Il paese dei cani


Il paese dei cani

C’era una volta uno strano piccolo paese.
Era composto in tutto di novantanove casette, e ogni casetta aveva un giardinetto con un cancelletto, e dietro il cancelletto un cane che abbaiava.
Facciamo un esempio.
Fido era il cane della casetta numero uno e ne proteggeva gelosamente gli abitanti, e per farlo a dovere abbaiava con impegno ogni volta che vedeva passare qualcuno degli abitanti delle altre novantotto casette, uomo, donna o bambino.
Lo stesso facevano gli altri novantotto cani, e avevano un gran da fare ad abbaiare di giorno e di notte, perché c’era sempre qualcuno per la strada.
Facciamo un altro esempio.
Il signore che abitava la casetta numero 99, rientrando dal lavoro, doveva passare davanti a novantotto casette, dunque a novantotto cani che gli abbaiavano dietro mostrandogli fauci e facendogli capire che avrebbero volentieri affondato le zanne nel fondo dei suoi pantaloni.
Lo stesso capitava agli abitanti delle altre casette, e per strada c’era sempre qualcuno spaventato.

Figurarsi se capitava un forestiero.

Allora i novantanove cani abbaiavano tutti insieme, le novantanove massaie uscivano a vedere che succedeva, poi rientravano precipitosamente in casa, sprangavano la porta, passavano in fretta gli avvolgibili e stavano zitte zitte dietro le finestre a spiare fin che il forestiero non fosse passato.
A forza di sentir abbaiare i cani gli abitanti di quel paese erano diventati tutti un po’ sordi, e tra loro parlavano pochissimo.
Del resto non avevano mai avuto grandi cose da dire e da ascoltare.
Pian piano, a starsene sempre zitti e immusoniti, disimpararono anche a parlare.

E alla fine capitò che i padroni di casa si misero ad abbaiare come i loro cani.

Loro forse credevano di parlare, ma quando aprivano la bocca si udiva una specie di “bau bau” che faceva venire la pelle d’oca.
E così, abbaiavano i cani, abbaiavano gli uomini e le donne, abbaiavano i bambini mentre giocavano, le novantanove villette sembravano diventate novantanove canili.
Però erano graziose, avevano tendine pulite dietro i vetri e perfino gerani e piantine grasse sui balconi.
Una volta capitò da quelle parti Giovannino Perdigiorno, durante uno dei suoi famosi viaggi.
I novantanove cani lo accolsero con un concerto che avrebbe fatto diventare nervoso un paracarro.
Domandò un’informazione a una donna ed essa gli rispose abbaiando.
Fece un complimento a un bambino e ne ricevette in cambio un ululato.
“Ho capito!” concluse Giovannino “È un’epidemia!”

Si fece ricevere dal sindaco e gli disse:

“Io un rimedio sicuro ce l’avrei.
Primo, fate abbattere tutti i cancelletti, tanto i giardini cresceranno benissimo anche senza inferriate.
Secondo, mandate i cani a caccia, si divertiranno di più e diventeranno più gentili.
Terzo, fate una bella festa da ballo e dopo il primo valzer imparerete a parlare di nuovo.”
Il sindaco gli rispose: “Bau! Bau!”
“Ho capito,” disse Giovannino “il peggior malato è quello che crede di essere sano!”
E se ne andò per i fatti suoi.
Di notte, se sentite abbaiare molti cani insieme in lontananza, può darsi che siano dei cani, ma può anche darsi che siano gli abitanti di quello strano, piccolo paese.

Brano tratto dal libro “Favole al telefono.” di Gianni Rodari

L’Usignolo e la Rosa. (L’Usignolo e l’Amore)


L’Usignolo e la Rosa.
(L’Usignolo e l’Amore)

Un giovane studente si lamentava poiché nel proprio giardino non c’era una sola rosa rossa.
Ah, da quali sciocchezze dipende la felicità!
Ho letto gli scritti di tutti i sapienti, conosco tutti i segreti della filosofia, ma nonostante ciò la mancanza di una rosa rossa sconvolge la mia vita!
“La donna che amo ha detto che ballerà con me solo se le porterò delle rose rosse, ma in tutto il giardino non c’è una sola rosa rossa!”
Anche l’usignolo lo ascoltava commosso.
“Il principe dà un ballo domani sera!” singhiozzava ad alta voce l’uomo “Io e lei siamo stati invitati.
Se le porterò una rosa rossa ballerà con me fino all’alba.
Ma non v’è rosa rossa nel mio giardino, e così me ne starò tutto solo e lei mi passerà davanti senza degnarmi di uno sguardo.
Non si curerà di me e il mio cuore si spezzerà.”
“Ecco uno che sa veramente amare!” disse l’usignolo “Quello che io canto, egli lo soffre:
quello che per me è gioia, per lui è dolore.

L’amore è una cosa meravigliosa:

è più prezioso di smeraldi e diamanti.
Non si può comprare con perle e pietre preziose.
Non è venduto al mercato; non ci sono mercanti o bilance per l’amore.”
“Ballerà con tutti, ma non con me.
Perché non ho da offrire una rosa rossa!” si disperò l’uomo buttandosi nell’erba e coprendo il proprio viso con le mani.
“Perché piange?” chiese una lucertolina marrone, passandogli accanto di corsa, con la coda in aria.
“Già, perché piange?” chiese una farfalla che svolazzava dietro a un raggio di sole.
“Sì, perché?” sussurrò una primula alla sua vicina con una voce dolce, sommessa.
“Piange per una rosa rossa!” rispose l’usignolo.
“Per una rosa rossa?” esclamarono “Che cosa ridicola!”
La lucertolina, che era un po’ cinica, sghignazzò senza ritegno.
Ma l’usignolo capiva il segreto del dolore dell’uomo e se ne stette silenzioso, sulla quercia, a riflettere sul mistero del dolore.

D’un tratto spalancò le ali brune e si librò in aria.

Attraversò il boschetto come un’ombra, e come un’ombra veleggiò attraverso il giardino.
Al centro del prato c’era un bel rosaio, e quando lo vide l’usignolo si posò su uno dei suoi rami.
“Dammi una rosa rossa,” implorò “e ti canterò la più dolce delle mie canzoni!”
Il rosaio scosse i rami.
“Le mie rose sono bianche!” rispose “Bianche come la spuma del mare, e più bianche della neve sui monti.
Ma va’ da mio fratello, che cresce intorno alla vecchia meridiana, e forse lui ti darà quello che cerchi.”
Così l’usignolo volò fino al rosaio che cresceva intorno alla vecchia meridiana.
“Dammi una rosa rossa,” implorò “e ti canterò la più dolce delle mie canzoni!”
Ma il rosaio scosse i rami.
“Le mie rose sono gialle!” rispose “Gialle come l’asfodelo che fiorisce nei campi, gialle come grano.
Ma va’ da mio fratello che fiorisce sotto la finestra dell’uomo, e forse lui ti darà quello che cerchi.”
Così l’usignolo volò al rosaio che cresceva sotto la finestra dell’uomo.
“Dammi una rosa rossa,” esclamò “e ti canterò la più dolce delle mie canzoni.”

Ma il rosaio scosse i rami.

“Le mie rose sono rosse,” rispose “più rosse del corallo.
Ma l’inverno mi ha gelato le vene, la neve mi ha distrutto i germogli e la tempesta mi ha spezzato i rami: non avrò nemmeno una rosa”.
“Una rosa rossa è tutto quello che voglio!” gridò l’usignolo “Solo una rosa rossa!
Non esiste un modo per procurarmela?”
“Una maniera c’è,” rispose il rosaio “ma è così terribile che non ho il coraggio di dirtela!”
“Dimmela,” disse l’usignolo “io non ho paura”.
“Se vuoi una rosa rossa,” disse il rosaio “devi tingerla con il tuo sangue.
Devi cantare per me col petto contro una delle mie spine.
Tutta la notte devi cantare per me, e la spina deve trafiggerti il cuore,
e il tuo sangue deve scorrere nelle mie vene e diventare mio.”
“La morte è un prezzo alto da pagare per una rosa rossa!” disse l’usignolo “La vita è bella e cara tutti.
Eppure l’amore è più grande della vita.
E che cos’è mai il cuore di un uccello in confronto al cuore di un uomo?”
Si librò in volo e ritornò dall’uomo, che continuava a disperarsi.
“Sii felice!” gli gridò l’usignolo “Sii felice!

Avrai la tua rosa rossa.

La tingerò io con il sangue del mio cuore.
In cambio ti chiedo solo di essere sincero nel tuo amore.”
L’uomo alzò il capo, ma naturalmente non capiva nulla di quello che l’usignolo diceva.
Ma la quercia capì e si rattristò, perché amava molto l’usignolo che aveva costruito il proprio nido in mezzo ai suoi rami.
“Cantami un’ultima canzone,” sussurrò “sarò tanto sola quando tu non ci sarai più!”
L’usignolo cantò per la quercia e la sua voce sembrava acqua zampillante da una fonte d’argento.
L’uomo se ne andò, sbuffando:
“L’usignolo ha una bella voce, ma certamente nessun sentimento.
Pensa solo al canto, alle belle note.
Non gliene importa niente degli altri.

Sono tutti così gli artisti!”

Andò nella sua stanza, si distese sul letto e, pensando alla sua amata, si addormentò.
Quando in cielo si accese la luna, l’usignolo volò al roseto e mise il petto contro una spina.
Tutta la notte cantò, col petto contro la spina.
Anche la fredda luna di cristallo si chinò e ascoltò.
Tutta la notte cantò, e la spina gli penetrò sempre più profondamente nel petto, mentre il sangue della vita scorreva via.
Sbocciò una rosa meravigliosa, rossa come il sole d’oriente, rossa più di un rubino.
Ma la voce dell’usignolo si affievolì.
Le sue piccole ali cominciarono a tremare e un velo di dolore gli annebbiò gli occhi.
La sua voce meravigliosa si spense in un’ultima esplosione di trilli, mentre la rosa meravigliosa spalancava i petali alla fredda aria del mattino.
“Guarda, guarda!” gridò il rosaio.
“La rosa è finita ora!”
Ma l’usignolo non rispose, perché giaceva morto nell’erba alta.
A mezzogiorno, l’uomo aprì la finestra e guardò fuori.
“Ehi, ma che fortuna incredibile!” esclamò.
“Qui c’è una rosa rossa!
Non ho mai visto una rosa così in tutta la vita.
Così bella che di sicuro deve avere un lungo nome latino!”

Si spenzolò dalla finestra e la colse.

Poi corse alla casa della donna dei suoi sogni con la rosa in mano.
“Hai detto che avresti ballato con me se ti avessi portato una rosa rossa!” esclamò l’uomo.
“Ecco la rosa più rossa del mondo.
La porterai stasera sul cuore, e quando balleremo insieme ti dirò quanto ti voglio bene!”
Ma la donna si accigliò.
“Non mi serve più.
Non si intona con il mio vestito.
E poi il nipote del banchiere mi ha mandato dei gioielli veri, e tutti sanno che i gioielli costano molto più dei fiori!”
“Sei solo un’ingrata!” disse rabbioso l’uomo.
E gettò la rosa nella strada.
La rosa rossa finì in una pozzanghera e la ruota di un carro la schiacciò.
“L’amore non esiste!” concluse l’uomo.
E tornò a casa.
Si chiuse dentro la sua stanza, prese lo dallo scaffale un vecchio libro polveroso, e si mise a leggere.

Brano tratto dal libro “Il principe felice e altri racconti.” di Oscar Wilde

Ci si innamora così…


Ci si innamora così…

Ci si innamora così, cercando nella persona amata il punto a nessuno rilevato,

che è dato in dono solo a chi scruta, ascolta con amore.

Ci si innamora da vicino, ma non troppo, ci si innamora da un angolo acuto un poco in disparte in una stanza,

presso una tavolata,

seduto in un giardino dove gli altri ballano

al ritmo di una musichetta insulsa e decisiva che fa

da colla di pesce per una faccia che si appunta a spilli sul diaframma del petto.

Brano tratto dal libro “Tu, mio.” di Erri De Luca

La sfida del Re ai suoi tre figli


La sfida del Re ai suoi tre figli

Un grande re aveva tre figli, e voleva sceglierne uno come erede.
Era in difficoltà, perché tutti e tre erano molto intelligenti, molto coraggiosi.
Chi scegliere?
Si rivolse dunque a un saggio, che gli suggerì un’idea!
Il re tornò a palazzo e convocò i tre figli.
Diede a ciascuno di loro una borsa contenente dei semi, e disse loro che sarebbe partito per un pellegrinaggio:
“Starò via qualche anno: uno, due, tre, forse di più.
E per voi questa sarà una prova: quando torno, mi dovrete ridare questi semi.
E chi di voi li proteggerà meglio, sarà il mio erede!”
Poi partì per il pellegrinaggio.

Il primo figlio pensò:

“Cosa dovrei fare con questi semi?”
E convinto di fare la cosa migliore, per proteggerli meglio da qualsiasi cosa, li chiuse in uno scrigno di ferro, in modo da poterli rendere intatti al ritorno del padre.
Il secondo pensò:
“Se li rinchiudo come ha fatto mio fratello, moriranno.
E un seme morto non è affatto un seme.”
Mio padre potrebbe obiettare:
“Io ti ho dato dei semi vivi, che potevano crescere, mentre questi sono morti:

ora non potranno più crescere.”

Per cui andò al mercato e li vendette, e conservò il denaro, pensando:
“Quando mio padre tornerà, andrò al mercato, comprerò nuovi semi e gliene ridarò di migliori.”
Ma fu il terzo a fare la cosa migliore.
Andò in giardino e li seminò.
Tre anni dopo, quando il padre tornò, il primo figlio aprì lo scrigno.
Quei semi erano tutti morti, puzzavano, e il padre disse:
“Cosa? Sono forse questi i semi che ti ho dato? Avevano la possibilità di fiorire e donare una fragranza squisita, mentre questi puzzano; no, questi non sono i miei semi!”
Andò dal secondo figlio che si precipitò al mercato, comprò semi nuovi e tornò a casa, dicendo: “Ecco i tuoi semi!”

E il padre commentò:

“La tua idea è migliore di quella di tuo fratello, ma non sei ancora abile come io vorrei che fossi!”
Quando andò dal terzo, il padre sperava e trepidava al pensiero di ciò che aveva potuto fare.
E il terzo figlio lo condusse in giardino dove erano spuntate milioni di piante, e milioni di fiori.
Il figlio disse:
“Questi sono i semi che mi hai dato.
Non appena le piante saranno adulte, li raccoglierò e te li restituirò.
Adesso stanno ancora crescendo!”
Il re disse:
“Tu sei il mio erede.
Ecco come ci si deve comportare con i semi!”

Brano di Osho Rajneesh

L’albero dai frutti d’oro


L’albero dai frutti d’oro

C’era una volta un imbroglione che fu catturato e condannato a morte.
Chiese clemenza perché gli venisse salvata la vita e per convincere i giudici, offrì un segreto sbalorditivo:
il metodo per piantare alberi capaci di produrre frutti d’oro.
La notizia giunse al Sovrano, il quale pensò che valesse la pena fare un tentativo.
L’imbroglione spiegò che era pronto a dimostrare la sua straordinaria capacità:
gli sarebbero serviti soltanto un pizzico di polvere d’oro, e una pala.
Il sovrano accettò: “Ma, se non è vero, finirai nelle mani del boia!” disse.
Il mattino seguente, il Re insieme a tutta la sua corte, si ritrovarono nel giardino reale.
L’uomo si inchinò profondamente davanti a tutti i nobili e disse:

“Sua Maestà vedrà quanto è semplice.

Io scaverò una piccola buca nella terra:
vi metterò un pizzico d’oro e, per tre giorni, verserò un secchio d’acqua.
Il terzo giorno l’albero spunterà, e porterà tre frutti d’oro che a loro volta potranno essere seminati e diventare altri alberi, ognuno carico di frutti d’oro!”
“Allora!” si spazientì il Re “Smettila di chiacchierare, e semina l’oro!
Se fra tre giorni da ora non vedrò i frutti d’oro, finirai sul patibolo!”
“Oh, sommo Signore!” piagnucolò il furbo imbroglione “Non posso farlo io direttamente!
Tale segreto funzionerà solo a una condizione:
la mano che seminerà l’oro dovrà essere totalmente innocente e non aver mai commesso nulla di ingiusto!

In caso contrario il prodigio non avverrà.

Per questo motivo, come Sua Maestà potrà ben comprendere, non mi è possibile utilizzare il segreto da solo, per me stesso.
Ma, Sua Maestà è nobile e clemente, pertanto potrà compiere questo gesto.”
Il Re afferrò la vanga, ma gli venne in mente quello che aveva commesso durante l’ultima guerra in difesa del regno.
“Le mie mani grondano di crudeltà, compiute in guerra verso i nemici!
Renderei vana la magia.
È bene che ci provi qualcun altro.”
Il Sovrano fece un cenno verso il Ministro del Tesoro, ma il Ministro, invece di avvicinarsi, si ritrasse.
“Oh magnifico Sovrano, ti ho sempre servito fedelmente, ma una volta, una sola volta, mi è occorso un incidente increscioso nella camera del Tesoro:
un pezzo d’oro è rimasto attaccato alla suola delle mie scarpe, e così…”
“Va bene!” brontolò il Re “Sarà il mio incorruttibile Giudice supremo a impugnare la pala!”

Il Giudice rifiutò, con un inchino:

“Volentieri lo farei, Sire.
Tuttavia in questo momento sta per iniziare un importante processo a cui non posso assolutamente mancare… Scusatemi!”
Il Re si voltò a destra e a sinistra, e vide che piano piano, Ministri, gentiluomini, consiglieri, e cortigiani, se l’erano squagliata.
Allora si mise a ridere e, rivolto all’imbroglione, disse:
“Me l’hai fatta, furbo delinquente!
Così, ora so per certo che nessuno è innocente.
Neppure io!
Ho capito la lezione:
prendi i tuoi soldi, vattene, e non farti mai più vedere!”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il vecchio pittore


Il vecchio pittore

Aveva lunghi capelli e occhi come le stelle.
Un giorno fu colpita da una malattia misteriosa che lentamente fece spegnere le stelle nei suoi occhi e la trascinò in un sonno simile alla morte.
Nei rari momenti di lucidità invocava la primavera e chiedeva di vedere i fiori del giardino.

Ma era inverno e il giardino era ingiallito e le piante secche.

I suoi genitori chiesero aiuto ai medici, ma nessuno seppe capire quella strana malattia.
Fu sentita anche la maga del villaggio: disse che la fanciulla sarebbe guarita solo se avesse visto i fiori della primavera.
La disperazione scese allora in quella casa perché tutti presentivano che la fanciulla non sarebbe vissuta sino alla nuova stagione.

Venne a conoscenza della storia un vecchio pittore;

era povero, dormiva in una barca e di notte si recò nel piccolo giardino che stava davanti alla finestra della fanciulla.
Faceva molto freddo, ma non se ne curava e per tutta la notte, con le mani intirizzite, dipinse fiori bellissimi sul muro di cinta: per incanto nel giardino era fiorita la primavera.

Al mattino, quando la fanciulla,

in uno dei suoi rari momenti di lucidità, aprì gli occhi e vide i fiori, il suo viso si illuminò di gioia.
Da quel giorno incominciò a star meglio e guarì, mentre del vecchio pittore non si seppe più nulla.
Lo cercarono tra le onde e sulla riva del mare, ma lui dormiva per sempre nella sua barca dove era morto di gelo.

Brano di Romano Battaglia

È importane osservare la natura


È importane osservare la natura

Un padre ricco, volendo che suo figlio sapesse quale fosse il significato di essere povero, gli fece passare alcune giornate con una famiglia di contadini.
Il bambino trascorse tre giorni e tre notti nei campi.
Di ritorno in città, ancora in macchina, il padre gli chiese:
“Cosa mi dici della tua esperienza?”

“Bella!” rispose il bambino.

“Hai appreso qualcosa?” insistette il padre.
Il bimbo in quel momento iniziò a parlare:
Noi abbiamo un cane, loro ne hanno quattro.
Noi abbiamo una piscina con acqua trattata, che arriva in fondo al giardino. Loro hanno un fiume, con acqua cristallina, pesci e altre belle cose.
Noi abbiamo la luce elettrica nel nostro giardino ma loro hanno le stelle e la luna per illuminarli.

Il nostro giardino arriva fino al muro. Il loro, fino all’orizzonte.

Noi compriamo il nostro cibo; loro lo coltivano, lo raccolgono e lo cucinano.
Noi ascoltiamo CD… Loro ascoltano una sinfonia continua di pappagalli, grilli e altri animali… tutto ciò, qualche volta accompagnato dal canto di un vicino che lavora la terra.
Noi utilizziamo il microonde. Ciò che cucinano loro, ha il sapore del fuoco lento
Noi per proteggerci viviamo circondati da recinti con allarme… Loro vivono con le porte aperte, protetti dall’amicizia dei loro vicini.
Noi viviamo collegati al cellulare, al computer, alla televisione. Loro sono collegati alla vita, al cielo, al sole, all’acqua, ai campi, agli animali, alle loro ombre e alle loro famiglie.
Il padre rimase molto impressionato dai sentimenti del figlio.

Alla fine il figlio concluse:

“Grazie per avermi insegnato quanto siamo poveri!”

Ogni giorno, diventiamo sempre più poveri perché non osserviamo più la natura!

Brano senza Autore

Lo spaccapietre di Estimj


Lo spaccapietre di Estimj

Fin dai tempi dei tempi esisteva a Vergny lo spaccapietre.
Il mestiere era antico e se lo trasmettevano di padre in figlio da trentotto generazioni.
Sullo spaccapietre di Vergny ci si poteva contare: guerra o pace, abbondanza o carestia, lui ci sarebbe sempre stato.
Chi andava a Vergny sapeva che ce l’avrebbe trovato.
Così si credeva ma così non fu per sempre.
Un giorno il Sindaco di Vergny si presentò all’ultimo degli spaccapietre e gli disse:
“Ho una bella sorpresa per te: finalmente smetterai di faticare!”

Lo spaccapietre abbassò il martello e rispose:

“Cosa potrebbe sostituirmi se non mio figlio, così come io sostituii mio padre?”
Il sindaco rise e lo invitò a seguirlo fino ad un casolare fuori città, proprio sotto la montagna.
Quindi lo introdusse in una grande stanza, dalle volte altissime, imbiancata di fresco.
Una volta dentro il Sindaco indicò un enorme telo al centro della stanza che copriva qualcosa di davvero imponente e, ancora ridendo, continuò:
“Ecco cosa ti sostituirà!”
Quindi tirò via il telo e scoprì una gigantesca macchina fatta di infiniti rulli ruotanti di varie dimensioni.
“Bella, vero?
È l’ultima novità del progresso meccanico nel campo delle pietre.
Siamo il primo comune ad averla, nel paese e nell’Europa intera.
Ci aspettano anni di prodigi e di traffici intensi.”
Lo spaccapietre rimase con la bocca aperta per qualche minuto.
Infine disse, iniziando a girare intorno alla struttura luccicante:
“Ma come sarebbe a dire?”
“Sarebbe a dire che da domani sei in pensione.
La fabbrica, come vedi, è già pronta.

Non sei contento?”

“Ma…” provò a replicare lo spaccapietre.
“Non preoccuparti: non morirai di fame.
La pensione che ti darò sarà congrua ai tuoi cinquanta anni di fatiche.”
Così detto schiacciò un bottone e la macchina prese a digerire sassi grossi quanto piccole montagne con la voracità di un dinosauro.
Lo spaccapietre si sentì gelare.
“E…” tentò nuovamente di rispondere lo spaccapietre.
“E tuo figlio dovrà trovarsi un altro mestiere, come ogni bravo giovane che si rispetti.
Non è il primo, non sarà l’ultimo.
Non c’è niente di male in questo.”
Il rumore divenne assordante.
“Però…” provò ad obiettare lo spaccapietre.
“La fabbrica andrà avanti da sola.
Come vedi è progettata per non essere governata da nessuno.
Uno dei nostri operai verrà qui di tanto in tanto per vedere se tutto funziona come deve.”
replicò il sindaco.

“Sì ma…”

Mentre parlava, lo spaccapietre venne interrotto nuovamente dal sindaco:
“Niente ferie, niente malattia.
In un giorno spaccherà le pietre che tu spaccavi in un anno, direttamente dentro la montagna.
Ti fa invidia, vero?
Vorresti avere la sua forza?
I suoi denti?
Le sue braccia possenti?
Niente da fare, sei solo un uomo.
Mettiti il cuore in pace.”
“E…” provò ad aggiungere inutilmente.
“Può bastare.
Ti accompagno a casa.
Sii felice e goditi la tua vecchiaia.
Il tuo mestiere lo lasci in buone mani.” concluse il sindaco.
Una volta a casa lo spaccapietre si accasciò davanti al camino.
Doveva dire a suo figlio, che già era apprendista spaccapietre, di cercarsi un altro mestiere.
Le lacrime gli scesero sulla zuppa e le mangiò insieme ai fagioli.
Sua moglie non seppe fare altro che massaggiargli i calli delle mani, come ogni sera.
Avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma non le venne tra le labbra nessuna buona parola.
Le uniche che seppe pronunciare furono:

“Ti insegnerò a ricamare le tovaglie!”

Dopo di queste non disse più niente.
Lo spaccapietre le prese per buone e non fu contento.
Sperava che avrebbe aiutato suo figlio fino alla morte, come suo padre con lui.
Quindi le rispose:
“Grazie, ma le tovaglie le lascio volentieri a qualcun altro.”
E così dicendo si addormentò piangendo.
Un mese dopo il figlio partì con il primo treno per il sud.
Era grande abbastanza per andare a cercarsi lavoro da solo, dovunque vi fosse stato.
Per consolare il padre, già sopra il treno, gli disse che quel mestiere, in fondo, non gli piaceva.
Che era felice di partire.
Che avrebbe trovato di meglio, senza dover rinunciare ad una famiglia, ad una casa e ad un buon pasto ogni giorno della settimana.
“Sei sicuro? Forse… cercando… insistendo…” chiese amorevolmente il padre.
“Sono sicuro!” rispose il figlio.
Lo spaccapietre fece finta di non sentire e lo lasciò partire.
Ricordava i giorni in cui gli spiegava i dettagli del suo lavoro.
Le prime pietre, immense, tra le mani.
I primi lavoretti d’apprendistato.

I primi calli.

Tutto era perduto.
Rimase con lo spaccapietre e sua moglie la giovane figlia.
Povera disgraziata!
Sarebbe cresciuta figlia di un pensionato senza mestiere, nessuno se la sarebbe presa in casa, nemmeno come serva.
Passarono così tre mesi senza gioie e senza miserie.
Finché una mattina lo spaccapietre si levò di buon’ora e si mise in cammino.
La pensione gli bastava per mangiare ma, da quando non aveva più un mestiere, non aveva più fame.
E poi c’era da mettere da parte la dote per la figlia, se la voleva maritare bene.
“Parto.” disse alla moglie.
“E dove vai? Sei vecchio.” lei gli rispose.
“Arriverò a Estimj e lì mi venderò al mercato.” replicò lui.
“E chi ti comprerà? Sei vecchio.” aggiunse lei.
“Qualcuno mi comprerà.
Poi tornerò e vi porterò con me.” rispose tranquillamente lui.
“Se tornerai!… sei vecchio.” ripetè nuovamente la moglie.

“Sai dirmi solo questo?” chiese lo spaccapietre.

Aveva deciso di passare la montagna per raggiungere Estimj, la grande città accanto al fiume.
Una volta lì avrebbe offerto la sua arte e la sua esperienza al miglior offerente.
Certo, sapeva fare soltanto lo spaccapietre, ma era già qualcosa.
Di sicuro avrebbe trovato qualcuno in grado di apprezzare le sue doti e la sua abilità.
Poi avrebbe richiamato con sé la sua famiglia e sarebbe invecchiato contento.
Avrebbe regalato alla figlia una bella dote e l’avrebbe sposata ad un uomo di giudizio.
Infine sarebbe morto come tutti i vecchi e al suo funerale la città avrebbe pianto.
Camminando su per la montagna giunse al grande fiume che divideva le due città di Vergny e di Estimj.
Si era già preparato a passare oltre quando vide che di là dal ponte la strada era interrotta.
Una grande frana, scendendo dalla montagna, l’aveva interamente sommersa.
“Come farò a raggiungere la città?” pensò.
Poi, vista la gravità della situazione, considerando che non aveva fretta, passò il ponte, si tolse la giacchetta e si mise subito a lavorare.
Era importante ripristinare quanto prima la via maestra.
Del resto erano mesi che non pesava più una sola pietra.

Un po’ di sana fatica l’avrebbe ritemprato.

Dopo alcune ore di lavoro, spostando e spezzando pietra su pietra, con attrezzi rudimentali, si trovò fra le mani il corpo di una giovane donna.
La ragazza, ferita, era svenuta ma ancora in vita.
Aveva soltanto bisogno di calore, riposo e cure.
“Adesso devo andare in città.
Questa giovane ha bisogno d’essere medicata.
E manca poco all’apertura del mercato.
Fortuna che ho quasi finito.
Il resto del lavoro, poche pietre, lo potrà compiere qualcuno degli addetti alla manutenzione delle strade.”
Detto questo si caricò la giovane sulle spalle e partì.
Appena in città lo spaccapietre consegnò la giovane ad un’infermiera dell’ospedale e si recò al mercato.
“Hei… lei… dove scappa?” chiese l’infermiera.
“Devo andare assolutamente al mercato!” rispose il vecchio spaccapietre.

“Ma questa giovane?” continuò l’infermiera.

“Era sepolta sotto una frana, accanto al ponte.
Presto, non perda tempo con me: è ancora in vita!” replicò lui.
“Ma lei: come si chiama?
Qualcuno vorrà sapere!” provò ad aggiungere l’infermiera.
“Che importa, infermiera: le salvi la vita, il resto andrà da sé!” concluse.
“Vendesi fatica di spaccapietre esperto.
Cinquant’anni di lavoro e di maestria.
Opere pulite e senza polvere…”
Il mercato era pieno d’ogni ben di dio.
Lo spaccapietre si mise in mostra, urlò come tutti gli altri e aspettò per l’intera mattinata.
Non lo volle comprare nessuno.
Qualcuno gli chiese di dare dimostrazione della sua forza.
Ci provò ma era talmente stanco, dopo tutto quel lavoro notturno, che non riuscì a sollevare nemmeno un sassolino.
“A Vergny c’è una macchina che trita la montagna senza una sola goccia di sudore!” gli dissero.
“Che costa poco e che lavora parecchio.

Soprattutto senza un’ombra di difetto.

Si dice che nessuno le faccia da guardia e che faccia tutto da sola.
A Vergny stanno arricchendo a vista d’occhio.
Tutti vanno a Vergny per le pietre.
A che serve, ormai, uno spaccapietre?”
Era seduto sconsolato sui gradini del Duomo, a stomaco vuoto, quando sentì da una radio accesa accanto ad una finestra aperta la seguente notizia:
“Questa mattina la figlia del Gran Magnate del Tabacco di Estimj, ancora priva di sensi, è stata lasciata in ospedale da uno sconosciuto.
La giovane, sveglia da circa un’ora, ha raccontato d’aver perso conoscenza vicino a Ponte Salvo, sepolta da una frana.
Sta bene e, per sua fortuna, non ha riportato alcuna lesione né interna né esterna.
Solo qualche graffio e qualche esile ferita.
Ma poteva andarle molto peggio.
Il Sindaco di Estimj si è detto disponibile, come segno di riconoscenza e a nome della città tutta, ad esaudire qualsiasi desiderio gli sia fatto pervenire dallo sconosciuto salvatore, purché si presenti!”
La notizia sollevò il morale dello spaccapietre, che si alzò e si mise in cammino verso il Municipio della grande città.
“Gli chiederò la grazia di darmi lavoro come spaccapietre in questa città.

È grande e ne avrà bisogno.

E inoltre di permettermi di trasferire con me anche mia moglie e mia figlia e di trasmettere la mia arte e il mio mestiere a mio figlio, come da trentotto generazioni avviene nella mia famiglia.
E di farmi vivere contento finché non sarò sepolto.”
Al Municipio lo spaccapietre fu ammesso a colloquio ma non fu creduto.
La storia che raccontò sembrava combaciare con quella narrata dalla figlia del Gran Magnate del Tabacco, ma chi la raccontava era troppo vecchio per una simile opera, gli rispose il Sindaco in persona, e troppo stolto.
“Le assicuro che ero proprio io, sulla montagna…” disse lo spaccapietre.
“Basta così! L’accuso di attentare al buon nome della città, nonché alla mia buona fede personale e a quella del Gran Magnate del Tabacco.”
Così dicendo il Sindaco chiamò le guardie e lo fece rinchiudere in galera.
La notizia dell’arresto corse in fretta per l’intera città e anche oltre:
“Un vecchio spaccapietre, licenziato dal suo lavoro per inedia, ha rivendicato il salvataggio della giovane figlia del Gran Magnate del Tabacco.
Fonti ben informate raccontano che, per la sua buona azione, abbia chiesto in ricompensa una casa, un lotto di terra, un conto milionario in una banca fuori paese, un posto alle Poste per il figlio debosciato, un marito barone per la figlia svergognata, una pensione d’invalida per la moglie nullatenente e per se stesso una vasca idromassaggio, un cane di razza e un’amante fotomodella di non più di ventidue anni.

È stato arrestato per menzogna acclamata.”

Fortunatamente i giornali pubblicarono anche la sua foto.
La città ci sputò sopra ma l’infermiera che quella mattina aveva accolto la ragazza lo riconobbe e testimoniò per lui in tribunale.
Il pianto della giovane donna salvata, nel sentire la voce dell’anziano spaccapietre mentre raccontava ancora una volta tutta la storia, fu la prova decisiva della sua buona fede.
Il Gran Magnate del Tabacco pianse con la figlia e gli regalò una scatola di sigari in legno d’abete.
Dopo quindici mesi lo spaccapietre di Vergny venne così rilasciato con le scuse della Magistratura, del Tribunale, della Corte, del Guardiacella e del Sindaco in persona.
“Mi chieda qualsiasi cosa: ho con lei un enorme debito da saldare!”
Lo spaccapietre non sapeva più cosa chiedere.
In tutto quel tempo il figlio aveva trovato un buon lavoro come netturbino, la figlia si era fidanzata con un promettente banchiere figlio di banchieri e lui era invecchiato a vista d’occhio.
Adesso le pietre le poteva solo carezzare.
“Vorrei tornare a casa, e niente più.”
Il Sindaco crollò di schianto.
Stava preparando la sua ricandidatura al seggio più alto della città e voleva presentarsi ai suoi concittadini con un gesto di grande impatto emotivo.
Tirò le somme e pronunciò:
“Se non chiede nulla le darò io qualcosa.”
Così detto tirò fuori da un cassetto una grossa chiave d’oro.
“Le consegno le chiavi della città!

Da oggi sarà questa la sua casa!”

“Il Municipio?” chiese il vecchio spaccapietre, ingenuamente.
“Ma no!” proseguì il Sindaco ridacchiando:
“La città intera.
Scelga una casa e sarà sua.
Un giardino e sarà suo.
Un pezzo di terra e sarà suo.
Al resto penserò io, purché si sappia.
Le farò avere un congruo compenso e una congrua pensione.
Il tutto a spese del paese.
Lo spaccapietre ringraziò per l’offerta e scelse la casa più modesta.
La scelse perché da ogni finestra si poteva vedere la montagna.
Che poi avesse un solo bagno, due stanze e una cucina non gli importava.
Si fece fare pure una rimessa per i suoi attrezzi e le sue pietruzze.
Già si vedeva a fabbricare piccoli portavasi in marmo sotto l’ombra di un pino nei pomeriggi estivi.
Quindi invitò la moglie a raggiungerlo e maritò la figlia e il figlio; e tutto proseguì per il meglio.
La conclusione, dopo tanti anni, si può ancora leggere nella targa affissa a Estimj in Piazza Mastù, proprio di fronte al Duomo:
“Qui riposò un giorno lo spaccapietre che spostò una montagna, salvò una donna e recitò canzoni per il carcere circondariale.”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il fiore senza nome. La storia del girasole.



Il fiore senza nome
La storia del girasole

C’era una volta un giardino ricco di fiori di ogni specie, in cui cresceva, proprio nel centro, una pianta senza nome.
La pianta era robusta, ma sgraziata, con dei fiori stopposi che non emanavano alcun profumo particolare.
Le altre piante nobili del giardino la consideravano come un’erbaccia, e non le rivolgevano la parola.
La pianta senza nome però aveva un cuore pieno di bontà, di sogni e di ideali.
Quando i primi raggi del sole, al mattino, arrivavano a fare il solletico alla terra, e a giocherellare con le gocce di rugiada per farle sembrare iridescenti diamanti sulle camelie, rubini e zaffiri sulle rose, le altre piante si stiracchiavano pigre.

La pianta senza nome, invece, non si perdeva un solo raggio di sole.

Se li beveva tutti, uno dopo l’altro, godendoseli appieno.
La pianta senza nome trasformava tutta la luce del sole in forza vitale, in zuccheri, in linfa.
Tanto che con il passare del tempo il suo fusto, che prima era rachitico e debole, era diventato uno stupendo fusto robusto, diritto, alto più di due metri.
Le piante del giardino cominciarono a darle attenzione e a nutrire anche un po’ d’invidia per il suo bell’aspetto.
“Quello spilungone, è un po’ matto!” bisbigliavano dalie e margherite.
La pianta senza nome, non ci badava.
Aveva un progetto.
Se il sole si muoveva nei cielo, lei l’avrebbe seguito, per non abbandonarlo un istante.
Non poteva certo sradicarsi dalla terra ma poteva costringere il suo fusto a girare all’unisono con il sole.

Così, non si sarebbero lasciati mai.

Le prime ad accorgersi di questa iniziativa della pianta senza nome furono le ortensie che, come tutti sanno, sono pettegole e comari!
“Si è innamorato del sole!” cominciarono a propagare ai quattro venti.
“Lo spilungone, è innamorato del sole!” dicevano, ridacchiando, i tulipani.
“Oh, com’è romantico!” sussurravano, pudicamente, le viole mammole.
La meraviglia toccò il culmine quando in cima al fusto della pianta senza nome, sbocciò un magnifico fiore che assomigliava in modo straordinario proprio al sole!
Era grande, tondo, con una raggiera di petali gialli, di un bel giallo dorato, caldo.
E quel faccione, secondo la sua abitudine, continuava a seguire il sole giorno dopo giorno nella sua camminata attraverso il cielo.

Fu così che i garofani gli diedero un nome: Girasole.

Glielo misero per prenderlo in giro, ma nel giro di poco tutti lo accolsero come un nome bello.
Piacque a tutti, compreso al diretto interessato.
Da quel momento, quando qualcuno gli chiedeva il nome, rispondeva, orgoglioso:
“Mi chiamo Girasole!”
Rose, ortensie e dalie non cessavano, però, di bisbigliare su quella che, secondo loro, era una stranezza che nascondeva troppo orgoglio o peggio qualche sentimento molto disordinato.
Furono le bocche di leone, i fiori più coraggiosi del giardino, a rivolgere direttamente la parola al Girasole.
“Perché guardi sempre in aria?
Perché non ci degni di uno sguardo?

Eppure, siamo piante, come te!” gridarono le bocche di leone, per farsi sentire.

“Amici!” rispose il Girasole “Sono felice di vivere con voi, ma io amo il sole.
Esso è la mia vita, e non posso staccare gli occhi da lui! Lo seguo, nel suo cammino…
Lo amo tanto, che sento già di assomigliargli un po’!
Che ci volete fare?
Il sole è la mia vita.”
Come tutti i buoni il Girasole parlava forte e l’udirono tutti i fiori del giardino.
E in fondo al loro piccolo, profumato cuore, sentirono una grande ammirazione per l’innamorato del sole.

Brano tratto dal libro “Tutte storie” di Bruno Ferrero. Edizione Elledici.

Chi invitiamo? Quale sarà la nostra scelta? La Favola dell’Amore


Chi invitiamo? Quale sarà la nostra scelta?
La Favola dell’Amore

Una donna stava innaffiando il giardino della sua casa quando vide tre vecchietti con i loro anni di esperienza che stavano di fronte al suo giardino.
Ella non li conosceva e disse:
“Non mi sembra di conoscervi, ma dovrete essere affamati.
Vi prego, entrate in casa così che mangiate qualcosa.”
Essi domandarono:
“Non c’è l’uomo di casa?”
“No!” rispose lei “Non è in casa.”

“In tal caso, non possiamo entrare!” dissero.

All’imbrunire, quando il marito rincasò, ella gli raccontò tutto ciò che le era capitato.
“Allora, dì loro che son rientrato e, dunque, invitali pure ad entrare!” disse il marito.
La donna uscì per invitare i tre uomini a casa.
“Non possiamo entrare tutti e tre insieme in una casa!” spiegarono i vecchietti.
“Perché?” volle sapere lei.
Uno degli uomini indicò uno dei suoi amici e spiegò:
“Il suo nome è Ricchezza.”

Subito dopo indicò l’altro.

“Il suo nome è Successo ed io mi chiamo Amore.
Adesso va’ dentro e decidi con tuo marito quale di noi tre desiderate invitare a casa vostra.”
La donna entrò in casa e raccontò a suo marito tutto ciò che i tre uomini le avevano detto.
Lui si rallegrò e disse:
“Che bello!
Se è così, allora invitiamo Ricchezza, che venga e riempia la nostra casa!”

Sua moglie non era d’accordo:

“Caro, perché non invitiamo Successo?”
La figlia della coppia stava ascoltando dall’altra parte della casa ed entrò di corsa esclamando:
“Non sarebbe meglio far entrare Amore?
Così la nostra famiglia sarebbe piena di amore.”
“Prendiamo in considerazione il consiglio di nostra figlia!” disse il marito alla moglie.
“Va’ fuori ed invita Amore perché sia nostro ospite.”
La moglie uscì chiese loro:
“Chi di voi è Amore?

Che venga, per favore, e sia il nostro invitato.”

Amore si alzò dalla sua sedia e cominciò ad avanzare in direzione della casa.
Anche gli altri due si alzarono e lo seguirono.
Alquanto sorpresa, la signora chiese a Ricchezza e a Successo:
“Io ho invitato solo Amore: perché venite anche voi?”
I tre replicarono insieme:
“Se avessi invitato Ricchezza o Successo gli altri due sarebbero rimasti fuori, ma giacché hai invitato Amore, dovunque egli vada, noi andiamo con lui.”
Dove c’è amore, c’è anche ricchezza e successo.

Brano senza Autore, tratto dal Web