola elementare.
I primi tempi furono felici.
Beniamino si comportava come tutti gli altri:
non era più gentile né più maleducato dei suoi compagni.
Ma con il passare del tempo, la situazione peggiorò.
Beniamino cominciò a trasformarsi.
Piano piano, senza che nessuno se ne accorgesse, divenne cattivo e prepotente.
Si divertiva a far cadere dalla giostra i bambini più piccoli; giocando a calcio nel cortile scalciava più gli avversari che il pallone; trovava sempre qualcuno con cui litigare.

Faceva la “spia” per farsi bello con la maestra.

“Dov’è finito il mio bell’angioletto?” si disperava la mamma di Beniamino, davanti alle note che i maestri gli scrivevano sul diario.
“Uffa!” sbuffava Beniamino, “Ce l’hanno tutti con me!”
Prometteva di migliorare, ma il giorno dopo se n’era già dimenticato.
Alla Scuola Media le cose non migliorarono.
Beniamino diventò un attaccabrighe impertinente.
Imparò a tempo di record tutte le peggiori parolacce e non si faceva certo pregare a ripeterle, specialmente sull’autobus, tanto per sembrare “più grande”.
Le mamme del quartiere minacciavano i figli:
“Guai a te se ti vedo con Beniamino:
è un ragazzaccio!”
Se qualcuno raccontava barzellette sporche, Beniamino era il primo ad ascoltare.
Se c’era da prendere in giro o canzonare qualcuno, Beniamino era del numero.

Aveva pochi amici, ma tutti della sua risma.

La loro impresa preferita era riuscire a rubacchiare qualcosa ai supermercati e poi scappare.
Anche la zia Clotilde, che pure gli voleva bene, si beccò una rispostaccia così volgare, che per il dispiacere fu costretta a mettersi a letto.
“Ma se fanno tutti così!” continuava a ripetere Beniamino, quando qualcuno lo rimproverava.
La cosa strana cominciò quando compì i quattordici anni.
E questa volta Beniamino cominciò a preoccuparsi per davvero.
Durante l’adolescenza il corpo cambia, ma lo specchio rivelava a Beniamino che in lui avvenivano dei cambiamenti inconsueti.
Le sue orecchie si allungavano sempre di più, appuntite verso l’alto, e prendevano una strana grigia pelosità.
I suoi piedi gli prudevano spesso e soprattutto non sopportavano più né calze né scarpe.
Prendevano anch’essi uno strano colorito grigiastro, finché un giorno si trasformarono in due zoccoli d’asino
Beniamino li guardò inorridito.
Ma invece di dire:
“Che cosa mi succede?” si mise a ragliare come un asino, “Ihah! Ihah!”
A quel roboante raglio, tutti i suoi parenti accorsero.
Il povero Beniamino, con le lacrime agli occhi, non sapeva spiegarsi.
“È nell’età del cambiamento di voce.” disse zia Clotilde, ma non ci credeva neppure lei.

Una cosa era certa.

Con quelle orecchie e quegli zoccoli da asino, per non parlare della voce, Beniamino non poteva tornare a scuola.
“Dobbiamo cercare un medico, il più grande che c’è.
Ti saprà certamente guarire!” disse il papà.
Cercarono sulle Pagine Gialle, ma non trovarono nessun medico specializzato nella cura di ragazzi che diventano asini.
Così un mattino freddo e nebbioso, Beniamino lasciò i suoi genitori e la sua casa.
Andava per il mondo a cercare qualcuno che lo guarisse da quella strana malattia che fa diventare animali gli uomini.
Beniamino attraversò il mondo da nord a sud e poi da est a ovest.
Interrogò dottori, stregoni, sciamani, guaritori di tutti i tipi.
Tutti erano molto gentili con lui, ma poi gli dicevano che le sue orecchie pelose erano molto utili contro il freddo, che i suoi zoccoli gli facevano risparmiare le scarpe e che la sua voce era comoda quando la nebbia era fitta fitta.
Passarono sette anni.
Beniamino ora conosceva le lacrime, apprezzava la gentilezza, sapeva quanto ferivano i rifiuti e le villanie.
Senza accorgersene, era diventato un altro.
Ma il suo problema rimaneva.
Stava per rassegnarsi al suo triste destino, quando giunse alla grande villa dei marchesi Bellaspina.
Tutti quelli che vedeva però erano in lacrime.
Piangevano il marchese e la marchesa, singhiozzavano le cameriere, gemeva il maggiordomo, uggiolavano i cani, si lamentavano i gatti.
Uno spettacolo da strappare il cuore.
In un profluvio di lacrimoni, la marchesa spiegò a Beniamino il motivo di tanto dolore:

“Ahinoi!

La nostra bella Rosalia, nostra figlia, è stata rapita.
L’ha portata via il perfido Battistone e l’ha nascosta sulla Montagna del Diavolo, dove nessuno osa salire!”
Beniamino si commosse:
“Non piangete più.
Andrò sulla montagna e la troverò!”
La Montagna del Diavolo era aspra, ma Beniamino era più che mai deciso ad affrontare il bandito.
Tendeva le sue lunghe orecchie d’asino per sentire anche il minimo rumore.
Passando davanti all’imboccatura di una grotta nera e paurosa, percepì un flebile lamento.
Coraggiosamente s’inoltrò nel nero imbuto dove svolazzavano i pipistrelli.
Ora sapeva dove si trovava Rosalia.
Il bandito aveva disseminato sul terreno della grotta taglientissimi pezzi di vetro e chiodi affilati, ma, con i suoi zoccoli d’asino, Beniamino poteva correre, mentre con la sua voce roboante gridava continuamente:
“Ihah! Ihah!”
Gridava con tutte le sue forze, sperando che Rosalia sentisse e gli rispondesse per guidarlo nei mille cunicoli della grande grotta nera.
Tendeva le sue orecchie a destra e a sinistra, finché sentì chiaramente un singhiozzo.
Sfregò un fiammifero su una pietra e vide Rosalia legata a un palo.
Com’era bella!
Beniamino la slegò, poi fece un inchino e mormorò:

“Buongiorno, madamigella, io mi chiamo Beniamino!”

In quel momento si accorse che la sua voce era una bella voce baritonale, perfettamente umana.
Aveva talmente gridato che la sua voce d’asino si era rotta.
Aveva talmente ascoltato che le sue orecchie d’asino erano cadute come foglie morte.
I suoi zoccoli si erano talmente consumati sui pezzi di vetro e sui chiodi che erano spariti.
Al loro posto c’erano due bei piedoni umani.
Al colmo della felicità, ma anche per paura di un improvviso ritorno di Battistone, Beniamino prese in braccio la bella Rosalia e fuggì più veloce che poteva, correndo con i nuovi piedi sul sentiero spianato dai suoi zoccoli.
Quando arrivò a Bellaspina tutti lo abbracciarono e baciarono.
Anche Rosalia naturalmente che, per non essere da meno, lo sposò.
Ebbero tre figli.
Il primo fu ballerino, il secondo musicista e il terzo poeta.
Perché Beniamino e Rosalia vegliarono attentamente che a nessuno di loro crescessero orecchie, zoccoli o voce d’asino.

Brano di Bruno Ferrero

Che cos’è il virtuale?

Che cos’è il virtuale?

Un giorno entrai di fretta e molto affamato in un ristorante.
Scelsi un tavolo lontano da tutti, poiché volevo approfittare dei pochi minuti che avevo a disposizione quel giorno, per mangiare e per continuare a programmare un sistema che stavo creando.
Avevo, inoltre, voglia di progettare le mie vacanze che, ormai, da molto tempo, non sapevo cosa fossero…
Ordinai del salmone, insalata e succo d’arancia, cercando di conciliare la mia fame con la mia dieta.
Aprì il mio notebook e nello stesso tempo mi spaventai per quella voce bassa dietro di me:
“Signore, mi dà qualche soldo?”

“Non ne ho, piccolo!” gli risposi.

“Solo qualche spicciolo per un pezzo di pane.” insistette lui.
“Va bene, te ne compro uno io!” esclamai.
Tanto per cambiare la mia casella di posta elettronica era piena di e-mail.
Rimasi un po’ distratto a leggere alcune poesie, bei messaggi, a ridere di quei banali scherzi.
Ahhh! Quella musica mi portava a Londra, ricordando un bellissimo tempo passato.
“Signore, chieda che venga messo un po’ di burro e formaggio nel mio panino!” continuò il bambino.
Lì mi accorsi che era ancora al mio fianco.
“Ok! Ma dopo mi lasci lavorare, sono molto occupato, d’accordo?” domandai.
Arrivò il mio pranzo e con esso la realtà.
Feci la richiesta del piccolo e il cameriere mi chiese se avessi voluto che il bambino fosse allontanato.
La mia coscienza mi impedì di prendere una decisione, ed alla fine risposi:
“No, va tutto bene!
Lo lasci pure stare, gli porti il suo panino e qualcos’altro di decente da mangiare.”
Allora il bambino si sedette di fronte a me e mi chiese:

“Signore, che sta facendo?”

“Leggo le e-mail!” risposi.
“E che sono le e-mail?” mi domandò.
“Sono messaggi elettronici inviati dalle persone via internet.”
Sapevo che non avrebbe capito nulla, e per evitare ulteriori domande dissi:
“È come se fosse una lettera ma si invia tramite internet.”
“Signore, lei ha internet?” mi chiese allora.
“Si ce l’ho, è essenziale nel mondo di oggi!” risposi.
“E cos’è Internet, signore?” proseguì il bambino.
“È un posto nel computer dove possiamo vedere e ascoltare molte cose, notizie, musica, conoscere gente, leggere, scrivere, sognare, lavorare, imparare.
Ha tutto, ma in un mondo virtuale.” gli spiegai.

“E cos’è il virtuale, signore?” domandò.

Decisi di dargli una spiegazione molto semplice, con la consapevolezza che capirà ben poco, ma così mi lascerà in pace e mi farà pranzare liberamente…
“Virtuale è un posto che noi immaginiamo, qualcosa che non possiamo toccare, raggiungere.
Un luogo in cui creiamo un sacco di cose che ci piacerebbe fare.
Creiamo le nostre fantasie, trasformiamo il mondo quasi in quello che vorremmo che fosse.” gli dissi.
“Che bello, mi piace!” esclamò il piccolo.
“Piccolo, hai capito cos’è il virtuale?” chiesi, allora, io.
“Si signore, vivo anche io in quel mondo virtuale.” replicò il bimbo.
“E tu hai il computer?” gli domandai

“No, ma anche il mio mondo è di quel tipo lì… virtuale!” mi disse, e poi continuò:

“Mia madre passa fuori l’intera giornata, arriva molto tardi e spesso non la vedo neanche.
Io bado a mio fratello piccolo che piange sempre perché ha fame, così io gli do un po’ d’acqua e lui pensa che sia la minestra.
Mia sorella grande esce tutto il giorno, dice che va a vendere il proprio corpo, ma io non capisco, visto che poi ritorna sempre a casa con il suo corpo.
Mio padre è in carcere da molto tempo.
Ed io immagino sempre tutta la famiglia insieme a casa, molto cibo, molti giocattoli a Natale, ed io che vado a scuola per diventare un giorno un grande medico.
Questo non è virtuale, signore?”
Chiusi il mio notebook, non prima che le mie lacrime cadessero sulla tastiera.
Aspettai che il bambino finisse letteralmente di “divorare” il suo piatto, pagai il conto e lasciai il resto al piccolo, che mi ripagò con uno dei più bei sorrisi che io abbia mai ricevuto in vita mia, dicendomi:
“Grazie signore, lei è un maestro!”
Lì, in quel momento, ebbi la più grande dimostrazione di virtualismo insensato in cui viviamo ogni giorno, circondati da una vera cruda realtà e spesso facendo finta di non percepirla!

Brano senza Autore

Gli alpinisti

Gli alpinisti

Due alpinisti si arrampicavano su una strada impervia, mentre li flagellava un vento gelido.
La tormenta stava per scatenarsi.
Raffiche turbinanti di schegge di ghiaccio sibilavano fra le rocce.

I due uomini procedevano a fatica.

Sapevano molto bene che se non avessero raggiunto in tempo il rifugio sarebbero periti nella tempesta di neve.
Mentre, con il cuore in gola per l’ansia e gli occhi quasi accecati dal nevischio, costeggiavano l’orlo di un abisso, udirono un gemito.
Un pover’uomo era caduto nella voragine e, incapace di muoversi, invocava soccorso.
Uno dei due disse:
“È il destino.
Quell’uomo è condannato a morte.
Acceleriamo il passo o faremo la sua fine.”

E si affrettò tutto curvo in avanti per opporsi alla forza del vento.

Il secondo invece si impietosì e cominciò a scendere per le pendici scoscese.
Trovò il ferito, se lo caricò sulle spalle e risalì affannosamente sulla mulattiera.
Imbruniva.
Il sentiero era sempre più oscuro.
L’alpinista che portava il ferito sulle spalle era sudato e sfinito, quando vide apparire le luci del rifugio.
Incoraggiò il ferito a resistere, ma all’improvviso inciampò in qualcosa steso di traverso sul sentiero.
Guardò e non poté reprimere l’orrore:
ai suoi piedi era steso il corpo del suo compagno di viaggio.

Il freddo lo aveva ucciso.

Lui era sfuggito alla stessa sorte solo perché si era affaticato a portare sulle spalle il poveretto che aveva salvato nel burrone.
Il suo corpo e lo sforzo avevano mantenuto il calore sufficiente, per salvargli la vita.

Brano senza Autore

L’alchimista e la pietra filosofale

L’alchimista e la pietra filosofale

C’era una volta un alchimista che aveva dedicato la sua vita alla ricerca della pietra filosofale, la rara pietra che aveva il potere di trasformare in oro gli oggetti di ferro.
“Proverò tutte le pietre della terra, una dopo l’altra.
Troverò certamente la pietra filosofale!” pensava.
In principio, sembrava una cosa semplice.
L’alchimista si era cinto i fianchi con una catena di ferro e aveva cominciato a toccarla con tutte le pietre che trovava.
Camminava e camminava e, appena vedeva una pietra, la prendeva e con essa toccava la sua catena.

Quel gesto era diventato tutta la sua vita.

Passarono gli anni e l’alchimista, con i capelli arruffati, coperti di polvere, il corpo ridotto a un’ombra, le labbra serrate come le porte chiuse del suo cuore, continuava a vagare in cerca della pietra magica.
Tutti ormai lo credevano pazzo.
Un giorno, un ragazzo del villaggio si avvicinò e gli chiese:
“Dimmi, dove hai trovato questa catena d’oro che ti cinge la vita?”

L’alchimista trasalì:

la catena, che una volta era di ferro, era proprio diventata d’oro e splendeva alla sua cintura.
Non era un sogno, ma quando era avvenuto questo mutamento?
Si colpì con violenza la fronte:
dove, oh dove, senza saperlo, aveva raggiunto la sua meta?
Si era ormai abituato a raccogliere pietre e toccare con esse la catena, e poi gettarle via senza guardare se la trasformazione era avvenuta.

Così il povero alchimista aveva trovato la pietra filosofale, e l’aveva perduta…

Tornò sui suoi passi per cercare di nuovo.
Ma ora il suo corpo era più curvo e privo di forze, il suo cuore più stanco e lui come un albero sradicato…

Brano senza Autore

Il re, la principessa ed il povero plebeo

Il re, la principessa ed il povero plebeo

Si racconta che in un passato assai remoto esistesse un re semi-barbaro che amministrava la giustizia in modo allo stesso tempo spettacolare e bizzarro.
Per punire i crimini particolarmente gravi aveva concepito una singolare ordalia.
L’accusato veniva condotto, in un certo giorno, nell’ arena di un circo, sulle cui gradinate si affollava il popolo riunito.

Davanti a lui vi erano due porte:

dietro una di esse, vi era una tigre affamata, la più feroce che si fosse riusciti a trovare per l’occasione; dietro l’altra, si trovava invece una bella fanciulla, seducente e verginale.
Solo il re sapeva chi fosse in attesa dietro le due porte.
Il reo era costretto ad aprire immediatamente una delle due porte.
In entrambi i casi, la sua sorte era segnata:
se compariva la fiera, moriva dilaniato in pochi secondi; se usciva la dama, doveva sposarla seduta stante e con grandi festeggiamenti, con il monarca in persona come testimone delle nozze, annullando qualunque matrimonio o impegno eventualmente contratto in precedenza.
A voi decidere quale fosse il destino più crudele.

Una volta si presentò il caso di un criminale accusato di un delitto molto grave:

povero plebeo, aveva avuto l’ardire di corteggiare in segreto l’unica figlia del re, la quale aveva corrisposto appassionatamente, seppure di nascosto, il suo amore.
Per il suo giudizio nella fatidica arena, quel barbaro re cercò accuratamente la tigre più vorace, ma scelse anche la più deliziosa delle fanciulle come alternativa.
Sconvolta, la principessa innamorata si vide lacerata da una doppia angoscia:
da un lato, vedere quel corpo amato e accarezzato a pezzi dagli artigli della bestia, dall’altro assistere al matrimonio del proprio innamorato con una bella ragazza, alle cui attrattive ella sapeva bene che il giovane colpevole non sarebbe stato del tutto indifferente.
Con astuzie di donna e arroganza di principessa, riuscì a sapere quale fosse la porta che, nell’ arena, corrispondeva ad ognuno degli indesiderati destini.
Il giovane sembrava confuso nel circo, incalzato dalle aspettative della moltitudine.
Anch’egli conosceva l’intimo dilemma dell’amata e dall’arena le lanciò uno sguardo supplichevole: “Solo tu puoi salvarmi!”
Con un gesto discreto, ma inequivocabile, la principessa indicò la porta di destra.
E questa scelse il condannato senza esitare.

Ora trascrivo come Stockton conclude il suo racconto:

“Il problema dell’azione della principessa non può essere considerato con leggerezza e non pretendo di essere l’unica persona in grado di risolverlo.
Pertanto lascio che sia ognuno di voi a rispondere:
chi uscì dalla porta aperta … la dama o la tigre?»”
E in realtà, questa è la domanda assillante per la giovane principessa, per il giovane condannato e per noi tutti, quasi tutti i giorni e a ogni passo, quando, guidati da oracoli giungiamo al momento incerto e fatale dell’azione.

Brano tratto dal libro “Il coraggio di scegliere: Riflessioni sulla libertà.” di Fernando Savater

Christine e la Vergine del Carmelo

Christine e la Vergine del Carmelo
(Nostra Signora del Monte Carmelo, o anche del Carmine)

Christine era una buona madre ed un’ottima moglie, ma un triste e desolato giorno il suo giovane marito morì.
Un dolore immenso e rovente dilaniò la sua esistenza.
Niente riusciva ad attenuare la sua sofferenza.
Cercava invano brandelli di consolazione nei suoi bambini, che la fissavano smarriti.
Come specchi, gli umidi occhioni le rimandavano l’immagine del loro papà tanto amato.
Neanche più ricordava il tempo in cui lavorava cantando.
Il lavoro, come il pane, le era diventato amaro e pesante.
Una sera, rannicchiata nel letto, piangeva silenziosamente per non svegliare i bambini, quando le apparve una figura dolce e rassicurante, che la prese per mano.

Era la Vergine del Carmelo.

“Vieni con me, Christine!” le disse, “Vieni con me: ti porterò al Fiume della Pace.
Chiunque si bagna nelle sue acque, troverà la consolazione che cerca!”
Camminarono nella notte per molto tempo.
Ad un certo punto, Christine cominciò a sentire il rumore di acque scroscianti.
Un fiume immenso, dalle acque pure e trasparenti, scorreva davanti a loro.
“Immergiti nel Fiume della Pace!” le intimò la Vergine, “Le sue acque scioglieranno la tua pena e la tua angoscia!”

Christine si immerse.

Il suo corpo fu avvolto da un conforto pieno di vigore e serenità, una pace balsamica che guariva le sue ferite.
Dopo quell’immersione salutare, Christine chiese alla Madonna:
“Da dove viene quest’acqua miracolosa?”
“Sono le lacrime del mondo!” rispose la Vergine.
“Tutte le lacrime del mondo si raccolgono in questo fiume.
Lacrime amare, di paura, di dolore, di delusione, di sconfitta, di rabbia.
Ma anche le lacrime più dolci, quelle versate per amore, per il ritorno di una persona cara, per uno scampato pericolo!”
Christine udì i sospiri ed i gemiti di tutti coloro che avevano versato quelle lacrime, e comprese che anche le sue lacrime erano ormai un unico pianto, puro e indistinto, che scorreva nelle acque di quel fiume.

Si sentì in comunione totale con tutto il dolore e la gioia del mondo.

Fu in quel momento che la Madre di Dio le parlò del dolore di suo Figlio.
Christine sentì il pianto di Cristo davanti alla tomba di Lazzaro, il pianto nel Getsemani, il suo pianto ai piedi della croce.
Christine si ridestò improvvisamente, il cuscino era ancora bagnato, ma una pace profonda si era impadronita di lei…

Brano senza Autore

Il giardino e l’albero di bambù

Il giardino e l’albero di bambù

In un magnifico giardino cresceva un bambù dal nobile aspetto.
Il Signore del giardino lo amava più di tutti gli altri alberi.
Anno dopo anno, il bambù cresceva e si faceva robusto e bello.
Perché il bambù sapeva bene che il Signore lo amava e ne era felice.
Un giorno, il Signore si avvicinò al suo amato albero e gli disse:
“Caro bambù, ho bisogno di te!”
Il magnifico albero sentì che era venuto il momento per cui era stato creato e disse, con grande gioia:
“Signore, sono pronto.
Fa’ di me l’uso che vuoi!”

La voce del Signore era grave:

“Per usarti devo abbatterti!”
Il bambù si spaventò:
“Abbattermi, Signore?
Io, il più bello degli alberi del tuo giardino?
No, per favore, no!
Usami per la tua gioia, Signore, ma per favore, non abbattermi.”
“Mio caro, bambù,” continuò il Signore, “se non posso abbatterti, non posso usarti!”
Il giardino piombò in un profondo silenzio.
Anche il vento smise di soffiare.
Lentamente il bambù chinò la sua magnifica chioma e sussurrò:
“Signore, se non puoi usarmi senza abbattermi, abbattimi!”
“Mio caro bambù,” disse ancora il Signore, “non solo devo abbatterti, ma anche tagliarti i rami e le foglie!”
“Mio Signore, abbi pietà.
Distruggi la mia bellezza, ma lasciami i rami e le foglie!”
Il sole nascose il suo volto, una farfalla inorridita volò via.

Tremando, il bambù disse fiocamente:

“Signore, tagliali!”
“Mio caro bambù, devo farti ancora di più.
Devo spaccarti in due e strapparti il cuore.
Se non posso fare questo, non posso usarti!” spiego il Signore.
Il bambù si chinò fino a terra e mormorò:
“Signore, spacca e strappa!”
Così il Signore del giardino abbatté il bambù, tagliò i rami e le foglie, lo spaccò in due e gli estirpò il cuore.
Poi lo portò dove sgorgava una fonte di acqua fresca, vicino ai suoi campi che soffrivano per la siccità.
Delicatamente collegò alla sorgente una estremità dell’amato bambù e diresse l’altra verso i campi inariditi.
La chiara, fresca, dolce acqua prese a scorrere nel corpo del bambù e raggiunse i campi.

Fu piantato il riso e il raccolto fu ottimo.

Così il bambù divenne una grande benedizione, anche se era stato abbattuto e distrutto.
Quando era un albero stupendo, viveva solo per se stesso e si specchiava nella propria bellezza.
Stroncato, ferito e sfigurato era diventato un canale, che il Signore usava per rendere fecondo il suo regno.
Noi la chiamiamo “sofferenza”, Dio la chiama “Ho bisogno di te!”

Brano di Bruno Ferrero

La donna che profumava di pane

La donna che profumava di pane

In un lontano paese, una povera vedova si manteneva prestando servizio ad una ricca e misteriosa signora che viveva solitaria in una villa dall’aspetto lugubre, seminascosta nel cuore di un bosco.
La buona vedova compiva il suo lavoro con generosità e precisione, e un giorno inaspettatamente la signora le fece un regalo:

un anello straordinario.

“Ruotando due volte questo anello intorno al dito, ti potrai trasformare in tutto ciò che vorrai!” le spiegò la strana signora.
La vedova non ci fece un gran caso, ma quando una terribile carestia si abbatté sulla regione, si ricordò dell’anello.
Lo girò due volte attorno al dito e si trasformò in un magnifico falco dalle ali affilate.
Aveva deciso di volare fino a trovare una terra che potesse fornire sostentamento al figlio e ai suoi vicini.
Volò fino ad esaurire le forze, poi tornò mestamente nella sua casa.
La carestia aveva colpito tutte le terre del regno.
Non c’era scampo per nessuno.

Ma la donna non si rassegnò.

Ruotò l’anello due volte e si trasformò in un’enorme e fragrante forma di pane.
Quando suo figlio tornò a casa e vide quella enorme pagnotta, cominciò a mangiare di gusto.
Era solo pane, ma saziava in modo mirabile.
Mentre masticava con voluttà, il figlio della vedova vide passare un vicino di casa con cui aveva avuto molti dissapori e che gli ispirava una fortissima antipatia.
Era deciso ad ignorarlo, ma una scossa al cuore lo costrinse ad invitarlo a condividere quel pane miracoloso.
La voce si sparse e da tutto il villaggio la gente accorse:
grandi e piccoli, giovani e vecchi, poveri, ammalati e sani, disperati e inquieti.
Quel pane sembrava non finire mai.
Inoltre, non si limitava a togliere la fame, ma infondeva serenità e voglia di pace, senso di bontà e salute per il corpo.
Quelli che erano nemici si riconciliavano e quelli che prima si ignoravano si sorridevano cordialmente.
Ogni notte, l’ultima briciola di pane si trasformava di nuovo nella vedova generosa.
Ogni mattino, la donna ridiventava una gigantesca pagnotta profumata e deliziosa, che nutriva il corpo e lo spirito della gente del villaggio.

Così fu fino al nuovo raccolto.

Quel giorno fu organizzata una grande festa.
Naturalmente partecipò anche la vedova.
Tutti quelli che si avvicinavano a lei provavano una strana sensazione:
la donna profumava di pane appena sfornato.

Brano tratto dal libro “I fiori semplicemente fioriscono.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.