Il pinguino colorato

Il pinguino colorato

Quando mise fuori la testa dall’uovo, fu accolto dalla felicità di tutti.
La comunità dei pinguini dell’Isola Azzurra si strinse intorno a Priscilla e Dagoberto, i suoi genitori, che avevano gli occhi luccicanti e non stavano più nel frac per l’orgoglio.
Perché Filippo era davvero un bel neonato di pinguino.
Aprì il becco ed emise un robusto vagito.
Tutti i pinguini presenti applaudirono.
“È un ottimo segno!” disse lo zio Fortebecco, “È impaziente di affrontare la vita!”
Filippo, in effetti, partì alla carica della vita con una gran dose di energia.
Appena le sue zampette furono abbastanza robuste, si allontanò dallo sguardo premuroso dei genitori per infilarsi fra i più discoli dei piccoli pinguini della comunità.

Erano tutti più anziani di lui, ma nessuno lo batteva in coraggio e temerarietà.

Fu Filippo il primo piccolo di pinguino che osò scivolare dalla punta del grande iceberg fino al mare, anche se poi non poté sedersi per due settimane a causa del bruciore sotto la coda.
Fu sempre Filippo, il coraggioso piccolo pinguino, che portò via la colazione all’enorme e spaventoso tricheco Baffodiferro.
Nella banda dei “pinguini irsuti”, chiamati così perché si rifiutavano sistematicamente di lasciarsi pettinare le piume del capo dalle loro mamme, Filippo divenne l’incontrastato boss.
“Perché sei sempre così agitato, Filippo mio?” gli chiedeva la mamma, un po’ in ansia per quel figlio che cresceva così scapestrato.
Con gli amici, Dagoberto era sinceramente preoccupato:
“Quel monello ha bisogno di una bella strigliata!”
Così spesso, alla sera, Dagoberto, Priscilla e Filippo rappresentavano, senza volerlo, la versione pinguinesca del processo di Norimberga.
“È tutta colpa tua!” diceva la mamma.
“No, tua!” esclamava il papà, “Anzi, è colpa di Filippo!”
La mamma piangeva, papà sbatteva la porta e Filippo gridava:

“Non ne posso più!”

Un giorno il pinguino Filippo se ne stava sdraiato su una roccia a picco sul mare ed osservava annoiato il formicolio dei pinguini della comunità.
Sembravano tutti felici; lui, invece si sentiva pieno di amarezza.
“Che barba!
Un posto tutto bianco, grigio e nero.
Dove nessuno si fa i fatti suoi…
Deve pur esserci un paese colorato.
Pieno di gente colorata.
Potrei diventare anch’io pieno di colori…
Non ne posso più di questa camicia bianca e di questo ridicolo frac!”
E, impulsivo com’era, si lasciò scivolare giù dalla roccia, si tuffò tra le onde e nuotò via dall’Isola Azzurra.
Approdò alla Terraferma.

Gli avevano sempre raccomandato di evitare il litorale.

I pinguini si tenevano prudentemente alla larga dagli anfratti in ombra degli scogli, dove le onde infrangevano con violenza rabbiosa, e foche, piccoli cetacei e altri predatori si acquattavano per far strage degli imprudenti.
“Adesso sono libero e faccio come mi pare!” si disse Filippo.
Si arrampicò a fatica e si incamminò sulla spiaggia.
Un forte sbattere d’ali alle sue spalle lo mise in guardia.
Un giovane cormorano aveva deciso di attaccarlo.
Ma Filippo era robusto e dotato di un becco forte e tagliente.
Lottarono per un po’, facendo volare piume da tutte le parti.
Filippo ci mise tutta la sua rabbia.
Il cormorano cominciò a perdere sangue da una ferita alla gola e si spaventò.
Si ritirò dal combattimento e volo via lamentandosi e imprecando.
“Aah!”” fece Filippo, gonfiando il petto con soddisfazione.
Alcune gocce di sangue del cormorano erano finite sulle sue piume bianche.

Il pinguino guardò le macchie rosse e disse:

“Bene! Comincio ad essere colorato!”
Ondeggiando, ma più che mai risoluto a continuare la sua esplorazione, Filippo si inoltrò tra le rocce.
“Ehi, amico!” una voce alle sue spalle lo fece voltare di scatto.
Era pronto di nuovo a combattere, ma di fronte si trovò solo un gabbiano giovane e inoffensivo.
“Ti ho visto sistemare il cormorano!” disse il gabbiano, “Sei un duro, tu!”
“Certo!” rispose Filippo.
“Ti invito a pranzo!” insinuò furbescamente il gabbiano.
“Che cosa vuoi dire?” chiese Filippo.
“Andiamo a rubare le uova dai nidi delle rondini di mare, che ne dici?
In due non oseranno farci niente!” spiegò il gabbiano.
Fecero una scorpacciata di uova.
Le povere rondini di mare tentarono invano di difendere i loro nidi.
I due briganti mulinavano ali e becchi.

Alla fine, Filippo si guardò il petto:

era tutto macchiato dal giallo e arancione dei tuorli d’uovo.
“Altri colori!” si disse, “Questa è vita!”
Dietro di lui, si sentiva solo il disperato pigolare delle rondini di mare, che piangevano i nidi e le uova distrutte.
Si installò in una grotta di ghiaccio azzurra, e ne fece il suo covo.
Un gruppetto di gabbiani e perfino un’otaria con un occhio solo lo riconobbero come capo banda.
Le scorribande del gruppetto furono ben presto temute da tutti.
Filippo veniva chiamato semplicemente “Il pinguino colorato”.
Infatti la sua elegante livrea bianca e nera era sparita sotto i segni delle imprese che aveva affrontato.
Oltre il rosso del sangue e il giallo delle uova rubate, c’erano tracce verdi, azzurre e anche ciuffi di pelo argentato, che gli erano rimasti attaccati dopo un’epica lotta contro un Husky randagio.
Ma che serviva essere diventato davvero il primo pinguino a colori, se non poteva farsi ammirare dai suoi vecchi amici e dalla sua famiglia?

Il pensiero dell’Isola Azzurra prese a torturarlo.

Anche se non voleva ammettere, sentiva un bel po’ di nostalgia dell’allegra comunità dei pinguini.
“Avere una vita colorata non è proprio come me la immaginavo!” si diceva sempre più spesso.
Quella esistenza di fughe, attacchi, lotte e brigantaggio non gli piaceva più tanto.
Un mattino riprese la via del mare e tornò a casa
I primi pinguini dell’Isola Azzurra che incontrò erano dei piccoli che giocavano sulle lastre di ghiaccio galleggianti.
Appena lo videro si misero a strillare e scapparono gridando:
“Un mostro!
Un mostro!”
Gli adulti fecero largo al suo passaggio, ma non per fargli onore.
Lo guardavano tutti con una sorta di ribrezzo.
“Ma perché?
Idioti, sono io, non mi riconoscete?” brontolava Filippo.
“Filippo, figliuolo, lo sapevo che saresti tornato!”
La mamma naturalmente lo riconobbe, ma non osò abbracciarlo.
“Ma in che stato sei!”
“Bentornato, Filippo!” gli disse anche il papà.

Ma non lo toccò.

Le comari tutt’intorno borbottavano:
“Che disgrazia!
Poveri genitori…”
Per la prima volta nella sua vita, a Filippo venne voglia di piangere.
Improvvisamente comprese che i suoi colori continuavano a tenerlo lontano; lo rendevano straniero alla comunità dell’Isola Azzurra.
Mentre lui, solo adesso, si accorgeva che soltanto lì poteva essere veramente felice.
Ma come si fa a tornare indietro?
“Papà!” chiese, “Vorrei cancellare questi colori e ricominciare, se è possibile!”
Dragoberto esitò, poi guardò Filippo negli occhi e disse:
“C’è un mezzo solo:
devi tuffarti dalla Grande Cascata.
Laggiù l’acqua è così violenta e rapida che nessun colore può resistere.
Ma è tremendamente rischioso.
Ci vorrà il tuo coraggio.
Te la senti di farlo?”
“Si, papà!” rispose Filippo.

La voce si sparse in un attimo.

Nel giro di pochi minuti c’erano tutti, grandi e piccoli, intorno alla grande cascata.
Non riuscirono a trattenere un “Oh!” sincero quando in alto, dove il fiume precipitava in mare con un fragoroso boato, apparve Filippo.
Sembrava così piccolo lassù.
Rimase un attimo fermo a concentrarsi, poi spiccò il salto.
Un salto stupendo, come se improvvisamente gli fossero spuntate le ali.
La corrente lo ghermì come un fuscello e lo scagliò violentemente nel mare ribollente e schiumante.
Il pinguino sparì nel vortice.
Tutti trattennero il fiato.
Poi ad un tratto Filippo riemerse.
La forza stessa dell’acqua lo proiettò in alto e tutti videro che le sue piume erano diventate immacolate e che i colori erano scomparsi.
Allora esplosero in un festoso:
“Urrà!” che coprì perfino il tuonare dell’acqua.

Brano tratto dal libro “Storie belle e buone.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

La paziente e l’infermiere

La paziente e l’infermiere

La scrittrice Antonia Arslan ricorda così quello che successe quando, dopo un periodo di coma farmacologico, riprese coscienza.

“Io avevo sete, tanta sete!
Ogni tanto provavo a farmi capire con gli occhi, perché non riuscivo a muovere le mani, sentendo la gola ostruita da qualcosa di viscido ma pesante come un sasso.
“Ho sete! Voglio acqua!” cercavo di dire e mi raschiavo la gola per parlare, ma non riuscivo a tirare fuori la voce.
Tentavo e ritentavo continuamente, pensando che la voce uscisse ma poi non la sentivo:
neanche un soffio.
Non c’era nessuno intorno:
il buio si faceva, di momento in momento, più intenso e la sete ancora più acuta!
Riemergevo da un sonno opprimente ma non potevo chiamare, solo aspettare, quando fui colpita da un’acuta nostalgia:
una voglia di piangere sulla mia miseria, sulla mia solitudine, sulla mia sete.

Fu in quel momento che tornarono in due:

l’infermiera e un giovane, poco più di un ragazzo.
Ogni tanto vengono in coppia:
quando ti devono sollevare e cambiare!
Mi sprimacciarono il cuscino, mi rassettarono il lenzuolo, controllarono che i piedi fossero coperti e che le lucette sul quadro dei controlli fossero a posto.
Poi l’infermiera andò ad aggiornare il diario!
Mentre facevano queste cose, io li seguivo con gli occhi ansiosa, cercando di parlargli, di farmi capire, di fargli capire che avevo bisogno di acqua.
Non sapevo ancora, allora, di avere un tubo in gola.
Stavano per andarsene e l’infermiera uscì per prima.
Ma, come se avesse sentito l’intensità disperata del mio sguardo, il ragazzo si voltò lentamente, mi guardò con attenzione e sorrise!
Poi disse con semplicità:
“Cosa stai pensando, cara:
forse hai bisogno di un’acquata?”

E, come fra sé, si rispose:

“Certo che ne ha bisogno!” e uscì svelto per ritornare, dopo un momento, con larghi teli bianchi e un catino d’acqua, appena tiepida.
Cominciò a bagnare i teli e me li appoggiava sul corpo, dappertutto con meticolosa attenzione, rimettendoli nell’acqua ogni tanto.
Tamponandomi, con un angolo di tela, la fronte e le labbra.
Un senso di frescura infinita mi si diffondeva per le membra e perfino l’arsura in gola si attenuava.
Il buio sembrava meno denso!
Per mezz’ora ci parlammo con gli occhi.
Ogni tanto mi guardava, scuoteva la testa, e diceva:
“Ancora un po’ vero?
Ti fa star meglio, si vede!”
Quando lo vennero a chiamare rispose:
“Non la posso ancora lasciare!” e continuò a darmi acqua sul corpo.
Così mi addormentai di nuovo e lui se ne andò, piano piano, silenziosamente:
per qualche ora dormii tranquilla.

Speravo di rivederlo il giorno dopo:

speravo che mi facesse un’altra acquata, volevo dirgli ancora grazie con gli occhi.
Ma non lo rividi, né il giorno dopo né quelli seguenti!
E quando, finalmente, mi tolsero il tubo e potevo parlare cominciai a chiedere di lui, ma nessuno lo conosceva, né le infermiere né i dottori:
e mi accorsi che tutti loro pensavano che avessi avuto un’allucinazione;
che m’immaginavo di ricordare qualche cosa che, invece, era stata solo un desiderio, una visione interiore dovuta alla troppa sete, ai tanti farmaci, chissà…
Allora smisi di chiedere!
Ma, molti giorni dopo, entrò proprio lui, verso sera, nella mia stanza portando un bicchiere.
Lo riconobbi immediatamente, ma lui no!
Io cominciai a parlargli dell’acquata, sorridendo nervosa, accavallando le parole:
e, finalmente, si ricordò di me!
Ma non pensava di aver fatto nulla di speciale.
Lui, quella sera, aveva fatto un turno per caso, una sostituzione.
Io insistetti, gli dissi quanto avesse significato per me quel suo darmi l’acqua, bagnarmi tutta contro i fantasmi notturni.
E, solo allora, arrossì tutto in viso, come un ragazzino!”

Brano senza Autore

È di notte che si vedono le stelle

È di notte che si vedono le stelle

La crisi aveva picchiato duro e in famiglia tutti sentivano un nodo in gola.
Il papà era stato messo in cassa integrazione e da giorni si parlava solo di come riuscire a risparmiare.

A cena si percepiva un silenzio imbarazzato, nessuno aveva voglia di parlare.

Improvvisamente la mamma batté le mani per attirare l’attenzione di tutti:
“Tutti in piedi, venite fuori con me!”
Sbalorditi, seguirono la mamma fuori, nel piccolo giardino.
“Guardate il cielo!” disse lei.

Tutti guardarono in su.

L’immensa cupola di velluto nero era un trionfo di stelle vive e pulsanti.
Fissandolo si provava come una vertigine, come se tutta quella brillante moltitudine li risucchiasse in un vortice senza fondo.
Si sentirono piccoli piccoli.
Si strinsero l’un l’altro e si abbracciarono.
Quell’incredibile spettacolo li soggiogava e li spronava:

era tutto così grande, illimitato, senza tempo.

Allargava la mente e il cuore, infondeva un nuovo coraggio.
“È di notte che si vedono le stelle!” disse semplicemente la mamma.

Brano tratto dal libro “È di notte che si vedono le stelle.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Il cavallo a dondolo

Il cavallo a dondolo

C’era una volta un cavallo a dondolo.
Era il più bello di tutti i giocattoli di Olta, perché era il più amato.
E lui lo sapeva.

Ma un giorno si stancò di dondolare.

“Se mi vuoi bene,” disse alla sua padroncina, “portami fuori, dove sono gli altri cavalli!”
Olta si sentì molto triste, ma prese il suo cavallo e lo portò in un campo, oltre la staccionata.
Lo salutò con un bacio sulla fronte e poi ripartì, col cuore in gola.
Il cavallo a dondolo sentì gli altri cavalli nitrire.

Provò a nitrire anche lui, ma non ci riuscì.

Poi vide gli altri che correvano e si rincorrevano.
Tentò anche lui, ma non poté muoversi.
Quando lo stalliere venne a spazzolare i puledri, il cavallo a dondolo volle lo stesso trattamento.
Ma, quando anche lui fu lavato, si accorse che il manto di legno aveva perso il suo bel colore.
Il giorno dopo, Olta ripassò dal campo perché aveva nostalgia del suo cavallo.
“Se mi vuoi bene,” le disse lui, “riportami a casa, dove mi hai insegnato a dondolare!”

Olta lo baciò sulla fronte e lo riprese con sé.

Il cavallo a dondolo, pieno di graffi e sbucciature, non luccicava più come una volta e scricchiolava al minimo movimento.
Ma adesso sapeva che ogni suo dondolio cullava un sogno di Olta.
E per lui questo sogno era più bello dei campi verdissimi oltre la staccionata.

Brano senza Autore

Gli alpinisti

Gli alpinisti

Due alpinisti si arrampicavano su una strada impervia, mentre li flagellava un vento gelido.
La tormenta stava per scatenarsi.
Raffiche turbinanti di schegge di ghiaccio sibilavano fra le rocce.

I due uomini procedevano a fatica.

Sapevano molto bene che se non avessero raggiunto in tempo il rifugio sarebbero periti nella tempesta di neve.
Mentre, con il cuore in gola per l’ansia e gli occhi quasi accecati dal nevischio, costeggiavano l’orlo di un abisso, udirono un gemito.
Un pover’uomo era caduto nella voragine e, incapace di muoversi, invocava soccorso.
Uno dei due disse:
“È il destino.
Quell’uomo è condannato a morte.
Acceleriamo il passo o faremo la sua fine.”

E si affrettò tutto curvo in avanti per opporsi alla forza del vento.

Il secondo invece si impietosì e cominciò a scendere per le pendici scoscese.
Trovò il ferito, se lo caricò sulle spalle e risalì affannosamente sulla mulattiera.
Imbruniva.
Il sentiero era sempre più oscuro.
L’alpinista che portava il ferito sulle spalle era sudato e sfinito, quando vide apparire le luci del rifugio.
Incoraggiò il ferito a resistere, ma all’improvviso inciampò in qualcosa steso di traverso sul sentiero.
Guardò e non poté reprimere l’orrore:
ai suoi piedi era steso il corpo del suo compagno di viaggio.

Il freddo lo aveva ucciso.

Lui era sfuggito alla stessa sorte solo perché si era affaticato a portare sulle spalle il poveretto che aveva salvato nel burrone.
Il suo corpo e lo sforzo avevano mantenuto il calore sufficiente, per salvargli la vita.

Brano senza Autore

I due frati e la porta

I due frati e la porta

Sulle pagine di un vecchio libro della biblioteca del monastero, due monaci avevano letto che esiste un luogo, ai confini del mondo, dove cielo e terra si toccano.
Decisero di partire per cercarlo e promisero a se stessi di non tornare indietro finché non lo avessero trovato.
Attraversarono il mondo intero, scamparono a innumerevoli pericoli, sopportarono tutte le terribili privazioni e sacrifici che comporta un pellegrinaggio in tutti gli angoli dell’immensa terra.
Non mancarono neppure le mille seducenti tentazioni che possono distogliere un uomo dal raggiungere la sua meta.

Le superarono tutte.

Sapevano che nel luogo che cercavano avrebbero trovato una porta:
bastava bussare e si sarebbero trovati faccia a faccia con Dio.
Trovarono la porta.
Senza perdere tempo, con il cuore in gola, bussarono.
Lentamente la porta si spalancò.

Trepidanti i due monaci entrarono e…

si trovarono nella loro cella, nel loro monastero.

Un giorno che ricevette degli ospiti eruditi, Rabbi Mendel di Kozk li stupì chiedendo loro a bruciapelo:
“Dove abita Dio?”
Quelli risero di lui:
“Ma che ti prende?
Il mondo non è forse pieno della sua gloria?”.

Il Rabbi diede lui stesso la risposta alla domanda:

“Dio abita dove lo si lascia entrare!”
Ecco ciò che conta più di tutto:
lasciar entrare Dio.
Ma lo si può lasciar entrare solo la dove ci si trova, e dove ci si trova realmente, dove si vive, e dove si vive una vita autentica.
“Io sto alla porta e busso.” dice Dio nella Bibbia.

Brano tratto dal libro “L’importante è la rosa.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

La favola del pesciolino d’oro

La favola del pesciolino d’oro

C’era una volta un pesciolino d’oro, che un bel giorno prese i suoi sette talenti e guizzò lontano, a cercar fortuna.
Non era arrivato tanto lontano che incontrò un’anguilla, che gli disse:

“Psst, ehilà compare, dove te ne vai?”

“Me ne vado in cerca di fortuna.” rispose fieramente il pesciolino d’oro.
“Sei arrivato nel posto giusto!” disse l’anguilla, “Per soli quattro talenti ti puoi comprare questa magnifica e velocissima pinna, grazie alla quale viaggerai a velocità doppia!”
“Oh, è un ottimo affare!” disse estasiato il pesciolino d’oro.
Pagò, prese la pinna e nuotò via più velocemente di prima.
Arrivò ben presto dalle parti di una grossa seppia, che lo chiamò:

“Ehilà, compare, dove te ne vai?”

“Sono partito in cerca di fortuna.” rispose il pesciolino d’oro.
“La hai trovata, figliolo!” disse la seppia, “Per un prezzo stracciato ti posso vendere questa elica, così viaggerai ancora più in fretta!”
Il pesciolino d’oro comprò l’elica con il denaro che gli era rimasto e ripartì a velocità doppia.
Arrivò ben presto davanti a un grosso squalo, che lo salutò:

“Ehilà, compare, dove te ne vai?”

“Sono in cerca di fortuna.” rispose il pesciolino d’oro.
“La hai trovata.
Prendi questa comoda scorciatoia,” disse lo squalo indicando la sua gola spalancata, “così guadagnerai un sacco di tempo!”
“Oh, grazie mille!” esclamò il pesciolino d’oro e si infilò nelle fauci dello squalo, dove venne comodamente digerito.

Brano tratto dal libro “Cerchi nell’acqua.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

I supereroi

I supereroi

Diversi anni fa, poco più che adolescente, mio padre mi chiese di andare a verificare una nostra proprietà.
Si trattava di raggiungere un bosco, posto in cima ad una amena collina, facente parte del corollario dell’Asolano, per verificare e valutare di quanta legna da ardere avremmo potuto disporre in quel momento.

Accettai di buon grado,

sia per la fiducia che mio padre aveva riposto in me sia perché due giorni prima aveva nevicato, nonostante fosse iniziata la primavera da qualche giorno.
Calpestare per primo il sentiero immacolato mi dava un piacere immenso, essendo innamorato della natura, soprattutto se incontaminata.
Arrivato in cima ed avvolto da quel silenzio ovattato, mentre stavo contemplando il paesaggio circostante con all’orizzonte il monte Grappa ed il fiume Piave, intravidi il mio paesello innevato.
Caddi come in estasi per le troppe cose belle che mi ritrovai davanti agli occhi.
Fui riportato alla realtà in maniera traumatica.
Sentì sulla schiena un corpo contundente ed una voce, contemporaneamente, gridare:

“Mani in alto!”

Mi spaventai tantissimo, al punto che temetti per il mio cuore.
Voltandomi vidi il guardiacaccia sogghignare nel puntarmi contro il suo fucile.
Vedendomi pallido e tremante cambiò atteggiamento e si scusò, spiegandomi che pensava fossi un bracconiere, andato a piazzare le trappole per le volpi.
Nei mesi seguenti questo trauma mi segnò a lungo e lo volli superare alla mia maniera, facendo lo stesso percorso in una calda notte d’estate.
Mentre stavo percorrendo il sentiero per raggiungere il nostro bosco, mi sentivo orgoglioso di me stesso perché incurante del buio e degli animali notturni che andavo a disturbare.
Non mi agitavo neanche per gli strani rumori che popolavano il bosco finché, ad un certo punto, qualcosa mi urtò la schiena e, istintivamente, alzai le mani, memore della passata esperienza, ma non parlò nessuno.

Mi voltai lentamente,

nuovamente tutto tremante con il cuore alla gola e capii che era solo un ramo secco che si era impigliato nel mio giubbotto.
Imparai a mie spese la lezione che con il bosco non si fanno sfide.
Non bisogna andare da soli, soprattutto di notte, ne fare gli eroi fuori luogo, anche perché andai senza avvisare nessuno.
Il vero coraggio va dimostrato semmai in altri modi e luoghi.

A distanza di anni, con l’arrivo della primavera, ci ritroviamo a dover combattere contro un nemico invisibile, il coronavirus.
Ed i veri eroi ed i supereroi, pieni di coraggio, in questo particolare e delicato momento per l’Italia, sono medici ed infermieri, oltre a tutte le forze dell’ordine.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Partita a scacchi con il preside

Partita a scacchi con il preside

Nell’ora di ricreazione, un ragazzino negro se ne stava appartato in un angolo del giardino della sua scuola, mentre i compagni, poco più in là, giocavano allegramente col pallone.
Passò il direttore e lo scorse.
“Perché te ne stai qui solitario?” gli chiese.
“I miei compagni non vogliono che io giochi con loro, signore!” rispose il bimbo intimidito.

“Perché?” domandò l’uomo irritato.

“Dicono che sono un lurido negro e che debbo stare alla larga da loro!” balbettò il ragazzo.
Il direttore restò un attimo perplesso, poi gl’intimò di seguirlo.
Si avviarono verso gli uffici della direzione.
Al negretto, il cuore batteva forte in gola.

“Ho osato troppo?” si chiese.

Entrato nel suo ufficio, il preside si sedette alla scrivania, poi fece accomodare il ragazzino di fronte a lui e, presa una grande scacchiera dal cassetto, disse:
“D’ora in poi, all’intervallo, giocheremo tu ed io insieme.”
Gli insegnò le complesse regole del gioco e subito il fanciullo divenne padrone di ogni mossa.
Muoveva pedoni e alfieri con straordinario acume e sbalorditiva prontezza.
L’indomani, al loro secondo incontro, per rispetto al suo illustre avversario, il ragazzino lasciò che fosse il suo superiore a scegliere gli scacchi del colore che preferiva.
“Bianchi o neri?” gli chiese con deferenza.
“Fa lo stesso!” fu la cordiale risposta del direttore che aggiunse:

“Non hanno entrambi le medesime opportunità?

Non si può forse vincere o perdere in uguale misura, sia con gli uni che con gli altri?
Cosa importa il colore?
Quel che conta è giocare, ma giocare bene, rispettando le regole, sia da una parte che dall’altra.”
Finita la partita, il negretto corse giù in giardino.
Intrepido si aprì un varco nella cerchia dei compagni e, a testa alta, s’impose al gruppo affinché accettassero anche lui nei loro giochi.

Brano di Silvia Guglielminetti incluso nel libro “Il secondo libro degli esempi. Fiabe, parabole, episodi per migliorare la propria vita.” Piero Gribaudi Editore.

Il topo ubriaco

Il topo ubriaco

Un topo domestico, nobile, gentile e di bell’aspetto, durante una delle sue disperate corse per sfuggire al gatto, si trovò un bel giorno nella cantina di una ricca villa.
Là, a causa del buio, finì dentro una strana pozzanghera.

Era una pozzanghera di ottimo brandy,

sfuggito dallo spinotto difettoso di una botticella di pregiato rovere.
Il buon topo dapprima diede qualche timida leccatina a quel liquido curioso.

Il sapore gli piacque.

Aveva un gusto forte e deciso, scendeva in gola come fuoco.
Quando ebbe “bevuto” la pozzanghera, il topo si raddrizzò, picchiò i pugni sul petto, fece la faccia feroce e gridò:
“Dov’è il gatto?”

Brano tratto dal libro “Il canto del grillo.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.