Il papavero e la lumaca

Il papavero e la lumaca

Un papavero fioriva di buon mattino con il calore del sole dei giorni più caldi di primavera.
E spiegava adagio i suoi petali di un bel rosso fiammante.

Purtroppo erano tutti sgualciti come

quelli di ogni papavero che sboccia.
Una lumaca che si trovava in viaggio per raggiungere il campo di grano, osservò:
“Questa specie di fiore poteva fare a meno di sbocciare… così sgualcito e disordinato.

È impresentabile!”

“Hai ragione,” rispose il papavero, “ma avevo fretta di vedere il sole e i campi di grano dove si trovano i miei fratelli papaveri.”
La lumaca lo osservò incredula e gli domandò:

“E tu saresti lo stesso fiore,

voglio dire della stessa specie, di quegli splendidi papaveri rossi e lucenti tra le spighe di grano?”
“Già!” rispose il papavero che andava stirando i suoi petali uno ad uno, e cominciava a diventare bellissimo.
“Ogni cosa vuole il suo tempo.” continuò, “Se tu avessi aspettato un po’, non avresti dato un giudizio così affrettato quanto ingiusto!”

Brano senza Autore.

Babbo Natale anche a Pasqua

Babbo Natale anche a Pasqua

Ero un bambino di 4 o 5 anni, quando, una sera di dicembre di diversi anni fa, mia madre invito me ed i miei fratelli a recitare una preghiera speciale, prima di andare a dormire, affinché nevicasse.
In quegli anni mio padre si adattava a qualsiasi lavoretto per non farci mancare il necessario, siccome i pochi campi di cui eravamo proprietari non bastavano a sostenere la nostra famiglia.

Qualora avesse nevicato,

per un paio di giorni avrebbe avuto il lavoro assicurato.
Era chiamato a spalare la neve nella vicina stazione ferroviaria, dove veniva retribuito molto bene.
Il ricavato veniva riservato da nostra madre per trascorrere in modo speciale l’imminente Natale, periodo che coincideva anche con il compleanno di nostro padre.
Pregammo con molta devozione, con la fede pura dei bambini e, come per incanto, caddero subito i primi fiocchi di neve.
Ci addormentammo felici dato che il nostro desiderio era stato esaudito e, nei nostri sogni, il manto cresceva a dismisura.

Al mattino, invece,

restammo molto delusi, visto che non vedemmo la neve per strada.
Una abbondante pioggia durante la notte la fece sparire.
Il Natale che seguì fu comunque bello ed indimenticabile poiché il capostazione assegnò lo stesso due giornate di lavoro a mio padre, in cambio della pulitura della strada e di alcuni piccoli lavoretti all’interno della stazione.
Da quel momento in poi associai sempre la figura del nostro capostazione di allora al ruolo di Babbo Natale.
Nella mia immaginazione di bambino, il capostazione in questione, gli assomigliava anche un po’.

Infatti aveva una folta barba bianca,

possedeva pure lui un berretto, anche se di colore e forma diversi, ed il rosso lo si poteva trovare nella sua paletta.
Pensai fosse Babbo Natale anche nel periodo di Pasqua, perché, casualmente, chiamò mio padre perfino qualche giorno prima di questa festività, per fare manutenzione al piccolo giardino ed ai grandi vasi di fiori della stazione.
Il ricavato si tramutò per noi bambini nell’ennesimo inaspettato regalo; ricevemmo infatti quaderni e colori.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La politica

La politica

Ner modo de pensà c’è un gran divario:
mi’ padre è democratico cristiano,
e, siccome è impiegato ar Vaticano,
tutte le sere recita er rosario;

de tre fratelli, Giggi ch’è er più anziano

è socialista rivoluzzionario;
io invece so’ monarchico, ar contrario
de Ludovico ch’è repubblicano.

Prima de cena liticamo spesso

pè via de ’sti princìpi benedetti:
chi vo’ qua, chi vo’ là… Pare un congresso!

Famo l’ira de Dio! Ma appena mamma

ce dice che so’ cotti li spaghetti
semo tutti d’accordo ner programma.

Brano di Trilussa

Soffia

Soffia

Accade tanto tempo fa che un mendicante bussò alla porta di due fratelli, i quali erano in procinto di sedersi a tavola per gustarsi un buon minestrone di fagioli fumanti.
Il mendicante, mostrando la sua ciotola, disse:
“Sto morendo di fame, fatemi un piccolo gesto di carità.
Il profumo di ciò che mangiate mi fa svenire per quanto deve essere buono.”
Il più anziano dei fratelli fece finta di servire un mestolo di fagioli, che era vuoto, e disse:
“Eccoti il piccolo gesto, adesso soffia che potresti scottarti!”

Il mendicante insistette:

“Fatemi un piccolo gesto, vi verrà ricompensato!”
Allora si alzò il fratello minore e, tanto per farlo tacere, gli servì nella ciotola i tanto reclamati fagioli.
Dopo qualche tempo, entrambi i fratelli ebbero un incidente e passarono a miglior vita.
Furono chiamati a render conto del loro operare in vita.
Il più giovane trovò davanti alla porta del paradiso l’Angelo del Signore che gli fece segno di passare oltre, pur avendo combinato qualche marachella.
Il più anziano ricevette lo stesso invito, ma la pesante porta del paradiso non si aprì e l’angelo del Signore disse:

“Prova a soffiare, forse si apre.”

Riconobbe nell’angelo il mendicante e capì quale sarebbe stata la sua sorte.
Del fatto venne a conoscenza cielo e terra e, da allora in poi, nessuno negò mai una porzione di fagioli.

Memorabili le parole di Papa Francesco a Rio de Janeiro,

in Brasile, il 25 luglio 2013 durante la sua prima Giornata Mondiale della Gioventù, che, facendo un discorso ai giovani, riprese un vecchio proverbio:
“Si può sempre aggiungere acqua ai fagioli, perché nessuno ne rimanga senza!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il vecchio mai stato giovane

Il vecchio mai stato giovane

C’era una volta un vecchio che non era mai stato giovane.
In tutta la sua vita, in realtà, non aveva mai imparato a vivere.
E non avendo imparato a vivere, non riusciva neppure a morire.
Non aveva speranze né turbamenti; non sapeva né piangere né sorridere.
Tutto ciò che succedeva nel mondo non lo addolorava e neppure lo stupiva.
Passava le sue giornate oziando sulla soglia della sua capanna, senza degnare di uno sguardo il cielo, l’immenso cristallo azzurro che, anche per lui, il Signore ogni giorno puliva con la soffice bambagia delle nuvole.

Qualche viandante lo interrogava.

Era così carico d’anni che la gente lo credeva molto saggio e cercava di far tesoro della sua secolare esperienza.
“Che cosa dobbiamo fare per raggiungere la felicità?” chiedevano i giovani.
“La felicità è un’invenzione degli stupidi!” rispondeva il vecchio.
Passavano uomini dall’animo nobile, desiderosi di rendersi utili al prossimo.
“In che modo possiamo sacrificarci per aiutare i nostri fratelli?” chiedevano.
“Chi si sacrifica per l’umanità è un pazzo!” rispondeva il vecchio, con un ghigno sinistro.
“Come possiamo indirizzare i nostri figli sulla via del bene?” gli domandavano dei genitori.
“I figli sono serpenti!” rispondeva il vecchio, “Da essi ci si possono aspettare solo morsi velenosi!”
Anche gli artisti e i poeti si recavano a consultare il vecchio che tutti credevano saggio.
“Insegnaci ad esprimere i sentimenti che abbiamo nell’anima!” gli dicevano.

“Fareste meglio a tacere!” brontolava il vecchio.

Poco alla volta, le sue idee maligne e tristi influenzarono il mondo.
Dal suo angolo squallido, dove non crescevano fiori e non cantavano neanche gli uccelli, Pessimismo (perché questo era il nome del vecchio malvagio) faceva giungere un vento gelido sulla bontà, l’amore, la generosità che, investiti da quel soffio mortifero, appassivano e seccavano.
Tutto questo dispiacque molto al Signore, che decise di rimediare.
Chiamò un bambino e gli disse:
“Va’ a dare un bacio a quel povero vecchio!”
Il bambino obbedì.
Circondò con le sue braccia tenere e paffute il collo del vecchio e gli stampò un bacio umido e rumoroso sulla faccia rugosa.

Per la prima volta il vecchio si stupì.

I suoi occhi torbidi divennero di colpo limpidi.
Perché nessuno lo aveva mai baciato.
Così aperse gli occhi alla vita e poi morì, sorridendo.

A volte, davvero, basta un bacio.
Un “Ti voglio bene”, anche solo sussurrato.
Un timido “Grazie.”
Un apprezzamento sincero.
È così facile far felice un altro.
Allora, perché non lo facciamo?

Brano di Bruno Ferrero

L’Angelo del Signore e le tre prove

L’Angelo del Signore e le tre prove

Un saggio, che aveva passato la vita in meditazione e ricerca, scorse una mattina tra la folla uno strano essere, magro, con una folta barba lunga, e gli disse:
“So chi sei, e ti riconosco perché sono un mistico:
tu sei l’Angelo del Signore, e vai per la terra a compiere i suoi disegni.
Lascia allora ch’io ti segua, lascia che ti serva perché questo è ciò che per tutta la vita ho desiderato: essere utile ai disegni di Dio.”
L’altro lo guardò perplesso, e dopo un lungo silenzio rispose:
“Sia; ma ad una condizione:
rimarrai con me sino al tramonto senza criticare mai le mie azioni né chiedere mai spiegazione del mio operato.”
“Va bene.” esclamò il saggio, “So tacere quando occorre…”
E si misero in cammino.
Dopo un po’ giunsero in vista d’un villaggio i cui abitanti s’eran raccolti attorno a un muro che recintava un orto e cominciavano a demolirlo pietra dopo pietra.
L’individuo magro dalla barba folta chiese loro ragione di quel lavoro, e uno rispose:

“Vedi quei due ragazzi?

Sono orfani, e il loro unico sostentamento è dato da questo piccolo orto.
Stamane, passando da qui, il giudice del distretto è stato colpito da una pietra caduta dal muretto; ha ritenuto che il muretto fosse pericolante e ha ingiunto ai ragazzi di demolirlo completamente entro il tramonto, pena la confisca dell’orto.
Poiché non ce la faranno da soli né hanno denaro per pagar manovali, noi tutti li aiutiamo!”
Udito ciò, l’Angelo del Signore gli rispose:
“Ma perché proprio tu sei qui?
Non hai forse una mucca in atto di figliare, bisognosa dunque del tuo aiuto?”
Poi, mentre quello correva alla sua stalla, preso in disparte uno dopo l’altro quelli che lavoravano, parlò loro della necessità che s’occupassero dei fatti propri, e li convinse tutti ad abbandonare i due orfani che, rimasti soli, gli lanciarono una lunga, sconsolata occhiata di rimprovero; poi, con le lacrime agli occhi, presero a demolire il muro dicendo:
“Facciamo quanto possibile, e forse il giudice ci permetterà di terminare domani!”
Il saggio e l’uomo magro ripresero il cammino, non senza una certa perplessità del primo che a un certo momento sbottò:
“Ma non ti pare di aver agito male nei riguardi di quei poveri orfani?”

L’altro gli rispose:

“Ricordati la tua promessa; taci e seguimi!”
Nel primo pomeriggio i due giunsero sulle rive di un grande fiume.
I traghettatori vociavano e berciavano per richiamare l’attenzione dei pellegrini, ma non vollero abbassare il loro prezzo quando l’Angelo del Signore protestò:
“Quattro monete a testa?
Così tanto?
Non potremmo darvene due?”
“Niente da fare, oppure andate laggiù, da Husein il povero.
Ha una barca sgangherata e traghetta per una sola moneta!” risposero diversi traghettatori
Fecero così, e infatti Husein, un giovane che non poteva acquistare una barca più bella, doveva proprio accontentarsi delle briciole.
Li traghettò per una moneta a testa, ma quando arrivarono sulla riva opposta l’Angelo del Signore sguainò la spada e menando un fendente sul fondo della barca vi fece un buco che la colò a picco.
Husein cominciò a inveire, ma i due si allontanarono in fretta.

Poco dopo il saggio sbottò:

“Ma perché hai rovinato quella barca?
Quel giovane è povero, ha bisogno di soldi.
Non potrà più lavorare per tutta la giornata!”
“Ti ho detto di tacere, dunque taci!” ribatté l’altro.
Era quasi il tramonto quando si trovarono a passare accanto alla casetta di un boscaiolo.
Come questi li vide, andò loro incontro dicendo:
“Viandanti, è felice dovere d’ogni buon musulmano ospitare alla propria tavola lo straniero.
Accomodatevi da noi e desinate di buon grado!”
Così i due passarono più di un’ora in compagnia del boscaiolo, parlando con i suoi quattro figli e in particolare con l’ultimo, che era il prediletto dei genitori, oramai attempati.
Quando venne il momento di partire, l’Angelo del Signore chiese indicazioni sulla strada per la città.

Il boscaiolo spiegò:

“Segui il sentiero fin dopo la collina, poi prendi quello a destra dei due alberi…”
Ma l’Angelo pareva non capir bene, talché alla fine disse:
“Facci accompagnare dal tuo ultimogenito fino a quei due alberi, così saremo sicuri di non sbagliare!”
Così fu fatto, e i tre si incamminarono.
Superata la collina, giunti infine alla biforcazione, il ragazzo indicò la strada giusta, li salutò e si volse per tornare indietro.
Allora l’Angelo del Signore sguainò di nuovo la spada e con un gran fendente gli tagliò netta la testa.
L’uomo saggio inorridì…
Rimase un momento col fiato mozzo, e poi, violentemente, urlò:
“Angelo del Signore?
Macché Angelo del Signore:
un delinquente, un assassino, ecco chi sei!
L’Angelo del demonio, forse.
Mio Dio, ma come ho fatto a non capirlo prima?
Vattene, vattene via!
La maledizione su di te, assassino!”
Al che l’altro rispose:
“Certo, me ne vado, e capisco perché non mi vuoi più seguire.

D’altronde non lo potresti fare:

avevamo pattuito che non avresti dovuto protestare per ciò che facevo, né criticare, e per tre volte hai contravvenuto al patto.
Tuttavia, prima di lasciarti, ti darò la spiegazione dei fatti.
Quella gente che aiutava i due orfani, hai visto in effetti com’ era egoista?
Non appena gli ho parlato dei loro interessi se ne sono andati.
Orbene:
ai piedi di quel muretto era sepolta una marmitta piena di monete d’oro.
Se quella gente l’avesse trovata, non ne avrebbe parlato coi ragazzi e si sarebbe spartito il tesoro di nascosto.
Ora i due giovani hanno trovato le monete, e il loro avvenire è assicurato!”
“Sì, ma quella barca?” domandò il saggio.
L’angelo del Signore rispose:
“Dietro di noi stava sopraggiungendo una banda di predoni che aveva compiuto un grande saccheggio.
I predoni, giunti al fiume, hanno razziato tutte le barche per discendere il fiume sino alla loro nave, dove tutte le barche sono state affondate.
La sola che non hanno potuto prendere è quella di Husein, che la potrà riparare durante la notte e domani, unico traghettatore, lavorerà per molti giorni al prezzo che vuole!”
“Sì, ma il ragazzo che hai ucciso?” chiese allora il saggio, “Il più piccolo, il più caro a quei boscaioli!”
“Questa notte sarebbe impazzito, e nella sua follia avrebbe ammazzato nel sonno i suoi fratelli.

Ora, che cosa è preferibile per quei genitori?

Piangere il loro figlio minore, confortati dagli altri tre, o avere i primi tre uccisi dal fratellino, e quest’ultimo ucciso dal boia?
Stolto l’uomo che giudica le azioni di Dio; anzi:
stolto è l’uomo che giudica, quando gli elementi di giudizio possesso sono inadeguati o scarsi!”
Conclusa la spiegazione, l’Angelo del Signore se ne andò.

Brano tratto dal libro “Saggezza islamica.” di Gabriel Marcel. Edizione Paoline.

Gli abeti

Gli abeti

Una pigna gonfia e matura si staccò da un ramo di abete e rotolò giù per il costone della montagna, rimbalzò su una roccia sporgente e finì con un tonfo in un avvallamento umido e ben esposto.
Una manciata di semi venne sbalzata fuori dal suo comodo alloggio e si sparse sul terreno.
“Urrà!” gridarono i semi all’unisono, “È arrivato il nostro momento!”
Cominciarono con entusiasmo ad annidarsi nel terreno, ma scoprirono ben presto che l’essere in tanti provocava qualche difficoltà, ed esclamavano:
“Fatti un po’ più in là, per favore!”
“Attento!
Mi hai messo il germoglio in un occhio!”

E così via.

Comunque, urtandosi e sgomitando, tutti i semi si trovarono un posticino per germogliare.
Tutti meno uno.
Un seme bello e robusto dichiarò chiaramente le sue intenzioni:
“Mi sembrate un branco di inetti!
Pigiati come siete, vi rubate il terreno l’un con l’altro e crescerete rachitici e stentati.
Non voglio avere niente a che fare con voi.
Da solo potrò diventare un albero grande, nobile e imponente.

Da solo!”

Con l’aiuto della pioggia e del vento, il seme riuscì ad allontanarsi dai suoi fratelli e piantò le radici, solitario, sul crinale della montagna.
Dopo qualche stagione, grazie alla neve, alla pioggia e al sole divenne un magnifico giovane abete che dominava la valletta in cui i suoi fratelli erano invece diventati un bel bosco che offriva ombra e fresco riposo ai viandanti e agli animali della montagna.
Anche se i problemi non mancavano:
“Stai fermo con quei rami!
Mi fai cadere gli aghi!”

“Mi rubi il sole!

Fatti più in là!”
“La smetti di scompigliarmi la chioma?”
L’abete solitario li guardava ironico e superbo.
Lui aveva tutto il sole e lo spazio che desiderava.
Ma una notte di fine agosto, le stelle e la luna sparirono sotto una cavalcata di nuvoloni minacciosi.
Sibilando e turbinando il vento scaricò una serie di raffiche sempre più violente, finché devastante sulla montagna si abbatté la bufera.
Gli abeti nel bosco si strinsero l’un l’altro, tremando, ma proteggendosi e sostenendosi a vicenda.
Quando la tempesta si placò, gli abeti erano estenuati per la lunga lotta, ma erano salvi.
Del superbo abete solitario non restava che un mozzicone scheggiato e malinconico sul crinale della montagna.

Brano tratto dal libro “C’è ancora qualcuno che danza.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

L’abete che volle tornare a casa

L’abete che volle tornare a casa

Il piccolo abete aveva impiegato tutta l’estate a crescere.
Si era proprio messo d’impegno e ora giocava felice con i venti invernali.
Si sentiva abbastanza robusto per resistere anche ai (venti) più forti.
Le radici, che si erano ramificate in profondità, conferivano al giovane abete una baldanzosa sicurezza.
Ma una gelida mattina di dicembre, mentre i fiocchi di neve sfarfallavano pigri, l’abete avvertì uno strumento acuminato che gli tagliava e strappava le radici.
Poco dopo due mani d’uomo, rudi e sgarbate, lo estirparono dalla terra e lo caricarono nel baule puzzolente di un’automobile che ripartì subito verso la città.
Il viaggio fu terribile per il povero abete, che pianse tutte le sue lacrime di profumata resina.
Dopo mille dolorosi sballottamenti, si ritrovò finalmente alla luce.

Lo misero in un grosso vaso, in bella mostra.

La terra del vaso era fresca e l’abete ebbe un po’ di sollievo e ricominciò a sperare.
Divenne perfino euforico, quando mani di donna e piccole mani di bambini cominciarono a infilare tra i suoi rami fili dorati, luci colorate e lustrini scintillanti.
“Mi credono il re degli alberi.” pensava, “Sono stato veramente fortunato.
Altro che starmene là al freddo e alla neve!”
Per un po’ di giorni tutto andò bene.
L’abete faceva un figurone, nel suo abbigliamento luccicante.
Era contento anche del presepe che avevano collocato ai suoi piedi:
guardava con commozione Maria e Giuseppe, il Bambino nella mangiatoia e anche l’asino e il bue.
Di sera, quando tutte le piccole luci colorate erano accese, gli abitanti della casa lo guardavano e facevano: “Ooooh, che bello!”
Poi gli venne sete.

Sul principio era sopportabile.

“Qualcuno si ricorderà di sicuro di darmi un po’ d’acqua.” pensava l’abete.
Ma nessuno si ricordava e la sofferenza dell’abete divenne terribile.
I suoi aghi, i suoi bellissimi aghi verde scuro, cominciarono ad ingiallire e cadere.
Si rese conto che aveva lentamente cominciato a morire.
Una sera, ai suoi piedi vennero ammucchiati molti pacchetti confezionati con carta luccicante e nastri colorati.
C’era molta eccitazione nell’aria.
Il mattino dopo scoppiò il finimondo:
bambini e adulti aprivano i pacchetti, gridavano, si abbracciavano.
L’abete riuscì appena a pensare:
“Tutti qui parlano d’amore, ma fanno morire me…”
Improvvisamente una piccola mano lo sfiorò.

La sorpresa dell’abete fu infinita:

davanti a lui c’era il Bambino del presepe.
“Piccolo abete,” disse il Bambino Gesù, “vuoi tornare a vivere nel tuo bosco, in mezzo ai tuoi fratelli?”
“Oh sì, per piacere!” rispose cortesemente l’albero.
“Ora, che hanno avuto i regali, non gliene importa più niente di te…
E nemmeno di me!”
Il Bambino Gesù prese l’abete, che d’incanto ridivenne verde e vigoroso.
Poi insieme volarono via dalla finestra.

Brano tratto dal libro “Le storie del Buon Natale.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Le castagne nei ricci

Le castagne nei ricci

C’erano una volta due fratelli che vivevano in campagna con la loro famiglia.
Il più grande un giorno decise di andare a raccogliere delle castagne.
Arrivato nel bosco sotto gli alberi di castagno iniziò a vedere i primi ricci contenenti questo frutto prelibato.
Contò tre castagne in un riccio e dopo essersi messo i guanti per non pungersi, aprì la sua busta in tela ed iniziò a riempirla con i ricci di castagna.

Alla fine del pomeriggio, prima di rientrare a casa contò di aver raccolto 200 ricci.

Appena rientrato a casa invitò tutti i suoi amici per la sera, per far loro assaggiare le sue castagne.
Prima che la serata iniziasse, chiese aiuto al fratello minore per sgusciare i ricci, aprire le castagne e metterle sul fuoco, mentre lui preparava la serata.
Il fratello più piccolo in poco meno di 30 minuti preparò tutte le castagne e iniziò a cucinarle.
Quando gli amici del fratello più grande iniziarono ad arrivare, il più piccolo era seduto di fronte al camino che cuoceva sulla brace le castagne, usando una grande padella.
Appena pronte, le servì agli amici che nel frattempo erano tutti arrivati.

C’erano più di 20 persone sedute intorno al tavolo:

le castagne terminarono in pochissimi minuti, prima di quanto il fratello maggiore avesse previsto.
“Che cosa hai combinato con tutte le castagne che ti ho portato?” esclamò arrabbiato il fratello grande verso il più piccolo.
“Le ho preparate tutte, come mi hai chiesto!” rispose.
“Non è possibile!” esclamò il primo.
“Erano oltre 600 castagne! Siamo in 20.
Avrebbero dovuto esserci almeno 30 castagne per ognuno, invece sono finite subito.
E io nemmeno le ho assaggiate!”

Il più piccolo ribatté spazientito:

“Come fai a dire che mi hai portato 600 castagne? Io ne ho contate meno di 200.”
“Non è possibile!” replicò il fratello maggiore “Ho aperto un riccio e c’erano ben 3 castagne!”
Il più piccolo sorrise e rispose:
“Se tu avessi aperto anche gli altri 199 ricci ti saresti accorto che solo pochissimi contenevano 3 castagne; qualcuno conteneva 2 castagne; la maggior parte ne conteneva solo una; c’erano anche ricci vuoti e altri che contenevano una castagna marcia!”
Il maggiore dei due fratelli rimase a bocca aperta, riflettendo sul suo errore, cercando le parole da rivolgere ai suoi invitati delusi, per scusarsi con loro.

Brano senza Autore, tratto dal Web

L’uccelletto (L’uccello in Chiesa)

L’uccelletto
(L’uccello in Chiesa)
(a fine pagina troverete l’audio ed il video di questo brano, narrato da Andrea Bocelli, tratto da Youtube)

Era d’agosto e un povero uccelletto,
ferito dalla fionda d’un maschietto,
andò, per riposare l’ala offesa,
sulla finestra aperta d’una chiesa.

Dalle tendine del confessionale
il parroco intravide l’animale
ma, pressato dal ministero urgente,
rimase intento a confessar la gente.
Mentre in ginocchio alcuni, altri a sedere

dicevano i fedeli le preghiere,

una donna, notato l’uccelletto,
lo prese al caldo e se lo mise al petto.
D’un tratto un cinguettio ruppe il silenzio e il prete a quel rumore
il ruolo abbandonò di confessore
e scuro in viso peggio della pece
s’arrampicò sul pulpito e poi fece:

“Fratelli, chi ha l’uccello, per favore,
esca fuori dal tempio del Signore.”
I maschi, un po’ stupiti a tal parole,
lenti s’accinsero ad alzar le suole.
Ma il prete a quell’errore madornale

“Fermi!” gridò, “mi sono espresso male.

Rientrate tutti e statemi a sentire:
solo chi ha preso l’uccello deve uscire.”

A testa bassa, la corona in mano,
cento donne s’alzarono pian piano.
Ma mentre se n’andavano ecco allora
che il parroco strillò: “Sbagliate ancora!
Rientrate tutte quante, figlie amate,
ch’io non volevo dir quel che pensate.”
“Ecco, quello che ho detto torno a dire:
solo chi ha preso l’uccello deve uscire,
ma mi rivolgo, non ci sia sorpresa,

soltanto a chi l’uccello ha preso in chiesa.”

Finì la frase e nello stesso istante
le monache s’alzaron tutte quante,
e con il volto pieno di rossore
lasciavano la casa del Signore.
“Oh Santa Vergine!” esclamò il buon prete,
“Fatemi la grazia, se potete!”
Poi: “Senza fare rumore dico, piano piano,
s’alzi soltanto chi ha l’uccello in mano.”
Una ragazza, che col fidanzato
s’era messa in un angolo appartato,
sommessa mormorò, col viso smorto:
“Che ti dicevo? Hai visto? Se n’è accorto!”

Brano di Trilussa