La metà di un sogno

La metà di un sogno

C’era una ragazza che, ogni notte, guardava la luna.
In quell’occhio del cielo dai riflessi d’argento, le sembrava di intravedere il profilo di un giovane sconosciuto.

O forse era solo il riverbero misterioso di un sogno.

La ragazza aspettava e sospirava.
Nell’altra parte del mondo, c’era un giovane che, ogni notte, guardava la luna.
Su quel pallido schermo gli pareva di vedere il profilo dolce e seducente di una ragazza.

Il giovane era un provetto arciere.

Così, una notte, incoccò la sua freccia più resistente e veloce sull’arco, lo tese con tutte le sue forze e mirò al volto placido della luna.
La freccia, dura come l’acciaio e rapida come il lampo, colpì la luna e ne staccò un frammento.
Cadendo, il frammento si spaccò in due parti.
Una cadde in grembo alla ragazza, l’altra ai piedi del giovane arciere.
Tutti e due si legarono al collo, come un gioiello, il frammento di luna.

Si incontrarono poi?

Forse.
Ma noi tutti, esseri umani, siamo come loro ed erriamo per il mondo portando ciascuno con sé la metà di un sogno.

Brano di Bruno Ferrero

Tonto Zuccone, girovagando

Tonto Zuccone, girovagando
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La macchina

A Venezia

Il risotto con le mosche

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“La macchina”

Tonto Zuccone, dopo ripetuti tentativi ed una raccomandazione non tanto trasparente, prese la patente di guida per la macchina.
Stupì tutti perché acquistò una macchina nuova, rosso fiammante, invece di una usata per impratichirsi nella guida.
Scorrazzava felice per le vie del paese, esibendo il suo gioiello rosso con uno stuolo di amici a bordo.
Mutò d’umore quando svoltando a destra sentiva uno strano rumore in macchina e lo stesso quando girava a sinistra.

Andò a farla benedire da un sacerdote amico credendola stregata, ma niente, i rumori persistevano.

Tornò dal concessionario, deluso, per la riparazione o per una eventuale sostituzione essendo ancora in garanzia.
I meccanici incuriositi dallo strano caso fecero un giro di prova e tornarono quasi subito ridendo per quello che avevano scoperto.
Il rumore era causato da due latine di Coca Cola vuote, abbandonate dagli amici di scorribande, che ruzzolavano nella parte posteriore della vettura ad ogni sterzata o sobbalzo.
L’episodio bastò a far perdere a Tonto ogni interesse per la macchina, il quale tornò alla sgangherata bicicletta.

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“A Venezia”

Tonto Zuccone andò per la prima volta a visitare, da solo, la tanto desiderata Venezia.
Dopo aver chiesto informazioni, gli fu indicato di prendere un vaporetto per fare un giro turistico per le vie d’acqua e poter, così, ammirare la meraviglia dell’Adriatico con i suoi palazzi, calli e canali.
Si recò alla biglietteria con una certa titubanza e l’addetto in divisa, vedendolo impacciato, gli chiese dove volesse recarsi.

Tonto gli diede una grossa banconota e gli disse:

“Dovunque e da nessuna parte!”
Il bigliettaio, abituato ad aver a che fare con turisti da tutto il mondo, intuì con chi stava parlando e replicò:
“Si vede anche da lontano che sei Tonto in visita a Venezia!”
La cosa stupì lo spaesato campagnolo che domandò stupito:
“Come fate a conoscermi anche qui?
Non credevo di essere così famoso!”

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“Il risotto con le mosche”

Il risotto è un piatto tipico della tradizione del nord Italia e sta diventando sempre di più un piatto nazionale.
Forti del primato produttivo e qualitativo del riso nostrano, essendo degli storici e accorti produttori, non temiamo il confronto con quelli di dubbia importazione e dal prezzo stracciato.
I nostri bravi chef, di tramandata e gloriosa tradizione gastronomica, lungo tutto lo stivale, propongono i risotti nelle varianti con il prezioso zafferano, con le verdure di stagione, ai funghi, con carni e pesci e, chi più ne ha, più ne metta.

Alcuni anni fa, Tonto Zuccone fu invitato ad un pranzo di battesimo da un amico in terra Feltrina, nel Bellunese.

Dopo gli antipasti di rito, nel menù non poteva mancare di certo il risotto fatto secondo la tradizione locale, con i resti della carne di cacciagione, tagliati a sottili pezzettini che risultavano alla vista di colore scuro, chiamato per questo motivo risotto con le mosche, per la somiglianza con gli insetti dittari.
La neo mamma, nonché provetta cuoca, era particolarmente fiera di questo piatto tramandato gelosamente dalle sue ave e chiese con un pizzico di orgoglio a Tonto se gradisse il suo risotto con le mosche e se lo avesse mai gustato prima.
Tonto a sentirlo nominare ed alla vista della portata ebbe una reazione di disgusto e di netto rifiuto.

Questo evento fece ridere la cuoca, ma anche gli altri commensali, a crepapelle.

Ascoltata la risposta di Tonto, la padrona di casa disse scherzando che ad ogni mosca aveva tolto la testa e le zampe, soprattutto per omaggiare il gradito ospite.
Tonto non volle sentire ulteriori spiegazioni, fu sufficiente vedere ed ascoltare il nome del piatto per rimanere, ancor di più, perplesso e basito della strana, per lui, cucina locale.
Rinunciò ad ottimo risotto, eseguito con cottura e mantecatura perfette.
Il risotto con le mosche è una specialità tutta feltrina, di nicchia gastronomica, non contemplata nei manuali di cucina e gelosamente tramandata da generazione in generazione, che solo un “tonto” come Tonto poteva rifiutare a priori.

Brani di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione dei racconti a cura di Michele Bruno Salerno

I due sassi

I due sassi

C’erano una volta due sassi di montagna, due fratelli che si erano staccati dalla parete rocciosa e si erano trovati a terra insieme, vicino ad un ruscello.
Un giorno decisero di seguire il corso del ruscello per scendere a valle e vedere la grande città.
Così si misero di buon sasso… cioè, di buon passo, e rotola oggi, rotola domani, pian piano si dirigevano verso la città.
Uno dei due sassi (il più furbo dei due) di tanto in tanto si tuffava nelle acque del ruscello, si fermava un po’ a farsi carezzare dall’acqua, e poi riprendeva il cammino.
“Sbrigati!” gli gridava l’altro, il più sciocco dei due, “Non vedi che resti indietro?
E poi, cosa ti fermi a fare nell’acqua?”
“Mi levo un po’ di polvere di dosso!” rispondeva quello.

“Che stupido che sei!

Quando esci di qui, e hai fatto due rotolate sulla terra, sei di nuovo sporco come prima!
A che ti serve lavarti, se poi ti sporchi ancora?” brontolava il sasso sciocco.
Ma il sasso furbo non gli dava retta.
Rotolava un po’, poi si fermava, entrava nel ruscello e si faceva lavare.
Poi tornava sul prato e ricominciava a rotolare.
E la cosa bella è che non rimaneva mai indietro!
Sì, perché mentre il sasso sciocco, tutto spigoloso e appuntito, faceva una gran fatica a rotolare, e faceva pochi metri per volta, il sasso furbo diventava più rotondo ogni volta che entrava in acqua!

Sapete perché?

Perché l’acqua, scorrendoli tutta intorno, lo levigava, cioè gli levava ogni volta un po’ di pietra di dosso, e lo consumava, così da renderlo liscio e tondo.
Così, quando usciva dall’acqua, con poca fatica raggiungeva l’amico sciocco.
Andarono avanti così per un bel pezzo.
E ogni volta che il sasso furbo usciva dall’acqua, si accorgeva di essere diventato un po’ più piccolo. Entra oggi, entra domani, il sasso furbo stava rimpicciolendo.
Il sasso sciocco, che non capiva, lo scherzava ancora di più:
“Ecco che cosa ci guadagni a fare il bagno ogni giorno!
Se vai avanti di questo passo, fra un po’ non ci sarai più!
Quell’acqua ti sta uccidendo, ti toglie le forze, e non sei più tu!
Ma guardati!
Siamo fratelli, figli della stessa montagna!
Eravamo uguali, e ora?
Tu non sei che un piccolo ciottolo di fiume!
Io sì che assomiglio alla grande montagna!

Guarda come sono forte!”

Ma un bel giorno, uscendo dall’acqua, il sasso furbo si accorse che ora risplendeva su di lui una strana luce.
Era un puntino piccolo piccolo, ma luminoso come il sole.
E ogni volta che riemergeva dall’acqua, il puntino luminoso era sempre più grande.
Finché, adagio adagio, tutto il suo corpo aveva perduto il colore grigio ed era diventato completamente luminoso e dorato.
Erano ormai giunti in città; il sasso sciocco era identico a quando era partito.
Anzi, era ancora più incrostato di polvere e di terra.
Il sasso furbo era molto più piccolo, ma tondo e luminoso.
Il sasso sciocco si lamentava:
“Non capisco proprio che cosa ti abbia ridotto così!

Sei mio fratello e quasi non ti riconosco!

Ma cosa sei diventato?” (Però era invidioso di quel luccichio…).
In quell’istante passò accanto a loro un signore con una valigetta in mano.
Quando vide i due sassi, si fermò di colpo, si inginocchiò a terra, prese il sasso luminoso, aprì la valigetta e ne estrasse una lente.
Osservò attraverso la lente quel piccolo ciottolo, e poi esclamò pieno di gioia:
“Ma è una pepita d’oro!”
Subito lo avvolse con cura in un panno morbido, lo mise nella valigetta e si incamminò verso il suo negozio in città.
Era infatti un gioielliere.
E l’altro sasso?
Rimase solo, vicino al fiume, e finalmente capì:
“Che sciocco, sono stato!
Ma sono ancora in tempo:
mi tufferò nel fiume e mi lascerò levigare fino a che tutto il sasso e le incrostazioni si saranno consumate, e sarò anch’io una pepita d’oro!”

Brano senza Autore, tratto dal Web

La parola piangere. Favola & Filastrocca.

La parola piangere.
Favola & Filastrocca.
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Favola
Filastrocca
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“Favola”

 

Questa storia non è ancora accaduta, ma accadrà sicuramente domani.
Ecco cosa dice.
Domani una brava, vecchia maestra condurrà i suoi scolari, in fila per due, a visitare il “Museo del Tempo Che Fu,” dove sono raccolte le cose di una volta che non servono più, come la corona del re, lo strascico della regina, il tram di Monza, eccetera.
In una vetrinetta un po’ polverosa c’era la parola:

“Piangere.”

Gli scolaretti di Domani lessero il cartellino, ma non capivano, quindi chiesero:
“Signora, che vuol dire?
“È un gioiello antico?
Apparteneva forse agli Etruschi?”
La maestra spiegò che una volta quella parola era molto usata, e faceva male.
Mostrò una fialetta in cui erano conservate delle lacrime:
chissà, forse le aveva versate uno schiavo battuto dal suo padrone, forse un bambino che non aveva casa.

“Sembra acqua!” disse uno degli scolari.

“Ma scottava e bruciava!” rispose la maestra.
“Forse la facevano bollire prima di adoperarla?” chiese ancora uno degli scolari.
Gli scolaretti proprio non capivano, anzi cominciavano già ad annoiarsi.
Allora la buona maestra li accompagnò a visitare altri reparti del Museo dove c’erano da vedere cose più facili come:
L’inferriata di una prigione, un cane da guardia, il tram di Monza, eccetera, tutta roba che nel felice paese di Domani non esisteva più.

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“Filastrocca”

 

Un giorno tutti saremo felici.
Le lacrime, chi le ricorderà?

I bimbi scoveranno
nei vecchi libri
la parola “piangere”
e alla maestra in coro chiederanno:
“Signora, che vuol dire?

Non si riesce a capire”.

Sarà la maestra,
una bianca vecchia
con gli occhiali d’oro,
e dirà loro:
“Così e così”.

I bimbi lì per lì
non capiranno.
A casa, ci scommetto,
con una cipolla a fette
proveranno e riproveranno
a piangere per dispetto
e ci faranno un sacco di risate…

E un giorno tutti in fila,

andranno a visitare
il Museo delle lacrime:
io li vedo, leggeri e felici,
i fiori che ritrovano le radici.

Il Museo non sarà tanto triste:
non bisogna spaventare i bambini.
E poi, le lacrime di ieri
non faranno più male:

è diventato dolce il loro sale.

E la vecchia maestra narrerà:
“Le lacrime di una mamma senza pane…
le lacrime di un vecchio senza fuoco…
le lacrime di un operaio senza lavoro…
le lacrime di un negro frustato
perchè aveva la pelle scura…”
“E lui non disse nulla?”
“Ebbe paura?”
“Pianse una sola volta ma giurò:
una seconda volta
non piangerò”.

I bimbi di domani

rivedranno le lacrime
dei bimbi di ieri:
del bimbo scalzo,
del bimbo affamato,
del bimbo indifeso,
del bimbo offeso, colpito, umiliato…

Infine la maestra narrerà:
“Un giorno queste lacrime
diventarono un fiume travolgente,
lavarono la terra
da continente a continente,
si abbatterono come una cascata:
così, così la gioia fu conquistata”.

Favola e Filastrocca di Gianni Rodari

Il gioiello nascosto

Il gioiello nascosto

Un giorno un uomo, dopo essersi abbuffato in un abbondante banchetto, cadde in un sonno profondo.
Passò un caro amico, restò un po’ di tempo presso di lui e,

quando dovette andarsene,

temendo che l’amico potesse trovarsi nel bisogno, gli mise un gioiello nel bavero dell’abito.
Quando l’uomo si risvegliò, ignaro del gesto dell’amico, condusse la sua solita vita errabonda, vivendo nella fame e nella miseria.

Passarono gli anni e i due amici si incontrarono di nuovo.

L’amico gli disse del gioiello e l’uomo, rovistando nel suo abito, subito lo trovò.
Incredulo, si rattristò amaramente riflettendo sul fatto che per tutti quegli anni avesse condotto una vita miserabile avendo con sé un gioiello di tale valore.

Allo stesso modo, gli uomini vagano tra le sofferenze di questo mondo,

ignari che tra le pieghe più profonde del proprio essere è nascosto il gioiello del pieno risveglio.

Racconto Buddista
Brano senza Autore, tratto dal Web

Il valore dell’anello (Il valore di noi stessi)


Il valore dell’anello (Il valore di noi stessi)

“Sono venuto qui, maestro, perché mi sento così inutile che non ho voglia di fare nulla.
Mi dicono che sono un inetto, che non faccio bene niente, che sono maldestro e un po’ tonto.
Come posso migliorare?
Che cosa posso fare perché mi apprezzino di più?” chiese un giovane.
Il maestro gli rispose senza guardarlo:
“Mi dispiace, ragazzo.
Non ti posso aiutare perché prima ho un problema da risolvere.
Dopo, magari!”

E dopo una pausa aggiunse:

“Ma se tu mi aiutassi, magari potrei risolvere il mio problema più in fretta e dopo aiutare te.”
“Con piacere, maestro!” disse il giovane esitante, sentendosi di nuovo sminuito visto che la soluzione del suo problema era stata rimandata per l’ennesima volta.
“Bene!” continuò il maestro.
Si tolse un anello che portava al mignolo della mano sinistra e, porgendolo al ragazzo, aggiunse:
“Prendi il cavallo che c’è là fuori e va’ al mercato.
Ho bisogno di vendere questo anello perché devo pagare un debito.
Vorrei ricavarne una bella sommetta, per cui non accetta re meno di una moneta d’oro.
Va’ e ritorna con la moneta d’oro il più presto possibile.

Il giovane prese l’anello e partì.

Appena fu giunto al mercato iniziò a offrire l’anello ai mercanti, che lo guardavano con un certo interesse finché il giovane diceva il prezzo.
Quando il giovane menzionava la moneta d’oro, alcuni si mettevano a ridere, altri giravano la faccia dall’altra parte e soltanto un vecchio gentile si prese la briga di spiegargli che una moneta d’oro era troppo preziosa in cambio di un anello.
Pur di aiutarlo, qualcuno gli offrì una moneta d’argento e un recipiente di rame, ma il giovane aveva istruzioni di non accettare meno di una moneta d’oro e rifiutò l’offerta.
Dopo avere offerto il gioiello a tutte le persone che incrociava al mercato, che furono più di cento, rimontò a cavallo demoralizzato per il fallimento e intraprese la via del ritorno.
Quanto avrebbe desiderato avere una moneta d’oro per regalarla al maestro e liberarlo dalle sue preoccupazioni!
Così finalmente avrebbe ottenuto il suo consiglio e l’aiuto.
Entrò nella sua stanza.

“Maestro,” disse “mi dispiace.

Non è possibile ricavare quello che chiedi.
Magari sarei riuscito a ottenere due o tre monete d’argento, ma credo di non poter ingannare nessuno riguardo il vero valore dell’anello.”
“Quello che hai detto è molto importante, giovane amico!” rispose il maestro sorridendo.
“Prima dobbiamo conoscere il vero valore dell’anello.
Rimonta a cavallo e vai dal gioielliere.
Chi lo può sapere meglio di lui?
Digli che vorresti vendere l’anello e chiedigli quanto ti darebbe.
Ma non importa quello che ti offre: non glielo vendere.
E ritorna qui con il mio anello.”

Il giovane riprese di nuovo a cavalcare.

Il gioielliere esaminò l’anello alla luce della lanterna, lo guardò con la lente, lo soppesò e disse al ragazzo:
“Dì al maestro, ragazzo, che se vuole vendere oggi stesso il suo anello, non posso dargli più di cinquantotto monete d’oro.”
“Cinquantotto monete?” esclamò il giovane.
“Si!” rispose il gioielliere.
“Lo so che avendo più tempo a disposizione potremmo ricavare circa settanta monete d’oro, ma se ha urgenza di vendere…”
Il giovane si precipitò dal maestro tutto emozionato a raccontargli l’accaduto.
“Siediti!” disse il maestro dopo averlo ascoltato.
“Tu sei come questo anello: un gioiello unico e prezioso.
E come tale puoi essere valutato soltanto da un vero esperto.
Perché pretendi che chiunque sia in grado di scoprire il tuo vero valore?”
E così dicendo si infilò di nuovo l’anello al mignolo della mano sinistra.

Brano di Jorge Bucay