L’arancia di Natale (L’amicizia)

L’arancia di Natale (L’amicizia)

Un anziano e ricco signore inglese racconta:
“Avevo perso i miei genitori da ragazzo e all’età di nove anni ero stato mandato in un orfanotrofio vicino a Londra.
Sembrava una prigione.
Dovevamo lavorare 14 ore al giorno, in giardino, in cucina, nelle stalle, nei campi.
Così tutti i giorni.
C’era un solo giorno di festa:
il giorno di Natale.
L’unico giorno in cui ogni ragazzo riceveva un regalo:

un’arancia.

Niente dolci.
Niente giocattoli.
Per di più l’arancia veniva data solo a chi non aveva fatto nulla di male durante l’anno ed era sempre stato obbediente.
Questa arancia a Natale rappresentava il desiderio dell’anno intero.
Ricordo il mio primo Natale all’orfanotrofio.
Ero tristissimo.
Mentre gli altri ragazzi passavano accanto al direttore dell’orfanotrofio e tutti ricevevano la loro arancia, io dovevo stare in un angolo del dormitorio.
Questa era la mia punizione per aver voluto scappare dall’orfanotrofio, un giorno d’estate.
Finita la distribuzione dei regali, gli altri ragazzi andarono a giocare in cortile.

Io dovevo stare in dormitorio tutto il giorno.

Piangevo e mi vergognavo.
Mi ero messo una coperta fin sulla testa e stavo rannicchiato là sotto.
Dopo un po’ sentii dei passi nella stanza.
Una mano tirò via la coperta.
Guardai.
Un ragazzino di nome William stava in piedi davanti al mio letto, aveva un’arancia nella mano destra e me la tendeva sorridendo.
Non capivo.
Le arance erano contate, da dove poteva essere arrivata un’arancia in più?
Guardai William e il frutto e improvvisamente mi resi conto che l’arancia era già stata sbucciata e, guardando più da vicino, tutto mi divenne chiaro.
Sapevo che dovevo stringere bene quell’arancia perché non si aprisse.

Che cosa era successo?

Dieci ragazzi si erano riuniti in cortile e avevano deciso che anch’io dovevo avere la mia arancia per Natale.
Ognuno di essi aveva tolto uno spicchio dalla sua arancia e i dieci spicchi erano stati accuratamente messi insieme per creare una nuova, rotonda e delicata arancia.
Quell’arancia è stato il più bel regalo di Natale della mia vita.
Mi ha insegnato quanto può essere confortante la vera amicizia.

Brano senza Autore

Il tempo e le circostanze possono cambiare in qualsiasi momento.

Da un albero si possono produrre un milione di fiammiferi, ma basta un solo fiammifero per bruciare milioni di alberi.
Quando un uccello è vivo, mangia le formiche ma, quando l’uccello è morto, sono le formiche a mangiare l’uccello.
Non sottovalutare e non fare del male a nessuno nella tua vita.

Potresti essere potente oggi, ma ricordati:

il tempo è più potente di te!
Quindi sii buono.
Fai del bene.

Citazione Anonima.

La chiave d’oro

La chiave d’oro

Paolino aveva alcune cose che lo soddisfacevano, come 12 (dodici) anni, un discreto dribbling, i capelli rossi e 24 (ventiquattro) lentiggini sul naso.
Altre gli piacevano un po’ meno, come dover andare a scuola, la lingua inglese e Giorgio, il suo amico-nemico dichiarato, che gli aveva affibbiato il soprannome di “ketchup” (sempre per via dei capelli).
Per il resto Paolino era un ragazzo come tanti, spesso stanco, disubbidiente Q. B. (quanto basta), gentile e affettuoso nei momenti giusti.
Ma un pomeriggio, avvenne qualcosa che cambiò, in un certo senso, la sua vita.
Era la ventesima volta che Paolino rileggeva la pagina di storia.
Ma non c’era niente da fare: non capiva nulla.
Tutti quei Francheschi, Carli, Enrichi, re ora di qua, ora di là, facevano una gran confusione nella sua testa.

Era stufo e arcistufo.

Sbuffò con la forza di un ippopotamo e sparò un calcio da “telebeam” al cestino della carta.
Dalla cucina filtravano le risate delle sorelline (5 e 3 anni) che guardavano i cartoni animati alla televisione.
“Diventare grandi è una rottura!” pensò per un momento, ma solo per un momento.
Stava per mandare il libro di storia a far compagnia al cestino della carta, quando qualcosa attirò la sua attenzione.
Un leggero picchiettio alla finestra.
Corse a guardare.
Sul davanzale c’era un colombo bianco.
Paolino aprì la finestra.
“Avrà fame!” pensò.
Allungò la mano piano piano:
il colombo non volò via, anzi, andò incontro alla sua mano.
Portava qualcosa di luccicante nel becco.
Con un rapido movimento del capo lo posò nel palmo della mano del ragazzo e poi in un frullo d’ali volò via.

Paolino guardò il regalo del colombo:

era una piccola chiave d’oro.
Si sentiva stranamente tranquillo, come se i colombi che vanno in giro a distribuire chiavi d’oro, fossero una cosa assolutamente normale.
Nel cassetto della scrivania trovò un laccio di cuoio, lo fece passare nell’occhiello della chiave e se lo infilò al collo.
Il giorno, dopo a scuola, tutti ammiravano il suo ciondolo.
“È nuovo?” gli chiese perfino Giorgio.
“No. È lavato con Perlana!” rispose Paolino, tanto per non smentirsi.
Qualcuno gli chiese dove l’avesse preso.
Ma non osò raccontarlo.
Il fatto strano cominciò durante l’intervallo.
Riccardo e Walter lo attaccarono pesantemente sulla diletta Juventus.
La sua squadra del cuore era stata sconfitta la domenica precedente e Paolino l’aveva presa male.
Perfidamente, i due amici cominciarono a farsi beffe di lui, e questo lo poteva sopportate, ma poi attaccarono la squadra, e questa era un’onta da lavare con i pugni.
C’era un angolino nel cortile costantemente fuori portata degli sguardi indagatori degli insegnanti.
Era là che si regolavano le sfide a botte.

Paolino era grosso e svelto:

non aveva certo paura dei suoi compagni.
Li sfidò a raggiungerlo nel cortile.
Era là che aspettava con i pugni chiusi, quando vide sul muro una serratura, lieve ma ben definita.
Chi era quel matto che disegnava serrature sul muro?
La serratura, però, non era disegnata.
Era reale.
Paolino la guardò a bocca aperta, poi capì.
Si sfilò la chiave dal collo e provò nella serratura.
Entrava perfettamente.
La girò piano piano, con il cuore che batteva.
Nel muro si aprì come uno sportello.
Dentro c’era un cielo sereno in cui spiccava nitido e colorato un magnifico arcobaleno.
Sembrava così vicino che Paolino allungò la mano:
l’arcobaleno si avvolse come una sciarpa di seta attorno alla sua mano.
In quell’istante lo sportello nel muro sparì.
Riccardo e Walter arrivarono pronti a fare a botte, ma Paolino allargò le braccia in segno di resa.
Non riusciva proprio a stringere a pugno la mano che era stata fasciata dall’arcobaleno.
Sorpresi dall’improvviso gesto di pace, Riccardo e Walter divennero subito più amichevoli e si avvicinarono a Paolino, quasi sorridenti.
“Bè, dopotutto, la Juventus non è da buttar via!” disse Walter.
La seconda volta successe a casa.
Dopo pranzo.
“Per piacere, Paolino,” disse la mamma, “oggi resta in casa e tieni d’occhio le sorelline.
Devo uscire per delle commissioni e non posso portarle con me!”

“Ma mamma!

Ho promesso di andare all’oratorio con Giorgio:
è il mio pomeriggio libero!
Porta Elena ed Evelina dalla nonna!”
“La mamma ti ha chiesto un piacere, Paolo!” ribatté con aria severa il papà, “Oggi rimani a casa, chiaro?”
“Uffa! È sempre così!
E io esco lo stesso!”
Paolino sbatté la sedia contro il tavolo con malagrazia e si rifugiò nella sua cameretta.
“Esco lo stesso!” si disse, e si infilò il giubbotto.
Era a un passo dalla porta d’ingresso, quando apparve di nuovo, sul muro del corridoio, la misteriosa serratura.
Questa volta Paolino non ebbe dubbi.
Introdusse la chiave d’oro nella serratura, che, come la prima volta, scattò morbidamente.
Lo sportello magico si aprì e, dentro il muro, come in un armadietto, Paolino vide una carezza del papà e un bacio della mamma.
Erano le due cose più belle della sua vita, le purtroppo rare carezze di papà lo riempivano di fierezza e i baci della mamma facevano passare tutto:

le delusioni, il mal di pancia, i brutti voti e le paure.

Lentamente tornò indietro, mentre lo sportello nel muro spariva.
“E va bene!” brontolò, “Farò la guardia a quei due esseri pestilenziali!”
Quella sera non era la più adatta a rialzargli l’umore, nonostante la buona azione del pomeriggio.
Il giorno dopo sarebbe quasi certamente stato interrogato in inglese e perciò gli toccava studiare proprio la materia che gli risultava più indigesta.
Ogni due verbi inglesi accendeva la radio per distrarsi un po’.
Dopo un’ora aveva studiato esattamente quattro verbi.
“Di questo passo a mezzanotte sarò ancora qui, accidenti a questa rottura!” sbuffava.
Fu così che vide la serratura per la terza volta.
Era nell’aria, dietro la lampada da tavolo.
Paolino prese la chiave d’oro e aprì il solito sportello.
Dentro, questa volta c’era lui.
Vide se stesso che saliva una scala che si perdeva nelle nuvole.
Mentre saliva, gli scalini dietro di lui scomparivano.
Per quella scala si poteva solo salire.

Era impossibile tornare indietro.

Anche questa volta Paolino capì.
Spense la radio e cominciò a studiare.
Non poteva buttare via gli “scalini”:
non li avrebbe recuperati mai più.
Così la chiave d’oro cambiò la vita di Paolino.
Apparentemente era rimasto il ragazzo di prima, con 12 anni, un discreto dribbling, i capelli rossi, 24 lentiggini sul naso e un amico-nemico che lo chiamava “ketchup”, ma in lui qualcosa era diverso.
Se ne accorse perfino il preside che un giorno, mentre Paolino si preparava a battere un “corner” durante la partita nel cortile della scuola, gli passò vicino e gli disse:
“E bravo Paolino!
Hai trovato la chiave della saggezza?”
“Proprio così!” rispose Paolino.
E tirò un magnifico “corner”.
Ma Riccardo, come al solito, “ciccò” ignobilmente il pallone.

Brano tratto dal libro “Altre storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Gli uomini che videro Dio

Gli uomini che videro Dio

In un villaggio polinesiano vivevano due uomini continuamente in guerra l’uno contro l’altro.
Ad ogni più piccolo pretesto scoppiava una lite.
La vita era diventata insopportabile per l’uno come per l’altro.
Ma anche per tutto il villaggio.

Un giorno alcuni anziani dissero ad uno dei due:

“L’unica soluzione, dopo averle provate tutte, è che tu vada a vedere Dio!”
“D’accordo, ma dove?” chiese questo.
“Niente di più semplice.” Spiegarono gli anziani, “Basta che tu salga lassù sulla montagna e là tu vedrai Dio!”
L’uomo partì senza esitazione per andare incontro a Dio.
Dopo parecchi giorni di marcia faticosa giunse in cima alla montagna.
Dio era là che lo aspettava.

L’uomo si stropicciò invano gli occhi; non c’era alcun dubbio:

Dio aveva la faccia del suo vicino rissoso e antipatico.
Ciò che Dio gli disse, nessuno lo sa.
In ogni caso, al ritorno nel villaggio non era più lo stesso uomo.
Ma nonostante la sua gentilezza e la sua volontà di riconciliazione con il vicino, tutto continuava ad andare male, perché l’altro inventava nuovi pretesti di litigio.
Gli anziani si dissero:
“È meglio che anche lui vada a vedere Dio!”

Nonostante la sua ritrosia, riuscirono a persuaderlo.

E anche lui partì per l’alta montagna.
E lassù anche lui scoprì che Dio aveva il volto del suo vicino.
Da quel giorno tutto è cambiato e la pace regna nel villaggio.

Brano tratto dal libro “Cerchi nell’acqua.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Il viaggio in treno da solo

Il viaggio in treno da solo

Mamma e papà accompagnavano tutti gli anni in treno Martino, il loro figlio, dalla nonna per l’estate e poi tornavano a casa con lo stesso treno l’indomani.
Il ragazzo, quando divenne adolescente, disse ai suoi genitori:
“Sono già grande, cosa ne pensate se quest’anno provo ad andare dalla nonna da solo?”

Dopo un breve dibattito, i genitori furono d’accordo.

Eccoli in piedi sul marciapiede della stazione, salutandolo, dandogli l’ultimo consiglio, mentre Martino continuava a ripetere:
“Sì, lo so, lo so!
Me lo avete già detto cento volte!”

Il treno stava per partire quando il padre gli disse:

“Figlio, se improvvisamente ti senti male o sei spaventato, questo è per te!” e terminando la frase, mise qualcosa nella tasca del ragazzo.
Dopo qualche minuto, il ragazzo era solo, seduto in carrozza, senza genitori, per la prima volta, guardando fuori dal finestrino.
Intorno, persone estranee che si spintonavano, facevano rumore, entravano ed uscivano dal vagone, il bigliettaio che gli contestava il fatto di essere da solo, mentre qualcuno lo guardava anche con dispiacere, quando, improvvisamente, il ragazzo si sentì a disagio, sempre di più.

Al disagio subentrò lo spavento.

Abbassò la testa e si rannicchiò in un angolo del sedile con le lacrime che cominciavano a scendere.
In quel momento si ricordò che suo padre gli aveva messo qualcosa in tasca.
Con la mano tremante, dopo aver cercato a tentoni un pezzo di carta, lo aprì:
“Figliolo, sono nell’ultima carrozza!”

È così che nella vita dobbiamo lasciare andare i figli, fidandoci di loro, ma essendo sempre nell’ultima carrozza, in modo che loro non abbiano paura.
Per essere vicini, per sempre.

Brano senza Autore

Il contadino che vendette la mucca a Sant’Antonio

Il contadino che vendette la mucca a Sant’Antonio

C’era una volta un contadino proprio scemo, che aveva una moglie intelligente.
Era lei a portare avanti la casa, comprava e vendeva, organizzava il lavoro nella fattoria e si preoccupava che tutto procedesse sempre al meglio.
Un bel giorno, però, si fece male ad un piede, tanto da non riuscire a camminare, e dovette rimanere a casa.
Proprio in quei giorni doveva essere venduta una mucca e, per questa ragione, fu il contadino a dover portare la mucca al mercato.
La moglie lo aveva ammonito di non vendere la mucca al di sotto di 160 fiorini e di guardarsi dai compratori che parlavano troppo.

Infatti questi non avrebbero certamente comprato nulla.

Le occorreva il denaro per l’affitto, altrimenti avrebbe rimandato volentieri l’affare, poiché non credeva che il suo stupido marito fosse capace di portare a buon termine la vendita.
Al mercato molti compratori cercarono di convincere il contadino.
Egli si ricordò di sua moglie e non diede la mucca a nessuno.
Così dovette riportare la sua mucca di nuovo a casa.
Aveva già paura che la moglie gli dicesse che era scemo.
Cammin facendo arrivò in un villaggio, ad una chiesa che era aperta:
“Insomma,” pensò, “darò un’occhiata qui dentro; forse ci trovo un compratore!”
Proprio in quel giorno aveva avuto luogo un pellegrinaggio per sant’Antonio, la cui statua si trovava nella chiesa, e per questo la porta della chiesa era ancora aperta.

Era, però, già così tardi che non vi era più nessuno in chiesa.

Il contadinotto entrò con la sua mucca e legò la bestia ad un banco.
Lui andò più avanti, perché aveva notato uno che stava lì in piedi e non diceva una parola, cioè la statua di sant’Antonio.
Poiché Antonio era rappresentato insieme ad un maiale, il contadino lo prese per un porcaro.
Che se ne stesse così zitto, gli parve buona cosa.
Ad un certo punto iniziò lui a parlare con la statua.
Gli offrì la sua mucca.
Però, dato che Antonio non rispondeva proprio, si arrabbiò e lo colpì con il proprio bastone.
In quel preciso istante, di fronte ai piedi di Hannes, cadde un sacco di denaro:
“Beh,” disse, “sapevo che volevi comprare la mia mucca.
Se avessi aperto la bocca, non ti avrei picchiato!”
Contento raccolse il denaro, lasciò la chiesa e tornò a casa.
Rientrato a casa, lanciò il denaro alla moglie contento.
Da quel momento in poi, lei non avrebbe più potuto dire che fosse uno scemo.

La moglie si meravigliò poiché il denaro era molto.

Hannes le raccontò solamente di aver venduto la mucca ad un porcaro, il quale aveva gettato la borsa del denaro ai suoi piedi, senza nemmeno mercanteggiare.
Dopo che Hannes ebbe lasciato la chiesa, arrivò il sagrestano per chiudere le porte.
Vide la mucca legata e notò che tutti i suoi risparmi, nascosti dentro la statua di sant’Antonio, erano spariti.
Chiamò il parroco e gli raccontò della sua sciagura.
Aveva messo al sicuro da sua moglie il denaro dentro la statua di Antonio; la moglie, altrimenti, l’avrebbe speso a larghe mani.
Il parroco disse che doveva prendere la mucca e dire alla moglie che era un suo regalo.
Il sagrestano tornò a casa con la mucca e la moglie si meravigliò molto per un regalo così grande, dato che il parroco era parsimonioso e, inoltre, che non aveva grandi possibilità.
Il sagrestano, però, le tolse ogni dubbio dicendole di chiedere lei stessa al parroco.

La mucca, quindi, finì nella stalla, la donna se ne rallegrò e l’accudì bene.

Il lavoro le divenne poco a poco divertente e, invece della solita chiacchierata di fronte ad una tazza di caffè o al correre da una vicina all’altra, era continuamente indaffarata con la mucca.
La mucca dava molto latte, poiché era una bella bestia e la donna, che prima spendeva il denaro con leggerezza, divenne parsimoniosa, quando vide come fosse difficile guadagnare qualcosa.
In questo modo aveva presto messo da parte abbastanza denaro per comprare una seconda mucca.
Più tardi comprarono anche un pezzo di terra e oggi il sagrestano è un benestante con una stalla piena di bestiame e molta terra.
Anche la fattoria di Hannes andò in seguito bene, poiché sua moglie ebbe a disposizione più denaro.
Da quel momento non osò più rimproverarlo di essere scemo, anche se lui non era meno fannullone di prima.

Brano senza Autore

Tonto Zuccone ed il periodo del lockdown

Tonto Zuccone ed il periodo del lockdown
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Il giapponese

Fuori dal comune

Il vaccino anti-covid

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“Il giapponese”

Tonto Zuccone, fino a quando non siamo stati costretti a rimanere a casa per paura del covid-19 (coronavirus), saltuariamente si recava a mangiare in una tipica osteria, dove proponevano, con successo, una frittata con le cipolle di Tropea.
Il prezzo elevato non scoraggiava i tanti turisti che facevano la fila per un posto a sedere.
Tonto vi entro con le mani in tasca, essendo di casa e, per averlo visto fare nei film, aprì con lo sterno del torace la porta, la quale si apriva a libro con una lieve spinta e si richiudeva veloce in automatico, con il sistema delle molle.

Dietro di lui, ad una distanza ravvicinata, c’era un giapponese, che prese in piena faccia la porta che Tonto aveva fatto basculare.

Il giapponese nascose le lacrime portandosi le mani al viso, anche se il suo piagnucolare attirò l’attenzione dell’oste che chiese a Tonto:
“Come sei riuscito a far piangere il giapponese, se avevi le mani in tasca, la bocca chiusa e gli voltavi le spalle?
Hai forse mangiato il solito pentolone di fagioli?”
Tonto non aveva capito di aver colpito, involontariamente, il signore giapponese, quindi replicò:
“Io non centro; lo avrai spaventato tu con il prezzo spropositato della frittata appeso nella porta, dove trasformi le normali uova di corte che ti fornisco io in quelle d’oro e, certamente non piange per le cipolle di Tropea, che sono di una delicatezza infinita!”

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“Fuori dal comune”

Tonto Zuccone, come tutti in tempo di covid, per via delle restrizioni imposte in seguito al periodo di lockdown, è stato costretto a cambiare le sue abitudini di vita, rinunciando, per esempio, a frequentare il bar del paese, dove incontrava gli amici, per evitare assembramenti.
Nonostante la zona rossa imposta dal governo, nel quale erano vietati gli spostamenti da un comune all’altro, se non motivati da questioni urgenti o di lavoro, Tonto, per smaltire il mal da frigo, causato dalle troppe aperture e dalle esagerazioni, non aveva rinunciato alla sua passeggiata quotidiana, sconfinando, però, in un comune limitrofo.

Fermato per un controllo dalle forze dell’ordine si sentì dire:

“Dobbiamo sanzionarti perché sei fuori comune!”
Tonto, rimasto quasi senza parole, replicò:
“È una vita che mi sento dire che sono un tipo fuori dal comune, ma non mi hanno mai sanzionato prima per questo, se mai aiutato!”

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“Il vaccino anti-covid”

Tonto Zuccone aspettava con ansia il momento in cui si sarebbe potuto vaccinare contro il covid19 (coronavirus).
Bramava il momento in cui sarebbe potuto tornare ad una vita normale, soprattutto per riprendere le relazioni interpersonali, di cui aveva tanto bisogno.
Arrivò il giorno in cui si dovette recare al centro vaccinale e, una volta espletate le formalità dell’accettazione e del giudizio medico, fu indirizzato dai volontari in divisa a fare una breve fila per l’inoculazione del siero.
Arrivato il suo turno, tentennò per la paura improvvisa dell’ago.
L’infermiera, intanto, lo squadrò da cima a fondo, trovandolo alquanto folcloristico e singolare.
Fissandolo, gli disse:
“Avanti un altro!”

Tonto intrepretò male questa frase.

Capì, infatti, che si sarebbe dovuto mettere da parte, come gli era capitato tante altre volte nella sua vita, suo malgrado.
Non riusciva a capire il motivo di questa richiesta nel contesto in cui si trovava e, invece di fare i due passi avanti per il vaccino, si girò e riprese la fila dall’ultimo posto.
La cosa fu notata da un addetto allo smistamento che gli chiese:
“Perché hai rifatto la fila se era il tuo turno?”
Tonto rispose:
“Perché l’infermiera ha detto avanti un altro, e quell’altro non ero certo io, ma quello che veniva dopo di me!”
“Ma allora sei proprio tonto a non capire come funzionano le cose semplici?” domandò l’addetto. “Certo che sono proprio io!
Tonto Zuccone in persona.
È scritto anche nei miei documenti di identità!” e sorridendo, lasciò l’addetto senza parole.

Brani di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione dei racconti a cura di Michele Bruno Salerno

Il dolce delizioso e Dio (Mamma e figlia)

Il dolce delizioso e Dio (Mamma e figlia)

Un giorno, una ragazza andò in cucina per parlare con sua madre lamentandosi che nella vita tutto sembrava andarle storto:
la scuola, nonostante ce la mettesse tutta, non andava come avrebbe voluto.
Il ragazzo, che segretamente amava, ancora non le dedicava le giuste attenzioni… nonostante anche lui fosse interessato.
La sua migliore amica stava per trasferirsi in una città lontana e ultimamente le sue amicizie erano… beh, lasciamo perdere!

E Dio nel frattempo cosa faceva?

La mamma durante tutto il discorso ascoltò in silenzio la figlia.
Quando la ragazza ebbe finito di parlare la madre le disse:
“Figlia mia, vuoi un po’ di dolce?”
“Certamente mamma!
Vado pazza per i tuoi dolci!”
Allora la madre prese un bicchiere, ci versò dentro una dose di olio di semi, poi versò in una ciotola della farina, prese due uova dal frigo, del lievito e un paio di scorze di limone.
E disse:
“Ecco il tuo dolce!
Spero ti piaccia!”

La figlia, sbigottita e disgustata, le rispose:

“Ma mamma, ma sei impazzita?
Queste cose non sono un dolce!”
La mamma continuò:
“Cara figlia mia, certo, tutte queste cose, prese da sole, non sono affatto il dolce e prese da sole non sono nemmeno invitanti!
Ma quando qualcuno le mette insieme, nel modo giusto e con esperienza, dopo il tempo di cottura adeguato, danno vita ad un dolce squisito!
Vedi, Dio lavora come una madre che prepara con amore un dolce delizioso per i suoi figli.
Questi si chiedono come possono, un uovo crudo, un po’ di zucchero, una scorza di limone, un bicchiere d’olio, un po’ di farina, mescolati insieme, diventare un cibo così squisito,

ma la mamma li sorprende ogni volta!

Allo stesso modo ognuno di noi si chiede molte volte perché Dio ci lascia andare attraverso esperienze molto dolorose e tempi molto difficili, ma Dio sa che quando lui cucinerà tutte queste cose insieme, attraverso la sua ricetta e nei suoi modi, il risultato sarà sempre qualcosa di straordinario per i suoi amati figli e figlie.
Noi non dobbiamo fare altro che autorizzarlo a prendere gli “ingredienti” della nostra vita, “impastarli” e “cuocerli” come solo lui fare.
Perché lui sa trasformare ogni male in un bene.”
La figlia sorrise soddisfatta e non soltanto perché il dolce era molto buono…

Brano senza Autore

Dire grazie (Madre e figlio)

Dire grazie (Madre e figlio)

Confessione di un figlio, al di sopra di ogni sospetto…
“Ieri sono stato a mangiare in un ristorante!
Un pranzo passabile, ma che prezzi!
Ci serviva una cameriera, né bella, né gentile…
In tutto il pranzo le avrò detto cento volte:

“Grazie!”

Lei neanche ci faceva caso e aveva ragione:
è pagata per fare quel lavoro!
Oggi, mia madre, come sempre, si è alzata per prendermi un bicchiere d’acqua…
Non so come, mi è sfuggito un:
“Grazie!”
Non l’avevo mai fatto!
Mia madre si è messa seduta e mi è sembrato che, quasi, piangesse…

Conclusione:

per far piangere mia madre basta poco;
basta dire un “Grazie!” ogni tredici anni!”

Confessione di una madre, piena di sospetti…
“Oggi, mio figlio mi ha detto: “Grazie!”
Ho pianto…
Che scema!

Spero non se ne sia accorto:

altrimenti non me lo dice più per non farmi piangere…
Se, invece, si fosse accorto che io, “la madre”, sono Lucia, che ho quarant’anni, che spesso sono stanca, che a volte mi sento sola, che spesso desidero parlare, uscire, che a volte sto male…”
Conclusione:
“Se volete imparare la crescita, il progresso personale e la dignità, per incominciare non c’è un posto migliore della vostra famiglia!”

Brano senza Autore

Il rito della prosperità (Festa di San Giorgio)

Il rito della prosperità
(Festa di San Giorgio)

Il 23 aprile è il giorno della ricorrenza (della morte) di San Giorgio, protettore di tutti i cavalieri che hanno combattuto il male, il quale, in quasi tutte le storie e nelle leggende, veniva rappresentato dal drago.
Cavaliere viene chiamato in Veneto pure un bruco, il Bombyx Mori, conosciuto come baco da seta.
Proprio in questa data, le piccolissime uova del bruco venivano messe in incubazione sotto un caldo cuscino e, addirittura, venivano nascosti in gran segreto tra i seni procaci delle donne di casa, per accelerare la schiusa delle uova.

Mai nessun cavaliere fu così coccolato e viziato, nonostante fosse, per giunta, un insetto.

I bruchi rappresentavano la fonte del primo guadagno dell’anno, atteso dalle donne, soprattutto da quelle che si dovevano sposare, le quali erano in trepidante attesa della propria dote.
Molto spesso ciò avveniva attraverso la vendita dei preziosi bozzoli di seta.
Ricordo ancora oggi quando, un giorno, da ragazzo, andai a trovare un compagno di scuola e di giochi e non trovandolo subito in casa, iniziai a girovagare per le stanze, come facevo di solito.
Giunsi in un grande locale adibito all’allevamento del baco da seta.
L’allevamento era suddiviso in graticole e, nella stessa stanza, intravidi due donne di mezza età.
Non fui notato, quindi poté assistere ad un singolare rito ancestrale, risalente, molto probabilmente, ad una epoca precristiana e riferito all’antico culto della Dea Madre.
Le donne si erano alzate vistosamente le lunghe gonne fino al ventre, mostrando le bianche nudità, con in testa una corona, realizzata con le foglie e con i rami di gelso, e così “bardate” fecero tre giri intorno alle graticole, mormorando frasi a me incomprensibili.
Non rimasi però turbato dalla singolare scena!

Anzi, rimasi divertito!

Pur non riuscendo a capire lo scopo di quello “spettacolo”, non ebbi mai il coraggio di chiedere ai miei il significato di quello che avevo visto.
Infatti, nonostante anche a casa mia si allevasse il baco da seta, non rividi più la scena vista a casa del mio amico.
Continuai a coltivare i bachi da seta con passione finché, dopo essere rimasto l’unico e l’ultimo nel mio paese, fui costretto a smettere nel 1989, a causa dell’inquinamento ambientale portato da un insetticida irrorato a sproposito nei frutteti.
Il baco da seta, essendo una sentinella ecologica, non tollerava questo insetticida.
In quegli anni, su nostro invito, il parroco veniva a benedire l’allevamento e, in quel momento, veniva esposta per la cerimonia una immagine sacra della Madonna, come auspicio devozionale per la buona riuscita dell’allevamento.

Solo in età adulta, leggendo testi di antropologia religiosa,

ricordai il rito ancestrale a cui avevo assistito, non subito da me interpretato, essendo una prerogativa segreta delle donne, sopravvissuta nei secoli.
Penso di essere stato uno degli ultimi, casuali, spettatori che lo possono ancora raccontare.
Diverse volte ripensai alla scena che vidi, vissuta nel mio tranquillo e secolare borgo di Levada, e giunsi alla conclusione che nei muri e nei sassi dell’epoca sono celati, ancora oggi, segreti che a breve andranno persi per sempre, a causa del cambiamento urbanistico e culturale che il mio borgo e la nostra nazione hanno subito negli ultimi 70 anni.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La foto, che è stata gentilmente fornita dall’autore, lo vede impegnato in una delle varie attività agricole che, ormai, svolge da anni.