Storia di un pezzo di pane

Storia di un pezzo di pane

Quando l’anziano dottore morì, arrivarono i suoi tre figli per sistemare l’eredità:
i pesanti vecchi mobili, i preziosi quadri e i molti libri.
In una finissima vetrinetta il padre aveva conservato i pezzi delle sua memoria:
bicchieri delicati, antiche porcellane, pensieri di viaggio e tante altre cose ancora.
Nel ripiano più basso, in fondo all’angolo, venne trovato un oggetto strano:
sembrava una zolletta dura e grigia.

Come venne portata alla luce, si bloccarono tutti:

era un antichissimo pezzo di pane rinsecchito dal tempo.
Come era finito in mezzo a tutte quelle cose preziose?
La donna che si occupava della casa raccontò:
Negli anni della fame, alla fine della grande guerra, il dottore si era ammalato gravemente e per lo sfinimento le energie lo stavano lasciando.
Un suo collega medico aveva borbottato che sarebbe stato necessario procurare del cibo.

Ma dove poterlo trovare in quel tempo?

Un amico del dottore portò un pezzo di pane sostanzioso cucinato in casa, che lui aveva ricevuto in dono.
Nel tenerlo tra le mani, al dottore ammalato vennero le lacrime agli occhi.
E quando l’amico se ne fu andato, non volle mangiarlo, bensì donarlo alla famiglia della casa vicina, la cui figlia era ammalata.
“La giovane vita ha più bisogno di guarire, di questo vecchio uomo.” pensò il dottore.

La mamma della ragazza ammalata portò il pezzo di pane donatole dal dottore alla donna profuga di guerra che alloggiava in soffitta e che era totalmente una straniera nel paese.

Questa donna straniera portò il pezzo di pane a sua figlia, che viveva nascosta con due bambini in uno scantinato per la paura di essere arrestata.
La figlia si ricordò del dottore che aveva curato gratis i suoi due figli e che adesso giaceva ammalato e sfinito.
Il dottore ricevette il pezzo di pane e subito lo riconobbe e si commosse moltissimo.
“Se questo pane c’è ancora, se gli uomini hanno saputo condividere tra di loro l’ultimo pezzo di pane, non mi devo preoccupare per la sorte di tutti noi.” disse il dottore “Questo pezzo di pane ha saziato molta gente, senza che venisse mangiato.

È un pane santo!”

Chi lo sa quante volte l’anziano dottore avrà più tardi guardato quel pezzo di pane, contemplandolo e ricevendo da esso forza e speranza specialmente nei giorni più duri e difficili!.
I figli del dottore sentirono che in quel vecchio pezzo di pane il loro papà era come più vicino, più presente, che in tutti i costosi mobili e i tesori ammucchiati in quella casa.
Tennero quel pezzo di pane, quella vera preziosa eredità tra le mani come il mistero più pieno della forza della vita.
Lo condivisero come memoria del loro padre e dono di colui che una volta, per primo, lo aveva spezzato per amore.

Brano di Don Angelo Saporiti

L’importanza di essere gentili. (La storia di Arturo)


L’importanza di essere gentili. (La storia di Arturo)

Un giorno, quando ancora ero un ragazzino delle superiori, vidi un ragazzo della mia classe che stava tornando a casa da scuola.
Il suo nome era Arturo e sembrava stesse trasportando tutti i suoi libri a casa.
Pensai tra me e me:
“Perché mai uno dovrebbe portarsi a casa tutti i libri di venerdì?
Deve essere un ragazzo strano.”
Io avevo il mio week-end pianificato (feste e una partita di pallone con i miei amici), così scrollai le spalle e mi incamminai.
Camminando vidi un gruppo di ragazzini che correvano incontro ad Arturo.

Si scagliarono contro di lui facendo cadere tutti i suoi libri e lo spinsero facendolo cadere nel fango.

I suoi occhiali volarono via, e li vidi cadere nell’erba un paio di metri più in là.
Lui guardò in su e vidi una terribile tristezza nei suoi occhi.
Mi rapì il cuore!
Così mi avvicinai a lui mentre stava cercando i suoi occhiali e vidi una lacrima nei suoi occhi.
Raccolsi i suoi occhiali e glieli diedi, dicendogli:
“Quei ragazzi sono proprio dei selvaggi, dovrebbero imparare a vivere.”
Arturo mi guardò e disse: “Grazie!”

C’era un grosso sorriso sul suo viso, era uno di quei sorrisi che mostrano vera gratitudine.

Lo aiutai a raccogliere i libri e gli chiesi dove vivesse.
Scoprii che abitava vicino casa mia così gli chiesi come mai non lo avessi mai visto prima.
Parlammo per tutta la strada e io lo aiutai a portare alcuni libri.
Mi sembrò un ragazzo molto carino ed educato così gli chiesi se gli andasse di giocare a calcio con i miei amici e lui disse di sì.
Trascorremmo in giro tutto il week-end e più lo conoscevo più Arturo mi piaceva, così come piaceva ai miei amici.
Arrivò il lunedì mattina ed ecco Arturo con tutta la pila dei libri ancora.

Lo fermai e gli dissi:

“Ragazzo finirà che ti costruirai dei muscoli incredibili con questa pila di libri ogni giorno!”
Egli rise e mi diede metà dei libri.
Nei successivi quattro anni io e Arturo diventammo amici per la pelle.
Una volta adolescenti cominciammo a pensare all’università, Arturo decise per Roma ed io per un’altra città.
Sapevo che saremmo sempre stati amici e che la distanza non sarebbe stata un problema per noi.
Arturo sarebbe diventato un medico mentre io mi sarei occupato di cause e litigi.
Arturo era il primo della nostra classe e io lo prendevo spesso in giro dicendogli di essere un secchione.

Arturo doveva preparare un discorso per il diploma.

Io fui molto felice di non essere al suo posto sul podio a parlare.
Il giorno dei diplomi vidi Arturo, ed aveva un ottimo aspetto.
Lui era uno di quei ragazzi che aveva veramente trovato se stesso durante le scuole superiori.
Si era un po’ riempito nell’aspetto e stava molto bene con gli occhiali.
Aveva qualcosa in più e tutte le ragazze lo amavano.
Oggi era uno di quei giorni, potevo vedere che era un po’ nervoso per il discorso che doveva fare, così gli diedi una pacca sulla spalla e gli dissi:

“Giovane te la caverai alla grande!”

Mi guardò con uno di quegli sguardi (quelli pieni di gratitudine) sorrise e mi disse: “Grazie!”
Iniziò il suo discorso schiarendosi la voce:
“Nel giorno del diploma si usa ringraziare coloro che ci hanno aiutato a farcela in questi anni duri.
I genitori, gli insegnanti, ma più di tutti i tuoi amici.
Sono qui per dire a tutti voi che essere amico di qualcuno è il più bel regalo che voi potete fare.
Voglio raccontarvi una storia proseguì!
Guardai il mio amico Arturo incredulo non appena cominciò a raccontare il giorno del nostro incontro.

Lui aveva pianificato di suicidarsi durante il week-end.

Egli raccontò di come aveva pulito il suo armadietto a scuola, così che la madre non avesse dovuto farlo dopo, e di come si stesse portando a casa tutte le sue cose.
Arturo mi guardò intensamente e fece un piccolo sorriso.
“Ringraziando il cielo fui salvato, il mio amico mi salvò dal fare quel terribile gesto!”
Udii un brusio tra la gente a queste rivelazioni.
Il ragazzo più popolare ci aveva appena raccontato il suo momento più debole.
Vidi sua madre e suo padre che mi guardavano e mi sorridevano, lo stesso sorriso pieno di gratitudine.

Non avevo mai realizzato la profondità di quel sorriso fino a quel momento.

Non sottovalutate mai il potere delle vostre azioni.
Con un piccolo gesto potete cambiare la vita di una persona, in meglio o in peggio.
Dio fa incrociare le nostre vite perché ne possiamo beneficiare in qualche modo.
Cercate il buono negli altri.
“Gli amici sono angeli che ci sollevano i piedi quando le nostre ali hanno problemi nel ricordare come si vola.”

Brano senza Autore, tratto dal Web

La storia di una perla


La storia di una perla

C’era una volta una conchiglia.
Se ne stava in fondo al mare cullata dalle onde, sfiorata dal passaggio sinuoso di pesci colorati e cavallucci marini.
Fino a quando una tempesta giunse fino a lei sconvolgendole la vita.
La violenza delle onde la capovolse più e più volte facendola girare, rotolare, urtare, trasportandola lontano fino a che, ammaccata e dolorante si fermò.
Stava cercando di capire dov’era finita quando, improvvisa, una fitta lancinante la trapassò!
Che cosa stava succedendo ancora?

Ecco!

Attraverso le valve, nello stravolgimento di prima, era riuscito a intrufolarsi un sassolino che, pur piccolo, aveva contorni spigolosi e appuntiti.
Sulla carne viva faceva proprio male!
La conchiglia provò a muoversi e ad espellerlo, ma senza risultato.
Tentò e ritentò anche nei giorni seguenti.
Il dolore non passava!
Pianse, e pian piano le sue lacrime ricoprirono il sassolino.

Strano, il dolore iniziava ad attenuarsi.

Cercò ancora di eliminarlo ma ormai faceva parte di lei.
Tra le maglie della rete, assieme ai pesci, in pescatore vide una conchiglia.
La aprì e, meraviglia, si trovò tra le mani ruvide e callose una perla bellissima, brillante.
La girò e rigirò: perfetta!
I pescatori sanno che ogni perla ha una storia da raccontare e l’accostò all’orecchio.

Ascoltando, ripensò alla sua vita.

Quante tempeste aveva attraversato, quante solitudini, quanto dolore e rabbia e ribellione!
Quante lacrime si erano mescolate alle gocce del mare !
Ma proprio quelle lacrime erano riuscite a compiere il miracolo anche dentro di lui.
Una perla frutto del dolore, della rinuncia, della pazienza, di quel “sassolino” che ti entra dentro e non riesci più a buttare fuori; una perla capace di donare luce a chi si avvicina!
Il pescatore guardò quel miracolo racchiuso nella mano, fissò la sua luce, alzò il viso al cielo terso, e sorrise.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Gli amici e l’orso


Gli amici e l’orso

Due amici facevano la stessa strada che attraversava una pericolosa e tenebrosa foresta.
Improvvisamente un orso enorme e ringhiante si parò davanti ai due uomini.
Uno, in preda alla paura si arrampicò su un albero e si nascose, l’altro non fece in tempo e accorgendosi di non essere in grado si sfuggire alla bestia feroce si lasciò cadere a terra, fingendo di essere morto.

Sapeva infatti che gli orsi non toccano i morti.

Quando gli arrivò vicino, l’orso lo annusò, gli grugnì negli orecchi, provò a smuoverlo con il muso.
Il poveretto tratteneva il respiro con tutte le sue forze.
L’orso lo credette effettivamente morto e se ne andò.
Appena vide sparire tra gli alberi l’orso, l’altro uomo scese dall’albero su cui si era arrampicato e chiese all’amico:
“Che cosa ti ha detto l’orso all’orecchio?”
“Mi ha detto di non viaggiare più insieme a certi amici, che nel momento del pericolo invece di aiutarmi se la danno a gambe levate.”

L’amore fa ancora molta paura.

Esso chiede il lasciarsi andare, l’abbandono di sé, l’abbandono a sé, la fiducia che abbaglia e non acceca, la donazione assoluta.
Bisognerà render conto della paura e dell’avarizia che impedirono di amare, dell’accecamento e dell’orgoglio che soffocarono gli slanci.
Bisognerà render conto di tutti i gesti non compiuti, delle lacrime ingoiate, dell’amore non dato, delle promesse e del tempo perduto.
Bisognerà pagare per tutte le parole non dette, per tutte le carezze perdute, per tutti i sogni abbandonati.

Brano tratto dal libro “Il canto del grillo.” di Bruno Ferrero

Il costo dell’Amore


Il costo dell’Amore

Una sera, mentre la mamma preparava la cena, il figlio undicenne si presentò in cucina con un foglietto in mano.
Con aria stranamente ufficiale il bambino porse il pezzo di carta alla mamma, che si asciugò le mani con il grembiule e lesse quanto vi era scritto:

Per aver strappato le erbacce dal vialetto: 1 EURO.

Per aver ordinato la mia cameretta: 1,50 EURO.
Per essere andato a comprare il latte: 0,50 EURO.
Per aver badato alla sorellina (tre pomeriggi): 3 EURO.
Per aver preso due volte “ottimo” a scuola: 2 EURO.
Per aver portato fuori l’immondizia tutte le sere: 1 EURO.

Totale: 9 EURO.

La mamma fissò il figlio negli occhi, teneramente.
La sua mente si affollò di ricordi.
Prese una biro e, sul retro del foglietto, scrisse:

Per averti portato in grembo per 9 mesi: 0 EURO.
Per tutte le notti passate a vegliarti quando eri ammalato: 0 EURO.
Per tutte le volte che ti ho cullato quando eri triste: 0 EURO.
Per tutte le volte che ho asciugato le tue lacrime: 0 EURO.
Per tutto quello che ti ho insegnato, giorno dopo giorno: 0 EURO.
Per tutte le colazioni, i pranzi, le merende, le cene e i panini che ti ho preparato: 0 EURO.

Per la vita che ti do ogni giorno: 0 EURO.

Quando ebbe terminato, sorridendo la mamma diede il foglietto al figlio.
Quando il bambino ebbe finito di leggere ciò che la mamma aveva scritto, due LACRIMONI fecero capolino nei suoi occhi.
Girò il foglio e sul suo conto scrisse: “PAGATO.”
Poi saltò al collo della madre e la sommerse di baci.
Quando nei rapporti personali e familiari si cominciano a fare i conti, è tutto finito.
L’amore, o è gratuito o non è amore.

Brano tratto dal libro “A volte basta un raggio di sole.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Sofia e la fata


Sofia e la fata

Era una bellissima mattina d’inizio autunno.
La piccola Sofia decise di andare a fare una passeggiata nel bosco per cercare le castagne.
La sua mamma le preparò uno spuntino nel caso le venisse fame e le raccomandò di prestare attenzione.
S’inoltrò nel bosco alla ricerca delle castagne.
Ce n’erano proprio tante!
Avrebbe riempito il suo cestino molto presto!
Ad un certo punto, vide una distesa colorata di giallo oro:

non erano le foglie cadute dagli alberi, ma erano cespugli d’erica.

Si ricordò allora di, quando la nonna le raccontava che per incontrare una fata bastava sdraiarsi vicino uno di questi cespugli.
Decise che poteva essere il momento buono per riposarsi un po’ e fare lo spuntino vicino quella distesa dorata:
forse sarebbe anche riuscita ad incontrare una fata, come aveva sempre desiderato!
Iniziò a mangiare, ma della fata nessuna traccia.
Finita la merenda, si alzò un po’ delusa per fa ritorno a casa.
Prima di andar via, prese con se un ramo dorato per regalarlo alla sua mamma.
Staccato il rametto più fiorito, all’improvviso vide che tutto intorno a lei diventava grandissimo, anche il rametto che, infatti, le cadde dalle mani sempre più piccole.

Cosa era mai successo?

La piccola Sofia era diventata uno gnomo!
Le sue orecchie erano a punta, come il cappellino che aveva sulla sua testa.
E adesso?
Come poteva tornare a casa così?
Si mise a piangere disperatamente: pensava alla sua mamma e a quanto avrebbe sofferto nel non vedendola rientrare a casa.
Mentre si disperava, si alzo un venticello che sollevò da terra una nuvola di foglie.
Come il vento si placò, apparve agli occhi di Sofia una fata tutta vestita d’oro, che le disse:
“Ecco qui un altro gnomo da condurre nel mio castello.”
“Ti prego, non portami per favore!” disse Sofia in lacrime “Non so cosa sia successo e perché sono diventata uno gnomo.

Io volevo solo conoscere una fata!

Fammi tornare com’ero, per favore!
Voglio tornare dalla mia mamma!”
La fata raccolse il piccolo gnomo in lacrime e le spiegò perché si era trasformata:
l’erica era la pianta delle fate, e quindi era proibito staccarne un ramo e chiunque l’avesse fatto avrebbe mancato di rispetto alle fate ed era trasformato in uno gnomo.
“Io non lo sapevo!” disse Sofia piagnucolando.
La fata la guardò, sorrise e soffiò dolcemente sullo gnomo:
“Le tue lacrime sono sincere e pure, spezzerò l’incantesimo, ma prometti che d’ora in poi rispetterai non solo l’erica ma tutte le piante del bosco.”
Sofia annuì e tornò bimba.
Prese il suo cestino di castagne e ne regalò per gratitudine un po’ alla fata, poi corse verso casa, ansiosa di riabbracciare la sua mamma.

Brano senza Autore

Il pane della fratellanza


Il pane della fratellanza

Si racconta di una anziana contadina, di nome Giulia, che viveva in una fattoria con i suoi tre figli, Roberto, Michele e Francesco.
Il marito le era morto durante la guerra.
I tre figli, di cuore buono, erano però sempre pronti a litigare.
Si volevano bene ma, bastava una parola in più ed erano litigi senza fine.
A quel punto interveniva Mamma Giulia e ben presto i figli ritrovavano pace.

La mamma divento vecchia, allora i figli si preoccuparono:

“Mamma, cerca di star sempre bene e di non morire, perché quando litighiamo chi rimetterà la pace fra noi?”
“Ma io dovrò pur morire prima o poi.” rispose la mamma
“Allora,” chiesero i figli “inventa qualcosa perché quando tu non ci sarai più noi potremo rifare pace e volerci bene.”
Mamma Giulia pensò a lungo alla cosa e un giorno prese un foglio, vi scrisse come dovevano essere divisi i campi fra i tre figli e aggiunse alcune raccomandazioni perché andassero sempre d’accordo.
La mamma un giorno si ammalò gravemente e dal suo letto chiamò i figli, consegnò loro il suo testamento, poi prese un pane, ne fece tre parti, ne diede una a ciascuno e raccomandò:

“Mangiate e cercate di volervi bene.”

I figli, commossi, mangiarono il pane della mamma, bagnandolo con le loro lacrime.
Di lì a pochi giorni Giulia morì.
Roberto, Michele e Francesco si divisero serenamente i campi e ognuno si mise a lavorare il suo.
Ma un giorno Roberto e Michele scoprirono che il confine fra i loro campi non era chiaro.
Ben presto si misero a litigare.
Stavano per fare a botte, quando arrivò Francesco.
Egli si mise in mezzo a loro:

“Non ricordate la mamma?

Perché non facciamo come quel giorno che ci ha chiamati al suo capezzale?”
Presero un pane, ne fecero tre parti, ne presero una per ciascuno e si misero a mangiare.
Mentre mangiavano nella mente di Roberto e Michele si riaccese l’immagine della mamma; il suo volto e le sue parole scendevano nel loro cuore come una medicina.
Scoppiarono in un pianto dirotto e fecero pace.
La pace non durava molto, perché occasioni di litigio ne incontravano spesso.
Però avevano imparato la soluzione: ogni volta che si creava un’occasione per litigare, i tre fratelli si sedevano attorno ad un tavolo, prendevano un pane, lo mangiavano insieme; ben presto scompariva la rabbia e tornava la pace.

Brano senza Autore.

Il bambino che scriveva sulla sabbia


Il bambino che scriveva sulla sabbia

Un bambino tutti i giorni si recava in spiaggia e scriveva sulla sabbia:
Mamma ti amo!”; poi guardava il mare cancellare la scritta e correva via sorridendo.
Un vecchio triste, passeggiava tutti i giorni su quel litorale e lo vedeva giorno dopo giorno scrivere la stessa frase, e guardare felice il mare portargliela via.

Fra sé e sé pensava:

“Questi bambini, sono così stupidi ed effimeri.”
Un giorno si decise ad avvicinare il bambino, non avrà avuto più di dieci anni, e gli chiese:
“Ma che senso ha che tu scriva “Mamma ti amo!” sulla sabbia che poi il mare te la porta via. Diglielo tu che le vuoi bene.”
Il bambino si alzò, e guardando l’ennesima scritta cancellata dall’acqua salata disse al vecchio:
“Io non ce l’ho la mamma!

Me l’ha portata via Dio, come fa il mare con le mie scritte.

Eppure torno qui ogni giorni a ricordare alla mamma e a Dio che non si può cancellare l’amore di un figlio per la propria madre.”
Il vecchio si inginocchiò, e con le lacrime agli occhi scrisse:
“Nora. Ti amo!” era il nome della moglie appena morta.
Poi prese il bimbo per mano e assieme guardarono la scritta sparire.

Brano tratto dal libro “La persistenza della memoria.” di Alessandro Bon

Il fratellino


Il fratellino

Una giovane madre era in attesa del secondo figlio.
Quando seppe che era una bambina, insegnò al suo bambino primogenito, che si chiamava Michele, ad appoggiare la testolina sulla sua pancia tonda, e cantare insieme a lei una “ninna nanna” alla sorellina che doveva nascere.
La canzoncina, che faceva “Stella stellina, la notte si avvicina…”, piaceva tantissimo al bambino, che la cantava più volte.
Il parto però fu prematuro e complicato.
La neonata fu messa in una incubatrice per cure intensive.

I genitori trepidanti furono preparati al peggio:

la loro bambina aveva pochissime probabilità di sopravvivere.
Il piccolo Michele li supplicava:
“Voglio vederla! Devo assolutamente vederla!”
Dopo una settimana, la neonata si aggravò ancor di più.
La mamma allora decise di portare Michele nel reparto di terapia intensiva della maternità.
Un’infermiera cercò di impedirlo, ma la donna era decisa ed accompagnò il bambino vicino al lettino ingombro di fili e tubicini, dove la piccola lottava per la vita.
Vicino al lettino della sorellina, Michele istintivamente avvicinò il suo volto a quello della neonata e cominciò a cantare sottovoce:

“Stella stellina, la notte si avvicina…”

La neonata reagì immediatamente.
Cominciò a respirare serenamente, senz’affanno.
Con le lacrime agli occhi, la mamma disse:
“Continua, Michele, continua!”
Il bambino continuò.
La bambina cominciò a muovere le braccine.
La mamma e il papà piangevano e ridevano nello stesso tempo, mentre l’infermiera incredula fissava la scena a bocca aperta.
Qualche giorno dopo, la piccola entrò in casa in braccio alla mamma, mentre Michele manifestava rumorosamente la sua gioia!
I medici della clinica, imbarazzati, definirono l’avvenimento con parole difficili.
Ma la mamma e il papà sapevano che era stato semplicemente un miracolo dell’amore di un fratellino per una sorellina tanto attesa.

Brano tratto dal libro “I fiori semplicemente fioriscono.” di Bruno Ferrero

Il miracolo


Il miracolo

Questa è la storia vera di una bambina di otto anni che sapeva che l’amore può fare meraviglie.
Il suo fratellino era destinato a morire per un tumore al cervello.
I suoi genitori erano poveri, ma avevano fatto di tutto per salvarlo, spendendo tutti i loro risparmi.
Una sera, il papà disse alla mamma in lacrime:
“Non ce la facciamo più, cara.
Credo sia finita.
Solo un miracolo potrebbe salvarlo.”
La piccola, con il fiato sospeso, in un angolo della stanza aveva sentito.
Corse nella sua stanza, ruppe il salvadanaio e, senza far rumore, si diresse alla farmacia più vicina.

Attese pazientemente il suo turno.

Si avvicinò al bancone, si alzò sulla punta dei piedi e, davanti al farmacista meravigliato, posò sul banco tutte le monete.
“Per cos’è?
Che cosa vuoi piccola?” chiese il farmacista.
“È per il mio fratellino, signor farmacista.
È molto malato e io sono venuta a comprare un miracolo.” rispose la bambina.
“Che cosa dici?” borbottò il farmacista.
“Si chiama Andrea, e ha una cosa che gli cresce dentro la testa, e papà ha detto alla mamma che è finita, non c’è più niente da fare e che ci vorrebbe un miracolo per salvarlo.
Vede, io voglio tanto bene al mio fratellino, per questo ho preso tutti i miei soldi e sono venuta a comperare un miracolo.” spiegò la bambina.
Il farmacista accennò un sorriso triste ed esclamò:

“Piccola mia, noi qui non vendiamo miracoli!”

“Ma se non bastano questi soldi posso darmi da fare per trovarne ancora.
Quanto costa un miracolo?” chiese nuovamente la bambina.
C’era nella farmacia un uomo alto ed elegante, dall’aria molto seria, che sembrava interessato alla strana conversazione.
Il farmacista allargò le braccia mortificato.
La bambina, con le lacrime agli occhi, cominciò a recuperare le sue monetine.
L’uomo si avvicinò a lei e le chiese:
“Perché piangi, piccola?
Che cosa ti succede?”
“Il signor farmacista non vuole vendermi un miracolo e neanche dirmi quanto costa…

È per il mio fratellino Andrea che è molto malato.

Mamma dice che ci vorrebbe un’operazione, ma papà dice che costa troppo e non possiamo pagare e che ci vorrebbe un miracolo per salvarlo.
Per questo ho portato tutto quello che ho!” rispose la bambina.
“Quanto hai?” chiese il dottore.
“Un dollaro e undici centesimi… ma, sapete…” aggiunse con un filo di voce: “Posso trovare ancora qualcosa…”
L’uomo sorrise: “Guarda, non credo sia necessario.
Un dollaro e undici centesimi è esattamente il prezzo di un miracolo per il tuo fratellino!”
Con una mano raccolse la piccola somma e con l’altra prese dolcemente la manina della bambina.
“Portami a casa tua, piccola.
Voglio vedere il tuo fratellino e anche il tuo papà e la tua mamma e vedere con loro se possiamo trovare il piccolo miracolo di cui avete bisogno!”

Il signore alto ed elegante e la bambina uscirono tenendosi per mano.

Quell’uomo era il professor Carlton Armstrong, uno dei più grandi neurochirurghi del mondo.
Operò il piccolo Andrea, che poté tornare a casa qualche settimana dopo completamente guarito.
“Questa operazione,” mormorò la mamma “è un vero miracolo.
Mi chiedo quanto sia costata…”
La sorellina sorrise senza dire niente.
Lei sapeva quanto era costato il miracolo: un dollaro e undici centesimi…
più, naturalmente l’amore e la fede di una bambina.

Brano tratto dal libro “C’è ancora qualcuno che danza.” di Bruno Ferrero