Amore, Felicità, Tempo, Amicizia e Saggezza

Amore, Felicità, Tempo, Amicizia e Saggezza

Ciao, il mio nome è Felicità.
Faccio parte della vita, di quelli che credono nella forza dell’amore, che credono che ad una bella storia non possa esserci mai fine.
Sono sposata, lo sapevi?
Sono sposata con il Tempo.
Lui è il responsabile della risoluzione di tutti i problemi.
Lui costruisce cuori, lui medica quelli feriti, lui vince la tristezza…

Io e il Tempo, assieme, abbiamo avuto tre figli:

Amicizia, Saggezza e Amore.
Amicizia è la figlia più grande, una ragazza bellissima, sincera e allegra.
Lei unisce le persone, non ha l’intento di ferire, ma di consolare.
Poi c’è Saggezza, colta, con principi morali.
Lei è quella più attaccata a suo padre, Tempo.
È come se Saggezza e Tempo camminassero insieme!

Il più piccolo è Amore!

Ah, quanto mi fa lavorare lui!
È ostinato, a volte vuole abitare solo in un certo posto…
E a volte dice che è stato concepito per abitare in due cuori e non in uno soltanto.
Eh si, mio figlio Amore è molto complesso.
Quando comincia a far danni, devo chiamare subito suo padre, Tempo, affinché chiuda le ferite procurate dal figlio!

Una persona un giorno mi ha detto:

“Alla fine tutto si sistema sempre… in un modo o nell’altro… se le cose ancora non si sono sistemate è perché non siamo ancora giunti alla fine!”
Per questo ti dico di avere fiducia nella mia famiglia.
Credi in mio marito Tempo, nei miei figli Amicizia, Saggezza e soprattutto credi in mio figlio Amore.
Se avrai fiducia in loro, stai certo che allora io, Felicità, un giorno busserò alla tua porta!
E non dimenticare mai di sorridere …

Brano senza Autore

La lepre ed il ghiacciolo

La lepre ed il ghiacciolo

Sui verdi fianchi di una balza delle Alpi, sotto un roccione sporgente, c’era la tana di una lepre di montagna.
Quella lepre ogni tanto faceva capolino.
Come tutti gli animali selvatici, era povera in canna e viveva nutrendosi di ogni sorta di erbaggi.
Aveva però due vestiti, un lusso che la natura le concedeva gratuitamente e senza pericolo di farla diventare ambiziosa.
I fiori, che vedevano la lepre d’estate, conoscevano bene il suo giubbetto color grigio-bruno con la gran toppa bianca sul petto.
I ghiacci e le nevi che la vedevano d’inverno, conoscevano invece il suo candido, attillato pastrano.
Anche i ghiaccioli, che pendevano numerosi e impettiti dall’ingresso della tana, stavano ad ammirarla un po’ invidiosi per ore e ore, mentre dormiva avvolta nella sua bianca pelliccia.
I fiori che segnavano il tempo di primavera e d’estate non consideravano la lepre un personaggio importante, pensando che avesse, come tutti gli altri animali, un solo vestito; ma le rocce e gli alberi, che la vedevano in tutte le stagioni, sapevano benissimo che i suoi vestiti erano due, e avevano di lei grande stima, perché la ritenevano una bestia facoltosa e tuttavia sempre umile, riservata e gentile.
Sul finire di un inverno, mentre la lepre si preparava a cambiare vestito perché l’aria si era fatta meno cruda e ormai le nevi avevano preso congedo, sul roccione sovrastante la tana si vide un ghiacciolo ostinatamente aggrappato all’orlo della fenditura.

“Non ti decidi ad andartene?” gli chiese un giorno l’abete più vicino.

“I tuoi fratelli sono già partiti da un pezzo!
Finirai col non riuscire a raggiungerli!”
“Andarmene, io?
Io non me ne vado: rimango!
Durante l’inverno non ho fatto altro che sentir decantare la primavera con i suoi colori, l’estate con la sua luce e il vento che sembra una carezza, e la gioia dei fiori e dell’erba, e il cielo tutto lucido e pulito.
Perfino le lepri so che mutano d’abito, come per prepararsi ad una festa.
Perché proprio io non dovrei conoscere tante belle cose, se sono belle davvero?
Ho deciso perciò di restare fino alla primavera, magari fino all’estate!”
“Resta pure, se ci riesci!” replicò l’abete.
“Questo, amico bello, è affar mio!” concluse il ghiacciolo.
Quando l’aria cominciò a intiepidire, il ghiacciolo volle mettersi al riparo dal sole.
Si staccò dalla fenditura e si lasciò cadere in un’incavatura della roccia nella quale il sole non batteva e da cui avrebbe potuto assistere comodamente allo spettacolo atteso.
Ma quando si fu fermato, sentì che era caduto addosso a qualcosa.
“Che maniera villana di presentarsi!” brontolò quel qualcosa.
“Sono veramente mortificato!” esclamò il ghiacciolo, “Non avevo visto che c’era lei.

Se permette, anzi, mi presento:

io sono il ghiacciolo, l’ultimo ghiacciolo dell’inverno!”
“Bene, tanto piacere.
Io sono la cartuccia, una cartuccia di fucile da caccia!” spiegò la cartuccia.
“Ma come si trova qui, signora cartuccia?
È carica o scarica?
Che pensa della primavera e dell’estate?
Che programmi ha per il futuro?” domandò il ghiacciolo.
“Ragazzo, non prendiamoci confidenze!” replicò la cartuccia
Era una cartuccia molto dura e superba, e vedeva tutte le cose dal punto di vista delle cartucce.
“Sono di ottima marca, e… carica, naturalmente.
“E se mi trovo qui è solo a causa di uno spiacevole contrattempo.
Durante una battuta, il mio padrone mi ha smarrita, povero sciocco!
Andava a caccia della lepre, e io ero l’ultima cartuccia che gli restava.
La lepre può ringraziare il cielo:
se avesse avuto a che fare con me, non sarebbe scappata di certo.
Con me non si scherza!”

“Ma che le ha fatto la lepre?” chiese il ghiacciolo.

“Niente mi ha fatto.
Ma non doveva nascere lepre.
Se la trovo, l’accoppo!” esclamò la cartuccia.
“Via, c’è posto per tutti a questo mondo…” disse, sicuro, il ghiacciolo.
“Tu non immischiarti nei miei affari privati.
Spero solo che il cacciatore ripassi di qua e che mi veda.
Al resto penserò io!” conclusa la cartuccia.
L’aria si era fatta ormai mite e la lepre vagava nei dintorni in cerca di nutrimento.
Quanto al ghiacciolo, esso faceva una gran fatica a non sciogliersi, e cercava di aderire all’incavatura della roccia nel punto più profondo e più fresco.
Voleva a tutti i costi vedere i fiori dei rododendri, le stelle alpine, il tenero dell’erba novella, il cielo lucido e pulito nello sfolgorio della sua luce cilestrina.
Ormai non doveva attendere molto.
Ma un mattino, svegliandosi, non vide più la cartuccia.
Orme d’uomo, recenti, erano impresse nel suolo ai piedi del roccione.
Il cacciatore era passato di là?
La cartuccia aveva ritrovato il fucile?
Bisognava avvertire la lepre del pericolo, subito!
“Lepre! Lepre! Ehi, lepre!” si mise a gridare il ghiacciolo, “Non uscire!
C’è gente che ti minaccia qua intorno!”

Nessuno rispose.

La lepre certamente era fuori dalla tana.
Al ghiacciolo non rimase che starsene rincattucciato nell’incavatura della roccia a rimuginare pensieri uno più triste dell’altro.
Verso sera, trascinandosi a stento, la lepre fece ritorno alla tana.
Era malconcia, grondava sangue, aveva la febbre.
“Oh, poveretta, poveretta!” esclamò commosso il ghiacciolo che, in fondo, non aveva un cuore di ghiaccio, “Che ti è successo?
Chi è stato?
Quella sciagurata cartuccia?”
“Non so!” rispose la lepre con un filo di voce, cadendo sfinita sulla soglia della tana, “Ho visto una vampa.
Ho udito un sibilo.
Sono ferita.
Ho tanta sete…”
Il ghiacciolo non volle udire altro.
Si rotolò fin sul margine dell’incavatura, sulla roccia ancor calda dal sole, e cominciò rapidamente a sciogliersi.
Cadde in gocce fitte e refrigeranti sulle ferite della lepre, in gocce ristoratrici sulle labbra riarse.
“Chi piange lassù?” balbettò la lepre stupita, riavendosi a poco a poco.
Ma il ghiacciolo non poté più rispondere.
Si era ormai sciolto del tutto, senza neppur pensare che le stelle alpine e i rododendri non erano ancora fioriti, che il cielo non era ancora terso e azzurro.
Tutte cose che dovevano essere belle, oh molto belle, a vedersi.

Brano tratto dal libro “Tutte storie. Per la catechesi, le omelie e la scuola di religione.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Un manager e la sua Jaguar

Un manager e la sua Jaguar

Un manager stava percorrendo con la sua nuova Jaguar, un po’ troppo velocemente, le vie della città.
Mentre correva un mattone si schiantò sulla portiera!
Frenò bruscamente e tornò indietro per vedere chi l’avesse lanciato.
Inferocito scese giù dalla macchina prese il ragazzo e lo spinse contro un’auto parcheggiata e disse:

“Cosa ti è saltato in mente?

Questa macchina è nuova e quel mattone che hai tirato ti costerà caro!
Perché l’hai fatto?”
Il ragazzo tentò di scusarsi e disse:
“Mi spiace ma non sapevo cos’altro fare.” implorava, “Ho tirato il mattone perché non si fermava nessuno…”
Le lacrime scendevano sul suo viso, mentre indicava un punto appena dietro un’auto.
“È mio fratello,” disse, “ha sbattuto contro un tombino ed è caduto dalla sua sedia a rotelle e non riesco ad alzarlo!”

Ora il ragazzo chiese al manager:

“Per favore può aiutarmi?
È ferito ed è troppo pesante per me!”
Tanto toccato da rimaner senza parole il manager cercò di mandar giù il groppo in gola che si era formato, sollevò in fretta il ragazzo disabile e lo mise sulla sedia a rotelle, con un fazzoletto tamponò le ferite e se ne andò.

“Grazie e che Dio la benedica!” disse il ragazzo.

L’uomo scosso tornò alla sua Jaguar, immerso nei suoi pensieri.
Il danno alla portiera era grave ma non si preoccupò mai di ripararlo.
Si tenne la portiera danneggiata come costante ricordo di questo messaggio:
“Non correre attraverso la vita così velocemente che qualcuno debba lanciarti un mattone per attirare la tua attenzione.”

Brano senza Autore.

Il quadro “La cosa più bella del Mondo”

Il quadro “La cosa più bella del Mondo”

Un celebre pittore, che aveva realizzato vari lavori di grande bellezza, si convinse che ancora gli mancava di dipingere la sua opera prima.
Si incamminò alla ricerca di un’ispirazione o di un modello, e un giorno, in una strada polverosa, incontrò un anziano sacerdote che gli chiese dove era diretto.
“Non so!” rispose il pittore, “Voglio dipingere la cosa più bella del mondo.

Forse lei può indicarmi dove posso trovarla.”

“È molto semplice.” disse il sacerdote. “In qualsiasi chiesa o nella fede puoi trovare quello che cerchi.
La fede è la più bella cosa del mondo.”
Il pittore proseguì il suo viaggio e incontrò una giovane sposa.
Le domandò se sapeva quale fosse la cosa più bella del mondo.
“L’amore.” rispose la donna, “L’amore fa diventare ricchi i poveri, cura le ferite, fa diventare molto il poco.

Senza amore, non c’è bellezza.”

Il pittore continuò ancora la sua ricerca.
Un soldato esausto incrociò la sua strada, e quando il pittore gli pose la stessa domanda, rispose: “La Pace è la più bella cosa del mondo.
La guerra è la cosa più brutta.
Dove si trova la pace, è sicuro che si troverà anche la bellezza.”
Fede, Amore e Pace.

Come potrei dipingerle?

Pensò tristemente l’artista.
Scuotendo la testa scoraggiato, riprese la direzione di casa.
Entrando nella sua casa, vide la cosa più bella del mondo:
Negli occhi dei figli c’era la Fede, l’Amore brillava nel sorriso della sua sposa.
E qui, nel suo focolare, c’era la Pace di cui gli aveva parlato il soldato.
Il pittore realizzò così il quadro “La cosa più bella del Mondo.”
E, una volta terminato, lo chiamò “La mia casa.”

Brano senza Autore.

Segui Gesù come Maria

Segui Gesù come Maria

Una notte ho fatto un sogno splendido.
Vidi una strada lunga, una strada che si snodava dalla terra e saliva su nell’aria, fino a perdersi tra le nuvole, diretta in cielo.
Ma non era una strada comoda, anzi era una strada piena di ostacoli, cosparsa di chiodi arrugginiti, pietre taglienti e appuntite, pezzi di vetro.
La gente camminava su quella strada a piedi scalzi.
I chiodi si conficcavano nella carne, molti avevano i piedi sanguinanti.

Le persone però non desistevano:

volevano arrivare in cielo.
Ma ogni passo costava sofferenza e il cammino era lento e penoso.
Ma poi, nel mio sogno, vidi Gesù ché avanzava.
Era anche lui a piedi scalzi.
Camminava lentamente, ma in modo risoluto.

E neppure una volta si ferì i piedi.

Gesù saliva e saliva.
Finalmente giunse al cielo e là si sedette su un grande trono dorato.
Guardava in giù, verso quelli che si sforzavano di salire.
Con lo sguardo e i gesti li incoraggiava.
Subito dopo di lui, avanzava Maria, la sua mamma.
Maria camminava ancora più veloce di Gesù.

Sapete perché?

Metteva i suoi piedi nelle impronte lasciate da Gesù.
Così arrivò presto accanto a suo Figlio, che la fece sedere su una grande poltrona alla sua destra.
Anche Maria si mise ad incoraggiare quelli che stavano salendo e invitava anche loro a camminare nelle orme lasciate da Gesù, come aveva fatto lei.
Gli uomini più saggi facevano proprio così e procedevano spediti verso il cielo.
Gli altri si lamentavano per le ferite, si fermavano spesso, qualche volta desistevano del tutto e si accasciavano sul bordo della strada sopraffatti dalla tristezza.

Brano tratto dal libro “Il canto del grillo.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Il profumo dentro di noi

Il profumo dentro di noi

Gli indù raccontano una strana leggenda.
La leggenda del capriolo delle montagne.
Tanti anni fa, c’era un capriolo che sentiva continuamente nelle narici un fragrante profumo di muschio.
Saliva le verdi pendici dei monti e sentiva quel profumo stupendo, penetrante, dolcissimo.

Sfrecciava nella foresta, e quel profumo era nell’aria, tutt’intorno a lui.

Il capriolo non riusciva a capire da dove provenisse quel profumo che tanto lo turbava.
Era come il richiamo di un flauto a cui non si può resistere.
Perciò il capriolo prese a correre di bosco in bosco alla ricerca della fonte di quello straordinario e conturbante profumo.

Quella ricerca divenne la sua ossessione.

Il povero animale non badava più né a mangiare, né a bere, né a dormire, né a nient’altro.
Esso non sapeva donde venisse il richiamo del profumo, ma si sentiva costretto a inseguirlo attraverso burroni, foreste e colline, finché affamato, esausto, stanco morto, andò avanti a casaccio, scivolò da una roccia e cadde, ferendosi mortalmente.

Le sue ferite erano dolorose e profonde.

Il capriolo si leccò il petto sanguinante e, in quel momento, scoprì la cosa più incredibile.
Il profumo, quel profumo che lo aveva sconvolto, era proprio lì, attaccato al suo corpo, nella speciale “sacca” porta muschio che hanno tutti i caprioli della sua specie.
Il povero animale respirò profondamente il profumo, ma era troppo tardi.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il nibbio e il serpente


Il nibbio e il serpente

In una calda giornata primaverile, un giovane serpente strisciava sereno tra le pietre godendosi i raggi solari.
L’aria era tiepida e carica di un buon profumo floreale, ogni animale si sentiva in pace in quel clima piacevole.
Il piccolo serpente si muoveva piano nel prato quando all’improvviso una spaventosa ombra si proiettò sul suo cammino.

L’animale preoccupato alzò la testa per guardare da dove provenisse la macchia scura e scoprì che un terribile nibbio stava puntando dritto dritto su di lui!

Il poverino non ebbe nemmeno il tempo di scappare perché in un lampo il volatile gli piombò addosso afferrandolo con il becco.
Il serpente fu sollevato in cielo da rapace, il quale, senza pietà per le sue grida, volò via il più velocemente possibile.
“Lasciami andare!” implorava lo sfortunato rettile, “Non ti ho fatto niente!”

Ma il nibbio non gli prestò ascoltò.

A quel punto il piccolo serpente si rivoltò su se stesso e con un’abile mossa diede un morso al suo nemico.
Il volatile fu colpito dal veleno della sua preda e fu costretto ad aprire il becco liberando il serpente, che cadde a terra, senza però farsi male.
Il nibbio rimase con la vista annebbiata e, senza più forze a causa del morso velenoso, precipitò sul terreno a peso morto riportando parecchie ferite.

Il serpente si avvicinò al nibbio, ancora stordito, e gli disse:

“Ben ti sta! Io non volevo farti del male ma tu mi ci hai costretto e adesso ne paghi le conseguenze!”
Trascorsero due giorni interi prima che il nibbio potesse riprendere a volare ma, da allora, si tenne sempre ad una certa distanza da tutti i serpenti.

Brano di Esopo

Intervista a Dio


Intervista a Dio
 (a fine pagina troverete l’audio ed il video di questo brano, recitato da Antonio Gerardi, tratto da Youtube)

Ho sognato di fare un’intervista a Dio…
“Ti piacerebbe intervistarmi?” Dio mi domandò.
“Beh, se ne hai il tempo!” dissi io.
Dio sorrise:
“Il mio tempo è l’eternità, comunque cosa vuoi sapere?”
“Eh, non so, cosa ti sorprende dell’umanità…”
(E Dio rispose:)

“Pensate con ansia al futuro, dimenticando il presente.

Cosicché non vivete ne nel presente ne nel futuro.
Vivete la vita come se non doveste morire mai, e morite come se non aveste vissuto mai…
Vi stancate presto di essere bambini.
Avete fretta di crescere e poi vorreste tornare bambini.
Perdete la salute per guadagnare i soldi e poi usate i soldi per recuperare la salute.”
Le mani di Dio presero le mie e restammo in silenzio per un po’, poi gli chiesi…
“Padre, che lezioni di vita desideri che i tuoi figli imparino?”
Dio sorrise e poi rispose:
“Imparino che non possono costringere nessuno ad amarli, quello che possono fare è lasciarsi amare.
Imparino che ciò che vale di più non è quello che hanno nella vita, ma che hanno la vita stessa.

Imparino che non è bene paragonarsi agli altri.

Imparino che una persona ricca non è quella che ha di più, ma è quella che si accontenta dell’essenziale.
Imparino che bastano pochi secondi per aprire profonde ferite nelle persone che si amano, e ci vogliono molti anni per sanarle.
Imparino a perdonare praticando il perdono.
Imparino che ci sono persone che li amano profondamente, ma che non sanno come esprimere o mostrare i loro sentimenti.
Imparino che due persone possono vedere la stessa cosa in due modi differenti.
Imparino che non è sempre sufficiente essere perdonati dagli altri, però sempre bisogna imparare a perdonare se stessi.
E imparino soprattutto che io sono sempre qui.
Sempre.”

Brano senza Autore, tratto dal Web