Padre e figlio al ristorante

Padre e figlio al ristorante

Un figlio portò il padre a cena in un ristorante.
Il padre era anziano e quindi debole e non completamente autosufficiente.
Mentre mangiava, un po’ di cibo gli cadeva sulla camicia e sui pantaloni.

Gli altri clienti osservavano il vecchio con stupore,

ma suo figlio rimase tranquillo continuando la cena ed una volta che entrambi finirono di mangiare, il figlio, senza mostrare nessun imbarazzo e con assoluta tranquillità prese il padre e lo portò in bagno per pulirgli il viso cercando anche di togliere le macchie di cibo dai suoi vestiti; amorevolmente gli pettinò i capelli grigi e, infine, gli rimise gli occhiali.
All’uscita del bagno, un profondo silenzio regnava nel ristorante.
Il figlio si avvicinò alla cassa per pagare il conto ma prima di uscire, un uomo anziano, si alzò dal tavolo e chiese al figlio:
“Non ti sembra che hai lasciato qualcosa qui?”

Il giovane rispose:

“No, non ho lasciato nulla!”
Allora l’anziano disse:
“Sì hai lasciato qualcosa!
Hai lasciato qui una lezione per ogni figlio, e una speranza per ogni genitore!”
L’intero ristorante era così silenzioso, che si poteva ascoltare cadere uno spillo.

Degli studenti universitari ebbero come compito per il fine settimana un lungo e caloroso abbraccio al loro papà.
“Non posso farlo,” protestò uno, “mio padre morirebbe!”
“E poi,” disse un altro, “mio padre sa che lo amo!”
“Allora è facile!” replicò il professore, “Perché non lo fai?”

Il lunedì seguente tutti parlavano, sorpresi,

di come fosse stata soddisfacente l’esperienza.
“Mio padre si è messo a piangere!” diceva uno.
E un altro:
“Strano.
Mio padre mi ha ringraziato!”

Brano tratto dal libro “C’è qualcuno lassù.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Scherzo per Carnevale

Scherzo per Carnevale

“A carnevale ogni scherzo vale.” recita il detto.
Io ho capito il significato di questa frase da bambino, quando a casa nostra venne una coppia di sposi in maschera.
Erano un uomo e una donna, ma si erano mascherati invertendo i propri ruoli.

A questo si aggiungeva una singolarità.

Direte voi, che cosa?
Tenevano in braccio una specie di bambola che cullavano e per noi bambini, ovviamente, era la principale curiosità.
Fatti accomodare in casa, mia madre gli chiese se desiderassero qualcosa.
Risposero di no con un cenno e diedero il bambolotto in braccio a mio padre, che era seduto, facendogli segno di cullarlo e di dargli il ciuccio.
Solamente per aver visto questi due signori truccati in questo modo, questa scena iniziale fece divertire noi bambini, ma il momento più bello si ebbe quando la donna mascherata si alzò e fece il gesto di sistemare il vestitino al pupazzo, facendo fare, nello stesso tempo, un salto dalla sedia a mio padre,

che si trovò con i pantaloni bagnati.

Il pupazzo non era altro che un grande fiasco capovolto, addobbato e truccato per sembrare un infante e spostando la maschera (cioè togliendo il tappo), fece fuoriuscire l’acqua di cui era pieno il fiasco, simulando, così, un bisogno fisiologico di mio padre.
Passato il primo attimo di imbarazzo per i pantaloni bagnati e vedendo noi bambini divertiti, mio padre sorrise e ci diede una grande lezione carnevalesca, servendo lui stesso da bere alla coppia.

Lo sentii dire sottovoce:

“Compare, anche quest’anno me la hai fatta!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Nessun fiore nasce inutile

Nessun fiore nasce inutile

Fare il venditore a porta a porta richiede una certa abilità poiché molti rifiutano qualsiasi approccio con questa determinata categoria.
Il protagonista di questa storia, un giorno, decise di raggiungere una famiglia in aperta campagna per proporre la sua gamma di robot da cucina.

Questa abitazione era stata segnalata come impossibile da trattare per la sua ostilità.

Pensò bene di usare tutte le strategie apprese e si presentò nel cortile della loro modesta abitazione.
Notò a ridosso della casa dei bellissimi gerani coltivati in vaso e pensò di usare questi come approccio.
Ne lodò con molta enfasi la beltà e rarità dicendo che, se li avesse visti, sua moglie sarebbe rimasta stupefatta.
La donna entusiasta dei complimenti, si offrì di donargli delle talee per la moglie, le recise con cura incartandole in un foglio di giornale inumidito.

Vendere il robot una volta “addomesticata” la cliente fu facile.

Il venditore, percorso un chilometro di strada, gettò fuori dal finestrino della machina il cartoccio delle talee, ormai inutili, in un fosso dove scorreva l’acqua corrente, anche perché era celibe.
Fece lo stesso tragitto, alcuni giorni dopo, per completare la zona e notò il suo cartoccio molto più avanti rispetto al posto in cui lo aveva gettato.
Qualche giorno prima che lui ripassasse con l’auto, in quel luogo c’era stato un tragico incidente mortale che aveva lasciato evidenti segni del disastro.

I fiori avevano preso vigore e sembravano messi lì apposta,

con stupore constatò che il suo cartoccio gettato si era trasformato in un bouquet, per segnalare ai passanti il luogo esatto della tragedia.
Da quel giorno imparò la lezione: nessun fiore nasce inutile.

Brano di Dino De Lucchi
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Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il barbone ed il gilet giallo

Il barbone ed il gilet giallo

Qualche anno fa, ogni giorno, nei pressi di un supermercato nel trevigiano, ricordo che si poteva incrociare un barbone.
Direte voi, che novità!
Contrariamente a quello che si può pensare, questo mendicante era molto discreto.
Non chiedeva esplicitamente la carità ma riceveva qualche bene di prima necessità da alcuni clienti impietositi.
In cambio lui offriva un mini-ritratto che disegnava velocemente su un piccolo foglio.

Non scambiava parola con nessuno tanto da farsi credere muto.

Un giorno, una ragazza, dopo avergli offerto un panino farcito con una bibita, tentò un approccio verbale con lui.
La ragazza, grazie al suo carisma, riuscì a rompere il ghiaccio con il mendicante, a parlarci e addirittura a farsi raccontare la sua vita.
Barbone lo era diventato dopo aver fallito nella vita.
Aveva preso sottogamba studio, lavoro e affetti per problemi di alcol e si sentiva insignificante e privo di valore.

La ragazza, che si chiamava Sara, gli disse:

“Ascoltami.
Pur non possedendo nessun bene materiale vali molto e mi piacerebbe essere la tua erede universale dato che hai un nome ed una vita.
Ti faccio un esempio un po’ brutale:
se attraversando le strisce pedonali, malauguratamente, ti dovessero investire con un’auto e, sfortunatamente, in seguito all’incedente dovessi morire, l’assicurazione sarebbe obbligata a dare un valore alla tua persona.
In questo caso, qualora fossi la tua erede, l’assicurazione dovrebbe versare a me questo indennizzo.

Essendo una avvocatessa, chiederei fino all’ultimo centesimo.

Inoltre, visto che sei un artista ed i tuoi ritratti sono delle opere d’arte, da ora in poi ti consiglio caldamente di firmare le tue opere.”
Per il barbone, quella appresa da Sara, fu una grande lezione.
Da quel momento in poi diede valore alla sua vita; cominciò a portare un gilet giallo per paura di incidenti.
E firmava i suoi ritratti, sempre più richiesti, proprio con questo strano appellativo (Gilet Giallo).
Io ne possiedo gelosamente uno.

Brano di Dino De Lucchi
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Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il novizio ed il puledro di razza

Il novizio ed il puledro di razza

Un saggio abate volle un giorno mettere alla prova il più promettente tra i suoi novizi.
Chiamò a sé il giovane.

“Ascolta Pietro, voglio farti un dono.” disse,

“Ti regalerò un cavallo di razza che tu potrai cavalcare e usare a tuo piacimento, se sarai capace di recitarmi dal principio alla fine il Padre Nostro senza mai neppure per un istante distogliere il tuo pensiero dalla preghiera.”
“Oh,” rise Pietro meravigliato, “è puerile padre, quel che mi chiedete.
E davvero io in premio potrei avere un cavallo?”
Impaziente com’era di vedersi in groppa a un bel puledro di razza, il giovane cominciò la sua orazione:

“Padre Nostro che sei nei cieli…”

Ma il suo pensiero era lontano dalle parole di fede:
inseguendo il bel sogno, Pietro mormorava meccanicamente:
“Venga il Tuo regno… come in cielo così in terra…” e ad un certo punto si trovò senza accorgersene a chiedere:

“Ma il cavallo, avrà poi una sella perché io lo possa montare?”

L’abate rise divertito e consolò il giovane.
In fondo era stato un’ottima lezione.

Leggenda della Navarra.
Brano senza Autore.

La giusta stima (L’orologio da taschino)

La giusta stima
(L’orologio da taschino)

Un simpatico nonnetto possedeva un orologio da taschino e lo mostrò al nipote dicendogli:
“Questo un giorno sarà definitivamente tuo, ma questo accadrà solo quando scoprirai il suo vero valore, nel frattempo puoi farlo stimare!”

Il nipote andò da diversi antiquari e rigattieri per avere una stima,

ma tutti gli dissero che era semplicemente un vecchio orologio scolorito e che valeva pochissimo perfino per il banco dei pegni.
Quando riferì al nonno dei suoi vari insuccessi, questi gli consigliò di insistere.
Allora si recò in un museo che gli offrì una cifra elevata, vicina al milione di euro, perché era un pezzo unico.
Tutto contento corse dal nonno che gli disse:

“L’orologio è tuo perché hai imparato la lezione.

Se per il tuo lavoro dovessi essere pagato poco perché non apprezzano il tuo valore, non arrenderti ma continua a cercare un lavoro migliore, fino al momento in cui non riuscirai a trovare chi ti stima e ti valorizza per quello che sei.”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

L’orologio del contadino

L’orologio del contadino

Un’insegnante della scuola primaria era molto preoccupata perché i suoi alunni, nonostante i continui richiami, arrivavano a lezione o troppo presto o in ritardo.
L’unico ad essere puntuale era il figlio di un contadino.
Pensò a cosa potesse fare per risolvere il problema e

decise di affidare ai suoi alunni un compito per casa.

Il compito consisteva nel disegnare l’orologio di un genitore con indicata l’ora di inizio delle lezioni.
Tutti disegnarono l’orologio come da consegna,

tranne il figlio del contadino che disegnò un gallo, un sole, un campanile ed un treno.

La maestra chiese delucidazioni e l’alunno spiegò:
“Mio padre si alza con il canto del gallo, si regola con il sole, con i tocchi del campanile e con il passaggio del treno, che lo fa arrabbiare perché, molte volte, fa cinque minuti di ritardo!”

Brano di Dino De Lucchi
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Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il più grande spadaccino

Il più grande spadaccino

Matajuro Yagyu era il figlio di un famoso spadaccino.
Suo padre, convinto che l’attitudine del figlio fosse troppo scarsa per fargli raggiungere la maestria, lo disconobbe.
Così Matajuro andò sul Monte Futara e la trovò il famoso spadaccino Banzo.
Ma Banzo confermò il giudizio del padre.
“Tu vuoi imparare a maneggiare la spada sotto la mia guida?” domandò Banzo, “Ti mancano i requisiti indispensabili!”
“Ma se lavoro sodo, quanti anni mi ci vorranno per diventare un maestro?” insistette il giovane.

“Il resto della tua vita!” rispose Banzo.

“Non posso aspettare tanto!” disse Matajuro, “Se accetti di darmi lezione, sono pronto a sottopormi a qualunque fatica.
Se divento il tuo devotissimo servo, quanto tempo ci vorrà?”
“Oh, dieci anni, forse!” disse Banzo addolcendosi.
“Mio padre si sta facendo vecchio e presto dovrò prendermi cura di lui!” continuò Matajuro, “Se lavoro ancora più assiduamente, quanto tempo mi ci vorrà?”
“Oh, forse trent’anni!” rispose Banzo.
“Ma come!” disse Matajuro, “Prima hai detto dieci anni, e ora trenta!

Accetterò qualunque privazione pur di imparare quest’arte nel tempo più breve!”

“Bè,” disse Banzo, “allora dovrai restare con me settant’anni.
Un uomo che ha tanta fretta di ottenere dei risultati raramente impara alla svelta!”
“E va bene!” dichiarò il giovane, comprendendo infine che gli si stava rimproverando la sua impazienza, “Accetto!”
Matajuro ebbe l’ordine di non parlare mai di scherma e di non toccare mai una spada.
Cucinava per il suo maestro, lavava i piatti, gli rifaceva il letto, puliva il cortile, curava il giardino, tutto senza che si parlasse mai di scherma.
Passarono tre anni.
Matajuro continuava a lavorare.

Pensando al proprio avvenire era triste.

Non aveva ancora cominciato a imparare l’arte alla quale aveva votato la propria vita.
Ma un giorno Banzo scivolò alle sue spalle e gli diede un colpo terribile con una spada di legno.
L’indomani, mentre Matajuro stava cucinando del riso, Banzo tutt’a un tratto gli saltò di nuovo addosso.
Da allora, giorno e notte, Matajuro dovette difendersi dagli assalti inaspettati.
Non c’era giorno, non c’era momento che non dovesse pensare al sapore della spada di Banzo.
Imparò così in fretta che la faccia del suo maestro era raggiante di sorrisi.
Matajuro divenne il più grande spadaccino del paese.

Storia Zen.
Brano tratto dal libro “101 storie zen.”

Il servo ed il padrone

Il servo ed il padrone

C’era una volta un servo che sopportava quotidianamente il carattere irascibile del suo padrone.
Un giorno, il signore tornò a casa di cattivo umore, si sedette per mangiare.

Trovò davanti a sé un piatto di minestra.

Ma la minestra era fredda!
Così si arrabbiò e gettò il piatto fuori dalla finestra.
Il servo, a sua volta, gettò fuori la carne, il pane, il vino e, infine, la tovaglia e l’argenteria.

Il signore, furioso, gridò:

“Che cosa stai facendo? Stupido!”
“Mi scusi, signore!” rispose seriamente il servo, “Pensavo che oggi volesse mangiare in cortile.

Tutto è così tranquillo e il cielo è sereno!”

Il signore si prese un istante per riflettere su quella risposta.
Riconobbe la sua colpa, si scusò e ringraziò il servo per la lezione che gli aveva appena dato.

Brano senza Autore, tratto dal Web