I due fratelli

I due fratelli

Due fratelli, uno scapolo e l’altro sposato, possedevano una fattoria dal suolo fertile, che produceva grano in abbondanza.
A ciascuno dei due fratelli spettava la metà del raccolto.
All’inizio tutto andò bene.
Poi, di tanto in tanto, l’uomo sposato cominciò a svegliarsi di soprassalto durante la notte e a pensare:

“Non è giusto così.

Mio fratello non è sposato e riceve metà di tutto il raccolto.
Io ho moglie e cinque figli, non avrò quindi da preoccuparmi per la vecchiaia.
Ma chi avrà cura del mio povero fratello quando sarà vecchio?
Lui deve mettere da parte di più per il futuro di quanto non faccia ora.

È logico che ha più bisogno di me!”

E con questo pensiero, si alzava dal letto, entrava furtivamente in casa del fratello e gli versava un sacco di grano nel granaio.
Anche lo scapolo cominciò ad avere questi attacchi durante la notte.
Ogni tanto si svegliava e diceva tra sé:
“Non è affatto giusto così.
Mio fratello ha moglie e cinque figli e riceve metà di quanto la terrà produce.

Io non ho nessuno oltre a me stesso da mantenere.

È giusto allora che il mio povero fratello che ha evidentemente molto più bisogno di me riceva la stessa parte?”
Quindi si alzava dal letto e andava a portare un sacco di grano nel granaio del fratello.
Un notte si alzarono alla stessa ora e si incontrarono ciascuno con in spalla un sacco di grano!
Molti anni più tardi dopo la loro morte, si venne a sapere la loro storia.
Così, quando i loro concittadini decisero di costruire un tempio, essi scelsero il punto in cui i due fratelli si erano incontrati, poiché secondo loro non vi era un luogo più sacro di quello in tutta la città.

Brano tratto dal libro “La preghiera della rana. Saggezza popolare dell’Oriente. Volume 1” di Anthony De Mello

È arrivato un mostro!

È arrivato un mostro!

Il paese di Dolceacqua era il più sereno e pacifico della terra.
Come scrivono nei loro libri gli scrittori, era un paesino davvero “ridente.”
Tutto procedeva bene finché una notte blu, per le vie deserte, si sentì uno strano “toc toc, toc toc, toc toc…”, accompagnato da un ansimare cupo e raschiante.
Solo qualche coraggioso si affacciò alla finestra.
Un bisbigliare concitato cominciò a rincorrersi dietro le persiane:
“È un forestiero!”
“Un gigante…”
“Mamma mia, quant’è brutto!”
“Ha l’aria feroce…”
“E’ un mostro! Divorerà i bambini!”

Lo sconosciuto camminava curvo sotto il peso di un grosso sacco.

Aveva gli occhi gialli, la barba irsuta e verde, le unghie lunghe e curve.
Ogni tanto era costretto a fermarsi per soffiarsi il naso:
doveva avere un terribile raffreddore.
Ecco perché ansimava e tossiva come un vecchio mantice sforacchiato.
C’era, al fondo del paese, a due passi dal bosco, una profonda caverna nera.
Il mostro, non trovando niente di meglio, ci si installò.
Nell’osteria del paese si riunirono il giorno dopo tutti, anche le nonne, le mamme e i bambini.
“Io l’ho visto bene e da vicino: è terribile!”

“L’ho guardato negli occhi: fanno paura!”

“Sputa fiamme dalle narici!”
“Io ho sentito il suo ruggito: tremo ancora tutta!” gorgheggiò Maria Rosa, la più bella ragazza del paese.
Tutti i giovanotti sospirarono.
“È il diavolo!” disse una nonna.
“Ma che diavolo! È un orco mangia-uomini… poveri noi!” singhiozzò una vecchietta.
“Bhé, se mangia gli uomini, tu non dovresti preoccuparti!” sghignazzò Battista, il buffone del villaggio.
“Io l’ho visto da vicino vicino!” disse Simone, un ragazzetto di dodici anni.
“Anche io… Ero con lui.” gli fece eco la sorellina Liliana.
“Ecco, anche i bambini!” brontolò Sebastiano, il sindaco, “E dite, ditelo voi, come era quel mostro. Faceva paura, non è vero?”
“No!” disse Simone.
“Non faceva paura!” disse Liliana.

E aggiunse: “Era solo diverso da noi!”

Se ne andarono tutti a casa e, mentre camminavano in fretta per le strade silenziose, avevano una gran paura di incontrarsi faccia a faccia con il mostro.
Sbirciavano in su, verso il bosco.
Dove si intravedeva la gran bocca nera della caverna in cui era andato ad abitare il mostro.
Proprio in quel momento, ingigantito dall’eco della caverna, si udì un tremendo, roboante starnuto.
“È il mostro! Aiuto!” e strillando a più non posso tutti si rifugiarono in casa e chiusero a tripla mandata tutte le serrature che trovarono.
Le mamme rimboccarono le coperte ai bambini:
“Non abbiate paura, qui siamo al sicuro!”
I papà chiusero le finestre e misero un robusto randello dietro alla porta.
“Se osa venire da queste parti, dovrà vedersela con noi.”

Nei giorni seguenti, a Dolceacqua, la vita riprese normalmente.

I papà e le mamme al lavoro, i bambini a scuola, Maria Rosa davanti allo specchio a mettere i bigodini ai suoi bei capelli color del grano.
I giovanotti la sbirciavano e sospiravano.
Quasi tutti si erano dimenticati del mostro, che, a onor del vero, non dava fastidio a nessuno.
Solo, ogni tanto, si udiva un rumore terribile.
La gente diceva:
“Ma guarda, il mostro ha starnutito, si è di nuovo raffreddato!” e tornavano alle loro occupazioni.
Un giorno un camion carico di mattoni passò troppo velocemente su una buca della strada e perse due mattoni.
Tommaso, un ragazzino che passava di là, si fermo e ne raccolse uno.
Samuele, un suo amico che usciva dalla scuola, dove si era fermato a finire i compiti, lo vide.
“Ehi, Tom! Che cosa vuoi fare con quel mattone?”
“Ho voglia di andare a tirarlo sulla testa del mostro che abita la caverna nera.
Non abbiamo bisogno di mostri in questo paese!”

Samuele replicò ridendo:

“Scommettiamo che non hai il coraggio?”
Ma Tommaso se ne andava tutto impettito con il suo mattone in mano.
Samuele raccolse l’altro mattone:
“È vero, non abbiamo bisogno di quel mostro, qui.
Aspettami, Tom, vengo con te!”
Tommaso disse:
“D’accordo, ma l’idea è stata mia e sono io che tirerò il primo mattone!”
Un contadino appoggiato alla staccionata del suo prato li vide passare:
“Dove andate?”
Tommaso spiegò:
“Andiamo a buttare questi mattoni sulla testa del mostro che abita lassù, nella caverna nera!”
Il contadino disse:
“Per me non avrete il coraggio.
E poi, come farete a far uscire il mostro dalla caverna?
È sempre rintanato dentro e lo si sente solo starnutire qualche volta!”

“Griderò:

“Vieni fuori, mostro!
Dovrà ben uscire!” dichiarò Tommaso.
Il contadino borbottò:
“Aspettate un attimo, ho un mattone che mi serve a tener aperta la porta; lo prendo e vengo con voi. Non abbiamo bisogno di mostri qui!”
Tommaso, Samuele e il contadino se ne andarono insieme con un mattone sotto il braccio. Passarono accanto all’orto della signora Zucchini.
“Dove andate?” chiese la signora Zucchini quando li vide.
“Andiamo a gettare questi mattoni sulla testa del mostro che abita nella caverna nera!” rispose Tommaso.
La signora Zucchini sogghignò:
“Non ne avrete il coraggio.
Dicono che sia orribile e peloso.
E poi, dopotutto, non dà fastidio a nessuno!”
Tommaso e Samuele protestarono:
“Non importa, non abbiamo bisogno di un mostro qui!”
“Scapperà come un coniglio e noi diventeremo gli eroi del paese!” aggiunse il contadino.
“Vengo anch’io!” decise la signora Zucchini, “Ho qualche mattone in un angolo; chiamerò anche i miei sette figli:

voglio che anche loro siano degli eroi!”

Quando i sette bambini arrivarono, il più grande domandò:
“Non c’è nessuno che voglia abitare nella caverna nera:
perché non la lasciamo al mostro?”
La madre gli rispose:
“Perché è un mostro, tutto qui.
Allora taci, prendi un mattone e seguici!”
Piano piano si formò una lunga coda di gente con un mattone in mano.
Chiudeva la fila il maestro con tutti i bambini della scuola.
Il sindaco ordinò che tutti gli abitanti di Dolceacqua prendessero un mattone dal vicino cantiere e si mettessero in marcia per tirarlo sulla testa del mostro che abitava nella caverna nera.
“Lo faremo scappare nel paese vicino!” gridò la signora Zucchini, “L’abbiamo tenuto abbastanza, noi!
Che vada a disturbare gli altri, adesso!”
Tutti gridarono:
“Urrà, bene!
Non abbiamo bisogno di mostri in questo paese!”

E si misero in marcia verso la caverna nera.

Proprio quel giorno, il mostro aveva deciso di pigrottare un po’ di più a letto e di terminare il suo libro preferito, facendo colazione con succo d’arancia e due uova al tegamino.
Improvvisamente sentì un rumore di passi e il vociare di persone che si avvicinavano e pensò: “Finalmente una visita!
È tanto tempo che sono solo!”
Saltò giù dal letto, si mise una camicia pulita e la cravatta, si lavò ben bene anche dietro le orecchie e si pulì i denti con spazzolino e dentifricio.
Poi aprì la porta e uscì, salutando tutti con un gran sorriso.
Tutti gli abitanti di Dolceacqua si fermarono impietriti:
Tommaso, Samuele, il contadino, la signora Zucchini e i suoi sette figli, i vicini, il sindaco, il maestro e i bambini della scuola.
Sembravano delle belle statuine.
Il mostro sorrise ancora e li invitò:
“Entrate, entrate.
Ho appena fatto il caffè!”

Tutti i suoi denti brillavano, ne aveva tanti e molto appuntiti.

Il mostro insisteva: “Entrate, per piacere, sono così contento di vedervi!”
Ma nessuno capiva la lingua del mostro.
Sentivano solo dei terribili grugniti e dei suoni che facevano accapponare la pelle.
Lasciarono cadere i mattoni e se la diedero a gambe, correndo a più non posso.
Nella confusione la piccola Liliana si prese una brutta storta alla caviglia, ma nessuno senti il suo “Ahia!”
Erano tutti troppo occupati a fuggire.
Così il mostro si trovò, un po’ imbarazzato, a contemplare un mucchio di mattoni e una bambina con i lacrimoni perché aveva male alla caviglia.
Il mostro corse in casa e prese la valigetta del pronto soccorso.
In quattro e quattr’otto, spalmò sulla caviglia di Liliana la pomata “Baciodimamma” che fa guarire tutto, la fasciò con cura e asciugò le lacrime della bambina.
Intanto gli abitanti erano arrivati ansimanti nella piazza centrale.
Non ebbero tempo di riprendere fiato.

Una voce gridò:

“Il mostro ha preso Liliana!”
“Se la mangerà!” strillò la signora Zucchini.
“Corriamo a liberarla!” disse un coraggioso.
Ripresero tutti la strada della caverna nera.
Ben decisi stavolta a liberare la piccola Liliana.
Quando arrivarono trovarono il mostro e Liliana che giocavano a dama, ridendo, scherzando e bevendo una cioccolata calda dal profumo delizioso.
“Ooooh!” dissero tutti insieme.
“Ah! Siete tornati, meno male!” disse il mostro, “Non ero riuscito a ringraziarvi del vostro splendido regalo.
La caverna è umida e malsana e perciò sono sempre raffreddato.
Con i mattoni che mi avete portato mi costruirò una bella casetta.
Grazie, davvero, di cuore!”
Chissà come, questa volta la gente capì il discorso del mostro.
E lo aiutarono tutti a costruire una graziosa casetta in fondo al paese.
Il più felice era Tommaso, che alla fine disse:
“Avete visto che ho fatto uscire il mostro dalla caverna nera?”

Brano tratto dal libro “Nuove storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero

Il nuovo principe (Un granello alla volta)

Il nuovo principe
(Un granello alla volta)

In uno sperduto angolo del regno d’Etiopia, viveva un re che amava le favole più di ogni altra cosa al mondo.
Diventato vecchio, però, si annoiava perché ormai le conosceva tutte.
Così un giorno fece annunciare in tutto il Paese che avrebbe dato il titolo di principe a chiunque gli avesse saputo raccontare una favola nuova, in grado di suscitare la sua attenzione e la curiosità di conoscere il finale.
Numerosi cantastorie vennero da tutti gli angoli del reame e dai Paesi vicini, ma nessuno riuscì ad interessare le orecchie reali, sempre tristi e distratte.
Un giorno un povero contadino bussò alle porte del palazzo per raccontare al vecchio re la storia di un agricoltore che aveva ammassato nel suo granaio il raccolto più ricco della sua vita.
Ma c’era un piccolo buco nel granaio e, quando tutto il grano fu portato dentro, una formica vi entrò e portò via un chicco.

“Molto interessante, continua.” disse il re.

Il contadino proseguì:
“Il secondo giorno un’altra formica passò nel buchino e portò via un altro chicco di grano, il terzo giorno accadde la stessa cosa…”
Il re era ormai molto preso dalla storia del contadino e chiese di tagliare corto sui dettagli per sapere come andava a finire tutto quel via vai di formiche nel granaio.
“Vai avanti, non mi annoiare!” urlò il re rosso in viso.
Ma il contadino continuava.
“Basta!

Vai avanti!” ordinò il re.

Il contadino sembrava sordo e proseguiva con la sua cantilena di formiche e chicchi di grano.
Si interruppe per dire:
“Mio re, questa è la parte più importante della storia:
il granaio è ancora pieno di chicchi di grano.”

Allora il sovrano esclamò:

“Hai vinto tu!
Ho capito che bisogna saper ascoltare gli altri con pazienza e umiltà.
I racconti più belli non sono quelli che ci stupiscono con grandi eventi, ricchezze, rivoluzioni e storie d’amore impossibili.
Sono quelli che, come succede nella vita di ogni giorno, ci fanno sperare di riuscire a vedere i risultati dei nostri sforzi.”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il fratello ricco e il fratello povero

Il fratello ricco e il fratello povero

C’era una volta due fratelli; uno molto ricco, l’altro molto povero.
Un giorno il povero faceva la guardia ai covoni di grano ammucchiati nel campo del fratello ricco e mentre se ne stava lì seduto sul covone scorse una donna in bianco che raccoglieva le spighe rimaste nei campi mietuti e le aggiungeva ai covoni.
Quando la donna giunse fino a lui, la prese per mano, se la tirò vicino e le chiese che cosa facesse lì. “Sono la Felicità di tuo fratello e raccolgo le spighe rimaste, perché il suo grano sia ancora più abbondante.”
“Dimmi, allora, e la mia felicità, dov’è?” replicò il poveretto, “Verso Oriente!” rispose la donna, e scomparve.

Fu così che il povero si mise in testa di andare per il mondo in cerca della propria Felicità.

E quando un giorno di buonora stava per mettersi in viaggio, dal suo camino saltò fuori la Miseria e piangeva e pregava che la prendesse con sé.
“Mia cara,” disse il povero, “sei troppo debole per affrontare un viaggio così lungo, non ce la faresti mai; ma qui c’è una boccetta vuota, fatti piccina, infilatici dentro e ti porterò con me.”
La Miseria s’infilò nella boccetta e lui senza perdere tempo la tappò con un turacciolo e l’avvolse bene in modo che non si rompesse.
Quando si trovò per via, appena arrivò a un pantano tirò fuori la boccetta e la gettò via, liberandosi così dalla Miseria.
Dopo qualche tempo giunse a una grande città e un certo signore lo prese al suo servizio con l’incarico di scavargli uno scantinato.

“Non riceverai del denaro,” gli disse, “ma tutto ciò che trovi scavando è tuo!”

Dopo un po’ che scavava trovò un lingotto d’oro, secondo gli accordi gli sarebbe spettato, ma lui ne diede una metà al signore e riprese il lavoro.
Arrivò finalmente a una porta di ferro, l’aperse e vi trovò un sotterraneo pieno di ogni ricchezza.
Ed ecco che da una cassa lì sotto s’udì una voce:
“Mio signore, aprimi! Aprimi!”
Egli spostò il coperchio e da dentro saltò fuori una bella fanciulla tutta in bianco che s’inchinò davanti a lui e gli disse:
“Sono la tua Felicità, quella che hai cercato così a lungo; d’ora innanzi sarò vicina a te e alla tua famiglia!”
Dopo di che scomparve.
Egli rimase poi a guardarsi intorno e a rimirare quella ricchezza con il suo signore di una volta e da quel momento fu immensamente ricco e la sua fama cresceva di giorno in giorno.
Eppure non dimenticò mai l’indigenza di un tempo e si prodigò in tutti i modi per aiutare i poveri del luogo.
Dopo aver incontrato una bellissima fanciulla, la conobbe e la sposò.
Poco tempo dopo ebbero un figlio.

Un giorno, mentre passeggiava per la città, incontrò il fratello che si trovava da quelle parti per affari.

L’invitò a casa e gli raccontò con tutti i particolari le sue avventure e che aveva visto la Felicità spigolare nel campo di grano e come s’era liberato della propria Miseria e altro ancora.
L’ospitò per qualche giorno e quando il fratello stava per partire gli diede molto denaro per il viaggio, fece molti doni alla moglie e ai figli e si separò da lui fraternamente.
Ma suo fratello era un uomo sleale e invidiava la Felicità dell’altro.
Da quando aveva lasciato la sua casa non faceva che pensare come far tornare il fratello nella Miseria.
Non appena giunse alla palude dove il fratello aveva ficcato la boccetta, si mise a cercarla e non si dette pace finché non la trovò.
L’aperse subito.
La Miseria saltò fuori immediatamente, cominciò a crescere davanti ai suoi occhi, saltargli intorno, l’abbracciò, lo baciò e lo ringraziò di averla liberata da quella prigionia:

“Sarò sempre grata a te e alla tua famiglia e non vi abbandonerò fino alla morte.”

Inutilmente il fratello invidioso cercò di dissuaderla, invano la mandava dal suo padrone di una volta; non riuscì in nessun modo a togliersi la Miseria di dosso, né a venderla né a regalarla né a sotterrarla né ad annegarla, gli stette sempre alle calcagna.
I briganti lo derubarono della merce che stava portando a casa; riuscì a ritornare chiedendo l’elemosina; al posto del suo palazzo trovò un mucchio di cenere e tutto il suo raccolto era stato portato via da una inondazione.
Fu così che al fratello invidioso non rimase null’altro che… la Miseria.

Brano tratto dal libro “Fiabe di Praga magica.” di Scilla Abbiati. Edizioni Arcana.

Il contadino ed il diavolo sciocco

Il contadino ed il diavolo sciocco

C’era una volta un contadino così povero che non aveva neanche un pezzo di terra tutto suo.
Un bel giorno trovò un campo abbandonato, lo arò ben bene e cominciò a seminare il grano.
Quel campo apparteneva al diavolo, che era uno sciocco ma si credeva furbo.
Il diavolo andò dal contadino e gli disse:
“Semina pure il campo, ma a una condizione:
faremo due parti con il raccolto.
Tu prenderai quello che esce fuori dalla terra e io prenderò ciò che rimane sottoterra.”

“Non ho nulla in contrario!” rispose il contadino.

Passò del tempo e il diavolo vedendo che il contadino sudava e lavorava la terra, lo prendeva in giro.
“Lavora sciocco, che io raccoglierò il frutto delle tue fatiche!” gli diceva.
Giunse il tempo della mietitura.
Il contadino tagliò il grano, raccolse le spighe in fasci e da esse ottenne cento sacchi di grano colmi colmi.
Il diavolo invece raccoglieva quello che era rimasto interrato: solo radici!
Al mercato il grano del contadino fu pagato molto bene, mentre il diavolo fu preso a calci:
quando mai si erano vendute quelle radici?

“Mi hai imbrogliato!” urlò il diavolo infuriato.

“Io ti ho imbrogliato?” ribatté il contadino “Io ho rispettato il contratto che mi hai imposto:
io il sopra e tu il sotto!”
“Bene bene,” disse il diavolo “non ne parliamo più.
Però dal prossimo raccolto io prenderò ciò che sbuca fuori e tu ti terrai quello che c’è sotto!” anche questa volta il contadino arò e lavorò ben bene la terra, ma invece di grano piantò patate.
Il diavolo lo guardava faticare e, come la prima volta rideva di lui.
Quando le patate furono cresciute e pronte per la raccolta, il diavolo prese le pianticelle che sbucavano fuori dalla terra, mentre il contadino gli andava dietro estraendo dalla terra tante patate grosse grosse.

Tutti e due poi andarono al mercato a vendere i loro prodotti.

“Patate! Patate! Belle patate!” gridava il contadino al mercato e la gente si affollava intorno a lui perché tutti volevano comprarne.
“Foglie! Foglie! Belle foglie verdi!” gridava il diavolo, ma la gente, invece di avvicinarsi, si faceva beffe di lui.
Il diavolo si arrabbiò tanto che finì per essere preso a bastonate dalla gente e dovette fuggire per sempre.
Il contadino rimase padrone del campo e visse allora felice e contento.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il boscaiolo e la principessa


Il boscaiolo e la principessa

C’era una volta un giovane boscaiolo che, un giorno, andò in città al castello del Re, per vendere un po’ di legna.
Caricò quindi il carretto, con fascine e tocchi di legna da ardere, e partì.
Lungo il tragitto si fermò sulla riva di un fiume per far bere un sorso d’acqua al cavallo; d’un tratto si accorse che in mezzo alle canne, che crescevano sulla sponda, c’erano tre pesciolini che boccheggiavano:
erano rimasti incastrati e non riuscivano più a nuotare.
Il boscaiolo, che voleva molto bene agli animali, prese allora una ciotola dal suo zaino e con molta delicatezza vi fece scivolare dentro uno alla volta i pesciolini e li liberò nel fiume:
“Ciao pesciolini!
Fate più attenzione la prossima volta!”
Poco dopo salì sul suo carretto e si rimise in cammino.
Era una bella giornata soleggiata e il boscaiolo era di ottimo umore.
Mancava ancora un’ora all’arrivo e decise allora di fermarsi per mangiare un po’ di pane e del formaggio che aveva nel suo zaino.

Sul ciglio del sentiero c’era un grande masso sotto un albero.

Slegò il cavallo così che potesse mangiare l’erba che c’era lì intorno e lui si sedette sul masso.
Mangiò il suo panino con grande appetito, si rimise in piedi e si scrollò di dosso le briciole di pane.
Molte formichine si erano già raggruppate per recuperare le briciole e portarle nel loro formicaio.
Il boscaiolo si mise a osservarle incuriosito:
“Buon appetito formichine!” disse sorridendo.
Seguì la carovana con lo sguardo e si accorse ben presto che si interrompeva vicino la ruota del carretto.
Si rese subito conto che aveva ostruito con la ruota l’ingresso del formicaio, creando panico tra le piccole operaie.
Dispiaciuto per l’accaduto, si adoperò subito per liberare l’ingresso del formicaio, spostando la ruota e liberando l’ingresso dalla terra che era caduta dentro.
Subito dopo riprese il viaggio.
Finalmente arrivò in città e si diresse verso il castello per vendere lì la sua legna.
Bussò alla porta riservata ai mercanti e aprì un servitore: “Chi è?”

“Sono il boscaiolo e sono qui per vendere la legna!”

Il servitore fece entrare il boscaiolo e il suo carretto e lo condusse nel cortile interno per scaricare la legna.
Lui vuotò il carretto e aspettò di venir pagato.
Si mise a girovagare per il cortile e si avvicinò all’albero che era al centro.
Sentiva un debole pigolio e incuriosito si mise a cercare da dove proveniva.
Poco sotto l’albero c’erano tre piccoli di gazza che erano caduti dal nido che si trovava su un ramo.
Pigolavano disperatamente: erano affamati e spaventati.
Il boscaiolo prese un pezzo di pane che aveva con se, lo sbriciolò e diede da mangiare le briciole agli uccellini.
Una volta sfamati, li prese e li rimise nel nido.
La principessa era affacciata alla finestra e da lì vide il giovane boscaiolo che nutriva gli uccellini e li salvava.
Piacevolmente colpita, decise di dover conoscere più da vicino il giovane del cortile.
Finse di essere una serva e andò nel cortile:
era emozionata perché da vicino il giovane boscaiolo era molto più carino.

“Buongiorno giovane, che fate qui?”

Il boscaiolo si voltò e vide una bellissima ragazza con lunghi capelli, occhi grandi e sorridenti e una bocca color di ciliegia.
Si innamorò di lei a prima vista e rispose balbettando:
“Sono un boscaiolo e sono venuto a portare la legna.”
“Ho visto che avete salvato la vita a quei poveri uccellini.”
Il boscaiolo rispose umilmente:
“Chiunque lo avrebbe fatto al mio posto, chi non si adopererebbe per aiutare dei poveri uccellini indifesi?”
In quel momento arrivò il servitore per pagare il boscaiolo ed esclamò:
“Principessa!
Cosa fate qui in cortile così abbigliata?
Ah, se lo venisse a sapere vostro padre!”
La principessa pregò il servitore di mantenere il segreto e si ritirò nelle sue stanze, non prima di aver salutato il boscaiolo.
Mentre rientrava in camera la principessa si rese conto di essersi innamorata del boscaiolo a prima vista:
era, sì, di umili origini,

ma da come si era comportato con gli uccellini si capiva che aveva un animo nobile.

Sapeva però che era un amore impossibile perché il re, suo padre, non avrebbe mai acconsentito ad un matrimonio con un uomo che non fosse un principe.
Soffriva così tanto per questo amore impossibile che si ammalò e nessun medico di quelli a corte riuscì a lenire il suo dolore, perché non ci sono medicine che possono guarire un cuore innamorato.
I medici dissero al re che, il malore della principessa, veniva dal profondo del cuore, solo lei poteva decidere di guarire.
Mentre tornava nella sua casa, il boscaiolo non poteva non pensare alla dolce principessa, al suono melodioso della sua voce:
peccato che fossero riusciti a scambiarsi così poche parole!
Passava intere giornate a chiedersi come fare per poter conquistare il suo cuore, ignorando che i suoi sentimenti fossero ricambiati.
Intanto le condizioni della principessa si aggravarono e il padre, disperato, si recò nella stanza della principessa e le disse:
“Figlia mia, cosa posso fare per aiutarti?
Farò tutto ciò che vuoi e che è in mio potere per poter far guarire il tuo cuore.”
Con un filo di voce la principessa disse:
“Il mio cuore appartiene al boscaiolo.
Se non potrò vivere con lui, io morirò.”
“Figlia mia, non puoi sposare un semplice boscaiolo, tu sei la figlia del re!” esclamò il re.
“Non posso vivere senza il mio amore!” disse la principessa con un filo di voce.

Il re sospirò e lasciò la stanza.

Era combattuto, non poteva vedere la figlia morire ed allo stesso tempo non poteva tollerare l’idea di dare la sua unica figlia in sposa a un semplice boscaiolo.
Alla fine decise di dare al boscaiolo una possibilità:
se avesse superato tre prove alle quali lo avrebbe sottoposto, avrebbe potuto avere in sposa la principessa.
Il boscaiolo venne fatto chiamare al cospetto del Re che gli offrì la mano della principessa, a condizione che lui se ne mostrasse degno.
L’araldo poi illustrò le prove che avrebbe dovuto superare.
La prima prova consisteva nel recuperare un anello che era stato gettato in un punto imprecisato del fiume.
Il boscaiolo aveva un solo giorno per provare a trovare l’anello:
se avesse fallito, avrebbe dovuto dire addio alla sua amata.
Il boscaiolo era deciso a riuscire nell’impresa perché amava tanto la sua principessa, ma era disperato perché non sapeva nuotare.
Era seduto sulla riva del fiume tenendosi la testa tra le mani quando scorse nell’acqua tre pesciolini:
erano i pesciolini ai quali aveva salvato la vita il giorno che andò in città.
Uno di loro aveva in bocca un piccolo oggetto luccicante:
era l’anello!
I pesciolini lo stavano ringraziando per averli aiutati!

Il boscaiolo era commosso e stupito.

Recuperò l’anello dalla bocca del pesciolino e corse al castello per consegnarlo al re.
La prima prova era stata superata.
La principessa era stata informata di quello che stava accadendo dalla sua fida ancella e, quando seppe che la prima prova era stata superata, cominciò a stare un po’ meglio.
Il giorno dopo fu il momento della seconda prova:
il boscaiolo venne condotto nel cortile del castello, quel cortile che vide nascere l’amore tra lui e la principessa.
Su un lato del cortile c’erano dieci sacchi di grano e dieci servitori.
Ad un cenno del re, i servitori rovesciarono i dieci sacchi di grano per tutto il cortile e l’Araldo spiegò che il boscaiolo avrebbe dovuto raccogliere tutti i chicchi di grano:
aveva tempo fino all’alba del giorno dopo.
I chicchi erano ovunque nel cortile, tra la ghiaia, i fili d’erba, nascosti nei più piccoli anfratti.
L’entusiasmo che aveva per il superamento della prima prova pian piano svanì lasciando nuovamente posto allo sconforto.
Per quanto velocemente raccogliesse il grano, difficilmente sarebbe riuscito a portare a termine la prova entro i tempi stabiliti.
Era oramai calato il sole, al castello dormivano tutti e il boscaiolo era ancora in alto mare, quando, da sotto la porta, vide una processione di formiche:

erano tantissime!

Erano le formiche del formicaio che aveva salvato dalla distruzione ed erano lì a ringraziarlo per aver salvato la loro vita!
Le formichine iniziarono a raccogliere i chicchi di grano e a riporli nei sacchi; grazie al loro olfatto riuscivano a scovare anche i chicchi di grano che erano nascosti nei posti dove il boscaiolo mai avrebbe potuto trovarli.
Prima dell’alba ogni singolo chicco di grano era stato recuperato e anche la seconda prova era stata superata.
E la principessa migliorò ancora un po’.
Era giunto il momento della terza e ultima prova.
Se il boscaiolo l’avesse superata, finalmente i due innamorati avrebbero potuto coronare il loro sogno d’amore.
L’araldo iniziò a spiegare l’ultima prova.
Il boscaiolo avrebbe dovuto portare al Re una delle mele d’oro che crescevano sull’albero magico che si trovava in cima alla montagna incantata.
Tutti sapevano che coloro che erano partiti per la montagna incantata non avevano fatto ritorno e lo sapeva anche il boscaiolo.
Si incamminò verso la montagna incantata e, arrivato quasi a metà strada, vide arrivare in volo tre uccelli.

Erano le gazze che aveva salvato e che ora erano cresciute.

Avevano udito della prova che doveva superare e avevano deciso di ringraziare il giovane boscaiolo andando a prendere la mela d’oro.
Infatti una di loro aveva, stretta nel becco, la mela preziosa e la diede al giovane che non poteva credere ai suoi occhi.
Prese la mela e corse verso il castello per consegnare la mela al Re e per poter finalmente abbracciare la sua amata.
La principessa guarì e finalmente i due innamorati poterono sposarsi con la benedizione del Re.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Carote, uova o caffè?


Carote, uova o caffè?

Una figlia si lamentava con suo padre circa la sua vita e di come le cose le risultavano tanto difficili.
Non sapeva come fare per proseguire e credeva di darsi per vinta.
Era stanca di lottare.
Sembrava che quando risolveva un problema, ne apparisse un altro.
Suo padre, uno chef di cucina, la portò al suo posto di lavoro.
Lì riempì tre pentole con acqua e le pose sul fuoco.
Quando l’acqua delle tre pentole stava bollendo, in una collocò carote, in un’altra collocò uova e nell’ultima collocò grani di caffè.

Lasciò bollire l’acqua senza dire parola.

La figlia aspettò impazientemente, domandandosi cosa stesse facendo il padre.
Dopo venti minuti egli spense il fuoco.
Tirò fuori le carote e le collocò in una scodella.
Tirò fuori le uova e le collocò in un altro piatto.
Finalmente, colò il caffè e lo mise in un terzo recipiente.
Guardando sua figlia, le chiese:

“Cara figlia mia, carote, uova o caffè?”

La fece avvicinare e le chiese che toccasse le carote: ella lo fece e notò che erano soffici.
Le chiese quindi di prendere un uovo e di romperlo:
mentre lo tirava fuori dal guscio, osservò l’uovo sodo.
Poi le chiese che provasse il caffè, ed ella sorrise mentre godeva del suo ricco aroma.
Umilmente la figlia domandò:

“Cosa significa questo, padre?”

Egli le spiegò che i tre elementi avevano affrontato la stessa avversità, l’acqua bollente, ma avevano reagito in maniera differente.
La carota arrivò all’acqua forte, dura, superba; ma dopo avere passato per l’acqua, bollendo era diventata debole, facile da disfare.
L’uovo era arrivato all’acqua fragile, il suo guscio fine proteggeva il suo interno molle, ma dopo essere stato in acqua, bollendo, il suo interno si era indurito.
Invece, i grani di caffè, erano unici: dopo essere stati in acqua, bollendo, avevano cambiato l’acqua.

“Quale sei tu, figlia?” le chiese.

“Quando l’avversità suona alla tua porta, come rispondi?
Sei una carota che sembra forte, ma quando l’avversità ed il dolore ti toccano, diventi debole e perdi la tua forza?
Sei un uovo che comincia con un cuore malleabile e buono di spirito, ma che dopo una morte, una separazione, un licenziamento, una pietra durante il tragitto diventa duro e rigido?
Esternamente ti vedi uguale, ma sei amareggiata ed aspra, con uno spirito ed un cuore indurito?

O sei come un grano di caffè?

Il caffè cambia l’acqua, l’elemento che gli causa dolore.
Quando l’acqua arriva al punto di ebollizione, il caffè raggiunge il suo miglior sapore.
Se sei come il grano di caffè, quando le cose si mettono peggio, tu reagisci in forma positiva, senza lasciarti vincere, e fai si che le cose che ti succedono migliorino, che esista sempre una luce che illumina la tua strada davanti all’avversità e quella della gente che ti circonda.
Per questo motivo non mancare mai di diffondere con la tua forza e positività il dolce aroma del caffè!”

Brano senza Autore, tratto dal Web

L’agricoltore e Dio


L’agricoltore e Dio

Non molto tempo fa, esisteva un contadino che si lamentava sempre delle condizioni atmosferiche che, a suo parere, erano sempre contrarie alle sue semine ed ai suoi raccolti.
Un giorno il contadino incontrò Dio e gli disse:
“Hai creato il mondo, ma non sei un contadino, non conosci l’agricoltura.
Hai ancora molto da imparare.
Hai ancora poca esperienza riguardo il clima e le condizioni atmosferiche adatte all’agricoltura.”
Dio gli chiese:

“Qual è il tuo consiglio?”

“Dammi un anno e lascia che le cose vadano come voglio e vedrai che la povertà e la fame non esisteranno mai più sulla terra.” esclamò il contadino.
Dio accettò.
Naturalmente, l’agricoltore chiese il massimo:
niente più tempeste né alcun pericolo per il grano.
Il grano cresceva sano e abbondante ed i contadini erano felici.
Tutto sembrava perfetto.

Alla fine dell’anno, l’agricoltore rivide Dio e gli disse con orgoglio:

“Hai visto quanto grano?
C’è abbastanza cibo per 10 anni senza dover più lavorare!”
Dio annuì con compassione.
Tuttavia, una volta raccolto tutto il grano il contadino si rese conto che i chicchi erano tutti vuoti.
Perplesso, chiese a Dio cosa fosse accaduto, ed Egli rispose:
“Hai deciso di eliminare tutti i conflitti e gli attriti, così il grano non ha potuto maturare. Questo è il risultato della tua presunzione.”

Brano senza Autore, tratto dal Web