La valigia vuota

La valigia vuota

Un uomo morì.
A un certo punto vide avvicinarsi Dio, portando con sé una valigia.
E dio disse:
“Figlio, è ora di andare.”
L’uomo stupito domandò:
“Di già? Così presto? Avevo tanti piani.”
“Mi dispiace ma è giunta la tua partenza.” replicò dolcemente Dio.
“Cosa porti nella valigia?” chiese l’uomo.
E Dio gli rispose: “Ciò che ti appartiene!”

“Quello che mi appartiene?

Porti le mie cose, i miei vestiti, i miei soldi?” domandò nuovamente l’uomo.
Dio spiegò: “Quelle cose non ti sono mai appartenute, erano del mondo.”
La conversazione continuò:
“Porti i miei ricordi?” chiese ancora l’uomo
E Dio rispose: “Quelli non ti sono mai appartenuti, erano del tempo.”
“Porti i miei talenti?”
“Quelli non ti sono mai appartenuti, erano delle circostanze.”
“Porti i miei amici, i miei familiari?”
“Mi dispiace, loro mai ti sono appartenuti, erano del cammino.”
“Porti mia moglie e i miei figli?”
“Loro non ti sono mai appartenuti, erano del cuore.”

“Porti il mio corpo?”

“Mai ti è appartenuto, il corpo era della polvere.”
“Allora porti la mia anima?”
“No, l’anima è mia.”
Allora l’uomo pieno di paura scaraventò via la valigia che Dio portava con sé e aprendosi vide che era vuota.
Con una lacrima che scendeva dagli occhi, l’uomo disse:
“Non ho mai avuto niente?”
“Così è, ogni momento che hai vissuto è stato solo tuo.
La vita è un solo momento.

Un momento solo tuo.

Per questo mentre hai il tempo sfruttalo nella sua totalità.
Che nulla di quello che ti è appartenuto possa trattenerti.
Vivi ora, vivi la tua vita e non dimenticare di essere felice, è l’unica cosa che vale davvero la pena.
Le cose materiali e tutto il resto per cui hai lottato restano qui.
Apprezza chi ti apprezza, non perdere tempo con coloro che non hanno tempo per te.

Brano senza Autore, tratto dal Web

L’uccello con due teste

L’uccello con due teste

Sulle sponde d’un lago nell’India del Nord, c’era una volta uno strano uccello che aveva due teste, una a destra e una a sinistra.
Due teste ma un corpo solo.
Un giorno, mentre gironzolava in cerca di cibo, con gli occhi della testa di destra vide un favo di miele selvatico, e subito vi si buttò sopra.

La testa di sinistra disse:

“Danne anche a me!”
Ma la testa di destra non diede ascolto, e se lo beccò tutto in pochi istanti.

Allora la testa di sinistra giurò vendetta;

e mentre l’uccello vagava per un bosco, ecco a sinistra certe bacche amarissime.
La testa di sinistra le scorse per prima e, pur sapendo che non erano buone e avrebbero fatto male allo stomaco, ne beccò quante potè.

E nel frattempo pensava:

“Poi avremo mal di pancia; ma gli sta bene, a quell’egoista dell’altra parte; così impara la solidarietà!”
Poco dopo, l’uccello si sentì colto da atroci dolori: le bacche erano velenose, e in breve tempo gli causarono la morte.
Morirono ugualmente le due teste, quella di destra e quella di sinistra, perchè nessuna delle due aveva avuto cervello.

Brano senza Autore, tratto dal Web

L’importanza dello sport per i bambini


L’importanza dello sport per i bambini

C’era una volta un genitore, padre di due bambini, che riteneva inopportuno e inconcludente continuare a portare i suoi figli al corso di ginnastica che si svolgeva nella palestra della scuola.
Lo riteneva uno spreco di soldi, così a volte gli capitava di trasmettere svogliatezza o, in generale, dei pensieri negativi ai figli, che con il passare del tempo sembravano perdere entusiasmo nel partecipare ai corsi sportivi.
Un giorno, questo genitore provò a confrontarsi con un altro genitore amico che portava anch’egli i suoi figli alla stessa palestra.
“Perché continui a pagare soldi per far fare ginnastica ai tuoi figli?” chiese all’amico.

“Beh, devo confessarti che io non pago per far fare ginnastica ai miei figli.

Personalmente non mi importa molto della ginnastica.” rispose il secondo, che poi continuò:
“Quindi se non sto pagando per la ginnastica per cosa sto pagando?
Ora te lo spiego.
Pago per quei momenti in cui i miei figli son così stanchi che vorrebbero smettere, ma non lo fanno.
Pago per quei giorni in cui i miei figli tornano a casa da scuola troppo stanchi per andare in palestra ma ci vanno lo stesso.
Pago perché i miei figli imparino la disciplina.

Pago perché i miei figli imparino ad aver cura del proprio corpo.

Pago perché i miei figli imparino a lavorare con gli altri e a essere buoni compagni di squadra.
Pago perché i miei figli imparino a gestire la delusione quando non ottengono la vittoria che speravano di avere, ma devono ancora lavorare duramente.
Pago perché i miei figli imparino a crearsi degli obiettivi e a raggiungerli.
Pago perché i miei figli imparino che ci vogliono ore ed ore ed ore di duro lavoro e allenamento per creare un atleta, e che il successo non arriva da un giorno all’altro.
Pago per l’opportunità che i miei figli hanno e che avranno in futuro, di fare amicizie che durino una vita intera.

Pago perché i miei figli possano stare su una pedana, un campo di gioco o una pista, anziché davanti a uno schermo.

Potrei andare avanti ancora ma, per farla breve, io non pago per la ginnastica.
Pago per le opportunità che la ginnastica dà ai miei figli di sviluppare qualità che serviranno loro per tutta la vita.
E per dar loro l’opportunità di far del bene alla vita degli altri.
E da quello che ho visto finora penso che sia un buon investimento.”

Brano senza Autore, tratto dal Web

I cambiamenti dentro di noi

I cambiamenti dentro di noi

Un giovane di nome Naresh incontrò un santo.
Il santo gli chiese chi fosse, e il giovane rispose: “Sono Naresh!”
“Chi sei?” ribadì il santo.
Naresh, pensando che il santo non lo avesse udito, disse: “Mi chiamo Naresh!”
“Sì, ma chi sei?” incalzò il santo.
Perplesso, Naresh rispose:
“Mio padre si chiama Ram Dutta.
Vivo a Delhi.
Faccio il ragioniere.”
“Sì, ma chi sei?” continuò il santo.
Il giovane si spremette le meningi per capire quella domanda.
Il santo era forse duro d’orecchi?

O stava diventando vecchio e un po’ senile?

“Beh, se non lo sai,” disse il santo con un sorriso, “forse è bene che tu sia venuto da me!”
A questo punto il giovane rimase completamente sconcertato!
Sentiva però una certa pace in presenza del santo e quindi tornò molte volte da lui, pur senza sapere veramente il perché.
Un po’ alla volta, cominciò a riflettere:
“Posso davvero definire me stesso in un modo così limitato, ad esempio dicendo che sono un ragioniere?”
Cominciò a pensare:
“Io non sono ciò che faccio.
Sono un giovane con molti interessi, incluso quello di fare visita a questo santo, anche se lo faccio per ragioni che non comprendo pienamente!”

“Chi sei?” gli chiese nuovamente il santo, un giorno.

A quel punto, il vecchio apparve al giovane non solo perfettamente normale, ma perfino saggio.
“Non so chi sono veramente!” disse Naresh.
“Adesso va meglio!” esclamò il santo “Allora pensaci di nuovo. Chi sei?”
Bene, rifletté il giovane.
Ho un nome, una famiglia, un domicilio.
Ma sono davvero una qualunque di queste cose?
All’improvviso ebbe questa rivelazione:
“Sono un’anima in cerca di se stessa!”
Il suo corpo era ancora giovane, ma sapeva che col tempo sarebbe invecchiato.
Anche adesso, nel suo intimo, egli era la stessa persona che era stato da bambino.
Il corpo era cambiato, ma lui no.
Quindi non era il corpo.

Continuò a riflettere.

La sua comprensione era cambiata da quando aveva incontrato il santo, ma nel suo intimo era ancora lo stesso.
La sua personalità era cambiata, ma qualcosa nella sua coscienza era rimasto immutato.
Lentamente comprese che lui, proprio lui, era un punto di percezione interiore dal quale si limitava ad osservare quei cambiamenti, senza però definire se stesso in base a essi.
Ciò che cambia, comprese, non può essere ciò che sono.
Io sono quel qualcosa dentro di me che rimane immutato, che semplicemente osserva il cambiamento.
Così, giunse ad identificarsi sempre più con la sua anima.
Un giorno disse al guru:
“So chi sono, ma non ci sono parole con cui io possa parlarne!”
Il santo, nell’udire questo, si limitò a sorridere.
Più tardi disse:
“Ora che ti mancano le parole, c’è così tanto che possiamo dirci!”

Brano tratto dal libro “L’essenza della Bhagavad Gita.” di Paramhansa Yogananda e Swami Kriyanand

Ci sono certi sguardi di donna che l’uomo

amante non scambierebbe con l’intero possesso del corpo di lei. Chi non ha veduto accendersi in un occhio limpido il fulgore della prima tenerezza non sa la più alta delle felicità umane. Dopo, nessun altro attimo di gioia eguaglierà quell’attimo.

Citazione tratta dal libro “Il piacere.” di Gabriele D’Annunzio.

Dolci coccole


Dolci coccole

Una volta, tanto tempo fa, c’era una terra dove la gente viveva felice.
Tutti erano amici, si volevano bene, giocavano insieme, e si aiutavano.
Erano tutti gentili, cordiali e premurosi.
Erano così per la strada, a scuola, e anche quando c’era la coda da fare all’ufficio postale.
Naturalmente, c’era un segreto.
A quel tempo, ogni bambino riceveva alla nascita un sacchetto colmo di “Dolci Coccole.”
Le “Dolci Coccole” erano molto apprezzate.
Tutti quelli che le ricevevano, si sentivano pieni di dolcezza e di calda simpatia.
Coloro che non ne ricevevano, invece, si ammalavano di influenza, avevano il mal di schiena, appassivano, talvolta morivano.
A quel tempo, però, era molto facile procurarsi delle “Dolci Coccole.”
Quando uno ne aveva voglia, si avvicinava ad un altro, e domandava:

“Vorrei una “Dolce Coccola”!”

L’altro tuffava la mano nel suo sacchetto, e ne traeva una “Dolce Coccola”, che aveva più o meno le dimensioni della mano di una bambina.
Chi la riceveva, la strofinava dolcemente sul cuore, sulle guance, o sulle braccia, e subito si sentiva invadere da una piacevole ondata di tepore e di benessere, sia nel corpo che nell’anima.
La gente a quel tempo si scambiava continuamente “Dolci Coccole” e, dal momento che erano assolutamente gratuite, se ne potevano avere a volontà!
Così, quasi tutti vivevano felici, e si sentivano teneri e caldi.
Quasi tutti.
C’era qualcuno che non era affatto contento di vedere la gente scambiarsi “Dolci Coccole.”
Si chiamava Belzefà, ed era una strega perfida e perennemente arrabbiata.
Belzefà architettò un piano diabolico:
un mattino, piombò nel mezzo di una famigliola, si accostò al papà, che stava leggendo il giornale, e gli indicò la moglie che stava coccolando la bambina più piccola:
“Non vedi tutte le “Dolci Coccole”, che tua moglie sta dando alla bambina?
Se va avanti così, non ce ne saranno più per te!”

L’uomo si preoccupò:

“Vuoi dire che a forza di donarle agli altri non ci saranno più “Dolci Coccole” nel nostro sacchetto?”
“Certo!” rispose la strega “Ad un certo punto finiranno. Stop. Nisba. Nada!”
E ripartì ghignando a cavallo della sua scopa.
Il papà si sentì turbato dalle parole di Belzefà.
Da quel momento, ogni volta che vedeva la moglie dare “Dolci Coccole” ai bambini si sentiva inquieto.
Sempre più spesso si chiese se la strega potesse avere ragione.
Un giorno ne parlò apertamente con la moglie.
Anche lei si spaventò.
La coppia decise che bisognava fare economia e usare con parsimonia le “Dolci Coccole” rimaste.
In breve tempo uomini, donne e bambini smisero di sorridersi l’un l’altro, di essere gentili, di aiutarsi.

Ma un giorno successe un fatto straordinario…

Una fanciulla dagli occhi pieni di luce ed un sorriso dolce e limpido, arrivò in quel triste paese.
Pareva proprio, che non avesse mai sentito parlare della perfida strega, e distribuiva “Dolci Coccole” a piene mani, senza alcuna paura che le venissero a mancare.
La ragazza le offriva gratuitamente, anche se nessuno gliele domandava.
I bambini la amavano tantissimo, perché si sentivano davvero bene con lei.
Anche i bambini allora, tutte le volte che ne avevano voglia, si misero a distribuire “Dolci Coccole”, incuranti che potessero finire.
I grandi fecero una Legge per impedire di sprecare le “Dolci Coccole”, ma i bambini continuarono!
E siccome i bambini sono più numerosi degli adulti, in breve tempo la terra iniziò a diventare nuovamente quel luogo dove la gente vive serena e felice.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Gandhi e lo zucchero


Gandhi e lo zucchero

Una nonna trovò l’occasione di portare suo nipote al Mahatma Gandhi.
Il bambino aveva un’attrazione insaziabile per lo zucchero e ciò stava mettendo in pericolo la sua salute.
“Per favore,” supplicando Gandhi “dica a mio nipote che smetta di mangiare lo zucchero, poiché lui la rispetta molto e so che l’ascolterà perché è lei che glielo dice.”

Gandhi allora chiese che si ripresentassero dopo quattro giorni.

Quattro giorni più tardi la nonna ed il nipote ritornarono.
Gandhi guardando fisso negli occhi del ragazzo, gli disse con autorità:
“Smetti di mangiare zucchero, stai ferendo il tuo corpo.”

Dopo un breve silenzio, la nonna domandò a Gandhi:

“Signore, perché ci chiese di aspettare quattro giorni e poi di ritornare?
Questo è lo stesso che poteva dire quattro giorni fa!”

Gandhi rispose:

“Signora, quattro giorni fa io avevo mangiato dello zucchero e non potevo parlare con autorità a suo nipote.
Ora posso, perché sono quattro giorni che non mangio più zucchero.”

Eric Yaverbaum nel suo libro “Segreti della Leadership dei dirigenti che hanno più successo nel mondo” scrive che il loro più grande segreto è quello di guidare con l’esempio.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il falco nel pollaio (L’anima e il corpo)

Il falco nel pollaio (L’anima e il corpo)

Un falco era stato catturato da un contadino e viveva legato per una zampa nell’aia di un cascinale.
Non si era rassegnato a vivere come un qualunque pollo.
Aveva cominciato a dare strattoni su strattoni alla corda che lo teneva avvinto ad un robusto trave del pollaio.
Fissava il cielo azzurro e partiva con tutte le sue forze.

Inesorabile, la corda lo tirava a terra.

Provò e riprovò per settimane, finché la pelle della zampa fu tutta lacerata e le belle ali rovinate.
Alla fine si era abituato.
Dopo qualche mese trovava di suo gradimento anche il mangime dei polli.

Si accontentò di razzolare.

Così non si accorse che le piogge autunnali e la neve dell’inverno avevano fatto marcire la corda che lo legava a terra.
Sarebbe bastato un ultimo modesto strattone e il falco sarebbe tornato in libertà, padrone del cielo.
Ma non lo diede più.
Il nostro corpo fatica anche solo a salire una rampa di scale.
Ma la nostra anima ha le ali.
E il cielo è nostro.

Brano tratto dal libro “C’è qualcuno lassù.” di Bruno Ferrero