Il piccolo re solitario

Il piccolo re solitario

Lontano, lontano da qui, in un mare dal nome strano, c’era una piccola isola, con le spiagge bianche e le colline verdi.
Sull’isola c’era un castello e nel castello viveva un piccolo re.
Era un re abbastanza strano, perché non aveva sudditi.
Nemmeno uno.
Ogni mattina il piccolo re, dopo aver sbadigliato ed essersi stiracchiato, si lavava le orecchie e si spazzolava i denti; poi si calcava in testa la corona e cominciava la sua giornata.
Se splendeva il sole, il piccolo re correva sulla spiaggia a fare sport.
Era un grande sportivo.

Deteneva infatti tutti i record del regno:

da quello dei cento metri di corsa sulla sabbia, al lancio della pietra, a tutte le specialità di nuoto, eccetto lo sci acquatico, perché non trovava nessuno che guidasse il reale motoscafo.
E dopo ogni gara, il re si premiava con la medaglia d’oro.
Ne aveva ormai tre stanze piene.
Ogni volta che si appuntava la medaglia sul petto, si rispondeva con garbo:
“Grazie, maestà!”
Nel castello c’era una biblioteca, e gli scaffali erano pieni di libri.
Al re piacevano molto i fumetti d’avventure.
Un po’ meno le fiabe, perché nelle fiabe tutti i re avevano dei sudditi.

“E io neanche uno!” si diceva il re, “Ma come dice il proverbio:

è meglio essere soli che male accompagnati.”
E quando faceva i compiti, si dava sempre dei bellissimi voti.
“Con i complimenti di sua maestà!” si dichiarava.
Una sera, però, sentì un certo nonsoché che lo rendeva malinconico; camminò fino alla spiaggia, deciso a cercare qualche suddito, e pensava:
“Se solo avessi cento sudditi!”
Allora proseguì sulla spiaggia verso destra, ma la riva era completamente deserta.
“Se solo avessi cinquanta sudditi!” disse il re; tornò indietro e camminò sulla spiaggia verso sinistra fino a che poté, ma la riva era ugualmente deserta.
Il re si sedette su uno scoglio ed era un po’ triste; e di conseguenza non si accorse nemmeno che quella sera c’era un magnifico tramonto.

“Se solo avessi dieci sudditi, probabilmente sarei più felice!”

Notò lontano sul mare alcuni pescatori sulle loro barche e si rallegrò.
“Sudditi,” gridò il re, “sudditi, da questa parte, ecco il re, urrà!”
Ma i pescatori non lo sentirono, e tutto quel gridare rese rauco il re.
Tornò a casa e scivolò sotto la sua bella trapunta colorata; si addormentò e sognò un milione di sudditi che gridavano “urrà” nel momento in cui lo vedevano.
Non dormì a lungo.
Un vociare forte e disordinato lo svegliò.
Il piccolo re non aveva sudditi, ma aveva dei nemici accaniti.

Erano i pirati del terribile Barbarossa.

Sembravano sbucare dall’orizzonte, con la loro nave irta di cannoni, con i loro baffi spioventi e il ghigno feroce, e i coltellacci fra i denti.
“All’arrembaggio!” gridava Barbarossa, il più feroce di tutti.
E i trentotto pirati entravano urlando nel castello e facevano man bassa di tutto quello che trovavano.
A forza di scorrerie, nel castello era rimasto ben poco di asportabile, così i pirati avevano preso l’abitudine di riportare qualcosa ogni volta per poterlo rubare nella scorreria successiva.
Il piccolo re aveva una paura tremenda dei pirati e soprattutto del crudele Barbarossa che ogni volta sbraitava:
“Se prendo il re, lo appendo all’albero della nave!”
Così, quando sentiva arrivare i pirati, si nascondeva in uno dei tanti nascondigli segreti del castello. Dentro, rannicchiato nel buio, aspettava la partenza dei pirati.

Era così da tanto tempo ormai, e il piccolo re non si sentiva affatto un fifone.

“Se avessi un esercito,” pensava, “Barbarossa e la sua ciurma non la passerebbero liscia!”
Un mattino, il re si svegliò a un suono completamente nuovo.
Lo ascoltò e si rese conto che non aveva mai udito un suono simile.
“Forse sono arrivati i miei sudditi!” pensò il re, e andò ad aprire la porta.
Sul gradino della porta sedeva un enorme gatto arancione.
“Buongiorno,” disse il re con grande dignità, “io sono il re, urrà!”
“E io sono il gatto!” disse il gatto.

“Tu sei mio suddito!” disse il re.

“Lasciami entrare,” ribatté il gatto, “ho fame e ho freddo!”
Il re lasciò entrare il gatto nella sua casa, e il gatto fece un giro intorno e vide quanto era grande e confortevole:
“Che bellissima casa hai!”
“Sì, non è male!” disse il re; e improvvisamente si accorse di tutte le cose che non aveva mai visto in molti anni.
“E’ perché io sono il re!” disse il re; ed era molto soddisfatto.
“Io resterò qui!” decise il gatto, e si sistemò nella casa per vivere con il re; e il re fu felice perché ora aveva finalmente un suddito.
“Dammi del cibo!” disse il gatto, e il re corse via immediatamente per andare a prendere cibo per il gatto.
“Fammi un letto!” disse il gatto; e il re corse alla ricerca di una trapunta e di un cuscino.
“Ho freddo!” disse il gatto; e il re accese un fuoco affinché il gatto potesse scaldarsi.

“Ecco fatto, signor Suddito!” disse il re al gatto.

E il gatto rispose: “Grazie, signor Re!”
E il re non notò neppure che, sebbene fosse il re, serviva il gatto.
Il tempo passava e il re era felice in compagnia del gatto, e il gatto mostrava al re ogni cosa che il re nella sua solitudine era riuscito a dimenticare:
il tramonto, la rugiada del mattino, le conchiglie colorate e la luna che scivolava attraverso il cielo come la barca dei pescatori sul mare.
Qualche volta accadeva al re di passare davanti a uno specchio, e quando vedeva la sua immagine diceva:
“Il re, urrà.”
E si salutava.

Non era più il campione assoluto dell’isola.

Il gatto lo batteva nel salto in alto, in lungo e nell’arrampicata sugli alberi; ma il re continuava a eccellere nel nuoto e nel lancio della pietra.
Un mattino, il re sentì bussare alla porta del castello.
Corse ad aprire, pensando:
“Arrivano i sudditi!”
Si trovò davanti un piccoletto con la faccia allegra.
Era un pinguino, con la camicia bianca e il frac di un bel nero lucente.
“Buongiorno,” disse il re con grande dignità, “io sono il re, urrà.”
“E io sono un pinguino!” disse il pinguino.
“Tu sei mio suddito!” disse il re.

“Lasciami entrare,” ribatté il pinguino, “ho fame e ho i piedi congelati.

Sono stufo di abitare su un iceberg!”
Il re lasciò entrare il pinguino nella sua casa e gli presentò il gatto, che fu molto felice di fare conoscenza con il pinguino.
“Penso che mi fermerò qui con voi.” disse il pinguino.
Il re ne fu felicissimo.
Adesso aveva due sudditi.
Corse a preparare una buona cenetta per il pinguino, mentre il gatto portava al nuovo ospite due soffici pantofole.
“Io farò il maggiordomo.
Mi ci sento portato!” dichiarò il pinguino, “Terrò in ordine il castello e servirò gli aperitivi in terrazza!”

Così furono in tre a guardare i tramonti.

Ed era ancora meglio che in due.
Il re non vinceva più molte gare sportive, perché il pinguino lo batteva nel nuoto e nei tuffi.
Scoprì, sorprendentemente, che si può essere contenti anche se non si vince sempre.
Ma una sera, lontano all’orizzonte, apparve la nave del pirata Barbarossa.
“Presto scappiamo a nasconderci!” gridò il re.
“Neanche per sogno!” disse il gatto, “Siamo in tre e possiamo battere quei prepotenti!”
“Certo!” ribatté il pinguino, “Basta avere un piano!”
“Nell’armeria del castello c’è l’armatura del gigante Latus!” disse il re.
“Bene!” disse il gatto, “Ci infileremo nell’armatura e affronteremo i pirati!”
“Il gatto si metterà sulle mie spalle, e il re sul gatto, così potrà brandire la spada.” continuò il pinguino.

“Approvo il piano!” concluse il re.

Così fecero.
Quando approdarono alla spiaggia, i pirati rimasero paralizzati dalla sorpresa.
Verso di loro, a grandi passi ondeggianti, avanzava un gigante che brandiva un enorme e minaccioso spadone.
“È tornato il gigante Latus!” gridarono, “Si salvi chi può!”
E si buttarono in acqua per raggiungere la nave.
Da allora nessuno li vide mai più.
Sulla spiaggia dell’isola il piccolo re, il gatto e il pinguino si abbracciarono ridendo.
Poi il gatto e il pinguino sollevarono il re e lo gettarono in aria gridando:
“Re è il migliore amico che c’è, urrà!”

Brano tratto dal libro “Nuove storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero

Il club del novantanove

Il club del novantanove

C’era una volta un re molto triste che aveva un servo molto felice che circolava sempre con un grande sorriso sul volto.
“Paggio,” gli chiese un giorno il re, “qual è il segreto della tua allegria?”
“Non ho nessun segreto.
Signore, non ho motivo di essere triste.
Sono felice di servirvi.
Con mia moglie e i miei figli vivo nella casa che ci è stata assegnata dalla corte.
Ho cibo e vestiti e qualche moneta di mancia ogni tanto.”
Il re chiamò il più saggio dei suoi consiglieri:
“Voglio il segreto della felicità del paggio!”
“Non puoi capire il segreto della sua felicità.
Ma se vuoi, puoi sottrargliela!” esclamò il saggio.

“Come?” chiese il re.

“Facendo entrare il tuo paggio nel giro del novantanove.” rispose il saggio.
“Che cosa significa?” domandò il sovrano.
“Fa’ quello che ti dico…” concluse il saggio
Seguendo le indicazioni del consigliere, il re preparò una borsa che conteneva novantanove monete d’oro e la fece dare al paggio con un messaggio che diceva:
“Questo tesoro è tuo.
Goditelo e non dire a nessuno come lo hai trovato!”
Il paggio non aveva mai visto tanto denaro e pieno di eccitazione cominciò a contarle:
dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta, sessanta… novantanove!
Deluso, indugiò con lo sguardo sopra il tavolo, alla ricerca della moneta mancante.

“Sono stato derubato!” gridò, “Sono stato derubato! Maledetti!”

Cercò di nuovo sopra il tavolo, per terra, nella borsa, tra i vestiti, nelle tasche, sotto i mobili…
Ma non trovò quello che cercava.
Sopra il tavolo, quasi a prendersi gioco di lui, un mucchietto di monete splendenti gli ricordava che aveva novantanove monete d’oro.
Soltanto novantanove.
“Novantanove monete.
Sono tanti soldi,” pensò, “ma mi manca una moneta.
Novantanove non è un numero completo!” pensava, “Cento è un numero completo, novantanove no!”

La faccia del paggio non era più la stessa.

Aveva la fonte corrugata e i lineamenti irrigiditi.
Stringeva gli occhi e la bocca gli si contraeva in una orribile smorfia, mostrando i denti.
Calcolò quanto tempo avrebbe dovuto lavorare per guadagnare la centesima moneta, avrebbe fatto lavorare sua moglie e i suoi figli.
Dieci dodici anni, ma ce l’avrebbe fatta!
Il paggio era entrato nel giro del novantanove…
Non passò molto tempo che il re lo licenziò.
Non era piacevole avere un paggio sempre di cattivo umore.

Se ci rendessimo conto, così di colpo, che le nostre novantanove monete sono il cento per cento del tesoro?
E che non ci manca nulla, nessuno ci ha portato via nulla, il numero cento non è più rotondo del novantanove.
È soltanto un tranello, una carota che ci hanno messo davanti al naso per renderci stupidi, per farci tirare il carretto, stanchi, di malumore, infelici e rassegnati.
Un tranello per non farci mai smettere di spingere.

Brano tratto dal libro “Ma noi abbiamo le ali.” di Bruno Ferrero

Il saggio e la verità


Il saggio e la verità

Una volta, un imperatore sognò di aver perso tutti i denti.
Si svegliò spaventato e fece chiamare un saggio in grado di interpretare il suo sogno.
“Signore, che disgrazia!” esclamò il saggio.
“Ciascuno dei denti caduti rappresenta la perdita di un familiare caro a Vostra Maestà.”

“Ma che insolente!” gridò l’imperatore.

“Come si permette di dire tale fesseria?”
Chiamò le guardie ordinando loro di frustarlo.
Chiese in seguito che cercassero un altro saggio.
L’altro saggio arrivò e disse:
“Signore, vi attende una grande felicità!
Il sogno rivela che lei vivrà più a lungo di tutti i suoi parenti.”

Il volto dell’imperatore si illuminò.

Chiese che venissero consegnate cento monete d’oro a quel saggio.
Quando costui lasciò il palazzo, un suddito domandò:
“Com’è possibile?
L’interpretazione data da lei fu la stessa del suo collega.
Tuttavia lui prese delle frustate mentre lei ebbe delle monete d’oro!”
“Mio amico.” rispose il saggio “Tutto dipende da come si vedono le cose…

Questa è la grande sfida dell’umanità.

Da ciò deriva la felicità o l’infelicità, la pace o la guerra.
La verità va sempre detta, non c’è alcun dubbio, ma il modo come la si dice…
È quello che fa la differenza.
La verità deve essere comparata ad una pietra preziosa.
Se la rinfacciamo a qualcuno, può ferire, provocando rivolta.
Ma se l’avvolgiamo in una delicata confezione e la offriamo con tenerezza, sarà sicuramente accettata con più felicità.”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Le cose non sono sempre quelle che sembrano


Le cose non sono sempre quelle che sembrano

Due angeli viaggiatori si fermarono per passare la notte nella casa di una famiglia ricca.
Era una famiglia di persone molto avare che si rifiutarono di far dormire i due angeli nella camera degli ospiti.
Infatti concessero loro solo un piccolo spazio fuori, sul duro e freddo pavimento del pergolato davanti alla casa.
Mentre gli angeli si preparavano come potevano un giaciglio per terra, il più vecchio dei due vide un buco nel muro e lo riparò.
Quando l’angelo più giovane gliene chiese il motivo lui rispose soltanto:

“Le cose non sono sempre quelle che sembrano!”

La notte dopo la coppia di angeli cercò riparo nella casa di una famiglia molto povera ma molto ospitale dove furono accolti da un contadino e da sua moglie.
Dopo aver diviso con gli angeli il seppur scarso cibo che avevano, i contadini insistettero per cedere agli angeli i loro letti, dove finalmente gli angeli viaggiatori poterono riposare comodamente.
La mattina dopo quando il sole sorse, gli angeli trovarono l’uomo e sua moglie in lacrime.
La loro unica mucca, la loro unica fonte di sostentamento, giaceva morta nel campo.
Il giovane angelo si infuriò e chiese al più vecchio come avesse potuto lasciar accadere una cosa del genere.

“Al primo uomo, che pure aveva tutto, hai fatto un favore!” lo accusò.

“Questa famiglia benché avesse pochissimo è stata pronta a dividere tutto con noi, e tu hai lasciato che la loro mucca morisse!”
“Le cose non sono sempre quelle che sembrano!” replicò l’angelo più anziano.
“Quando eravamo nel cortile della villa, ho notato che c’era dell’oro nascosto nel muro e che si sarebbe potuto scoprirlo grazie a quel piccolo buco, in modo tale che avrebbero avuto modo di trovare anche quella ricchezza.
La notte scorsa, poi, mentre dormivamo nel letto del contadino, venne l’angelo della morte per portarsi via sua moglie.

Ed io invece di lei gli ho dato la mucca!”

Le cose non sono sempre quelle che sembrano.
Qualche volta questo è precisamente quello che succede quando le cose sembrano non andare come dovrebbero.

Brano senza Autore, tratto dal Web

L’avaro


L’avaro

Un avaro aveva liquidato tutto il suo patrimonio e l’aveva convertito in una verga d’oro;
poi l’aveva sotterrato in un certo luogo, sotterrandoci insieme la sua vita e il suo cuore, e tutti i giorni andava a farci una ispezione.

Un operaio lo tenne d’occhio, subodorando la verità,

andò a scavare e si portò via la verga.
Dopo un po’ arrivò anche l’avaro e, trovando la sua buca vuota, cominciò a piangere e a strapparsi i capelli.

Ma un tale, che l’aveva visto lamentarsi così dolorosamente, quando ne seppe la ragione, gli disse:

“Non disperarti così, mio caro; tanto, oro non ne avevi nemmeno quando lo possedevi.
Prendi una pietra, mettila al suo posto, e immagina d’avere il tuo oro:

ti farà lo stesso servizio;

perché vedo bene che, anche quando il tuo oro era là, tu non ne facevi nulla.”

Brano di Esopo

La strada che non andava da nessuna parte


La strada che non andava da nessuna parte

All’uscita del paese si dividevano tre strade:
una andava verso il mare, la seconda verso la città e la terza non andava in nessun posto.
Martino lo sapeva perché lo aveva chiesto un po’ a tutti e da tutti aveva ricevuto la stessa risposta:
“Quella strada lì?
Non va in nessun posto.
E’ inutile camminarci!”
“E fin dove arriva?” chiedeva.
“Non arriva da nessuna parte!” gli rispondevano
“Ma allora perché l’hanno fatta?” ribadiva.

“Non l’ha fatta nessuno, è sempre stata lì!” replicavano.

“Ma nessuno è mai andato a vedere?” insisteva il ragazzo.
“Sei una bella testa dura: se ti diciamo che non c’è niente da vedere…” concludevano.
“Non potete saperlo se non ci siete mai stati!” diceva Martino.
Era così ostinato che cominciarono a chiamarlo Martino Testadura, ma lui non se la prendeva e continuava a pensare alla strada che non andava in nessun posto.
Quando fu abbastanza grande, una mattina si alzò per tempo, uscì dal paese e senza esitare imboccò la strada misteriosa e andò sempre avanti.
Il fondo era pieno di buche e di erbacce e ben presto cominciarono i boschi.
Cammina cammina la strada non finiva mai, a Martino dolevano i piedi e già cominciava a pensare che avrebbe fatto bene a tornarsene indietro quando vide un cane.

Il cane gli corse incontro scodinzolando e gli leccò le mani,

poi si avviò lungo la strada e ad ogni passo si voltava per controllare se Martino lo seguiva ancora.
Finalmente il bosco cominciò a diradarsi e la strada terminò sulla soglia di un grande cancello di ferro.
Attraverso le sbarre Martino vide un castello e a un balcone una bellissima signora che salutava con la mano.
Spinse il cancello, attraversò il parco e sulla porta trovò la bellissima signora.
Era bella, vestita come una principessa e in più era allegra e rideva:
“Allora non ci hai creduto!”
“A che cosa?” chiese stupito Martino.
“Alla storia della strada che non andava da nessuna parte!” replicò la signora.
“Era troppo stupida e secondo me ci sono più posti che strade!” rispose Martino.
“Certo, basta aver voglia di muoversi.
Ora vieni ti farò vedere il castello!” disse la bellissima signora.
C’erano più di cento saloni zeppi di tesori.
C’erano diamanti, pietre preziose, oro, argento e ad ogni momento la bella signora diceva:

“Prendi, prendi quello che vuoi…

Ti presterò un carretto per portare il peso!”
Martino non si fece pregare e ripartì col carretto pieno.
In paese, dove l’avevano già dato per morto, Martino fu accolto con grande sorpresa.
Scaricato il tesoro il carro ripartì.
Martino fece tanti regali a tutti e dovette raccontare cento volte la sua storia.
Ogni volta che finiva, qualcuno correva a casa a prendere cavallo e carretto e si precipitava giù per la strada che non andava da nessuna parte.
Ma quella sera stessa tornarono uno dopo l’altro, con la faccia lunga per il dispetto:
la strada per loro finiva in mezzo al bosco in un mare di spine.
Non c’era né cancello, né castello, né bella signora.
Perché certi tesori esistono soltanto per chi batte per primo una strada nuova.

Brano di Gianni Rodari

La ragazza che regalava il tempo



La ragazza che regalava il tempo

“Chi ha bisogno di un’ora?”
Gliela regalo.
Lo diceva camminando per la strada, come un ambulante che offra mazzetti di fiori e accendini.
Naturalmente nessuno le badava, pensavano che scherzasse o fosse un po’ matta.
Solo una donna le si avvicinò:
stava andando all’ospedale dal vecchio padre moribondo e per questo le prestò ascolto.
“Davvero puoi darmela?” chiese.

“Certo,” disse la ragazza “e gliela diede.”

La donna corse a portarla al padre, che poté così vivere un’ora in più.
Quando la cosa si seppe, la voce che una ragazza regalava il tempo si sparse in un baleno.
La casetta dove abitava fu assediata, la gente non bussava solo alla porta, ma anche ai vetri delle finestre.
“A me! A me!” gridavano.
“Regalami un mese, te lo pago a peso d’oro!”
“Dammi una settimana! Un giorno solo!”

Lei accontentava tutti, e senza farsi pagare.

Una madre le chiese un mese per la sua bambina gravemente ammalata e lo ebbe.
Un’altra, sofferente di cuore, aveva un unico figlio emigrato in Australia.
“Posso morire da un momento all’altro,” disse “e lui ha bisogno di tempo per mettere da parte i soldi per venire a trovarmi.
Posso non rivederlo più, capisci?”
La ragazza le regalò un anno.
Regalava ore, mesi, anni, ed erano pezzetti della sua vita che dava via.
Quando le chiedevano:
“Perché lo fai?” lei non sapeva rispondere.

Qualcuno diceva addirittura:

“Non lo farà perché non ama vivere?”
Invece chi è generoso non sa spiegare perché lo è, o forse lei si vergognava di dire che, essendo
molto povera, non aveva nient’altro da regalare.
Si penserà che a furia di dar via pezzetti della sua vita morì giovane.
Invece no, chi regala il suo tempo agli altri, non lo perde, lo guadagna:
gliene ricresce tanto.

Brano tratto dal libro “Storie del Tic-Tac.” di Marcello Argilli

L’albero dai frutti d’oro


L’albero dai frutti d’oro

C’era una volta un imbroglione che fu catturato e condannato a morte.
Chiese clemenza perché gli venisse salvata la vita e per convincere i giudici, offrì un segreto sbalorditivo:
il metodo per piantare alberi capaci di produrre frutti d’oro.
La notizia giunse al Sovrano, il quale pensò che valesse la pena fare un tentativo.
L’imbroglione spiegò che era pronto a dimostrare la sua straordinaria capacità:
gli sarebbero serviti soltanto un pizzico di polvere d’oro, e una pala.
Il sovrano accettò: “Ma, se non è vero, finirai nelle mani del boia!” disse.
Il mattino seguente, il Re insieme a tutta la sua corte, si ritrovarono nel giardino reale.
L’uomo si inchinò profondamente davanti a tutti i nobili e disse:

“Sua Maestà vedrà quanto è semplice.

Io scaverò una piccola buca nella terra:
vi metterò un pizzico d’oro e, per tre giorni, verserò un secchio d’acqua.
Il terzo giorno l’albero spunterà, e porterà tre frutti d’oro che a loro volta potranno essere seminati e diventare altri alberi, ognuno carico di frutti d’oro!”
“Allora!” si spazientì il Re “Smettila di chiacchierare, e semina l’oro!
Se fra tre giorni da ora non vedrò i frutti d’oro, finirai sul patibolo!”
“Oh, sommo Signore!” piagnucolò il furbo imbroglione “Non posso farlo io direttamente!
Tale segreto funzionerà solo a una condizione:
la mano che seminerà l’oro dovrà essere totalmente innocente e non aver mai commesso nulla di ingiusto!

In caso contrario il prodigio non avverrà.

Per questo motivo, come Sua Maestà potrà ben comprendere, non mi è possibile utilizzare il segreto da solo, per me stesso.
Ma, Sua Maestà è nobile e clemente, pertanto potrà compiere questo gesto.”
Il Re afferrò la vanga, ma gli venne in mente quello che aveva commesso durante l’ultima guerra in difesa del regno.
“Le mie mani grondano di crudeltà, compiute in guerra verso i nemici!
Renderei vana la magia.
È bene che ci provi qualcun altro.”
Il Sovrano fece un cenno verso il Ministro del Tesoro, ma il Ministro, invece di avvicinarsi, si ritrasse.
“Oh magnifico Sovrano, ti ho sempre servito fedelmente, ma una volta, una sola volta, mi è occorso un incidente increscioso nella camera del Tesoro:
un pezzo d’oro è rimasto attaccato alla suola delle mie scarpe, e così…”
“Va bene!” brontolò il Re “Sarà il mio incorruttibile Giudice supremo a impugnare la pala!”

Il Giudice rifiutò, con un inchino:

“Volentieri lo farei, Sire.
Tuttavia in questo momento sta per iniziare un importante processo a cui non posso assolutamente mancare… Scusatemi!”
Il Re si voltò a destra e a sinistra, e vide che piano piano, Ministri, gentiluomini, consiglieri, e cortigiani, se l’erano squagliata.
Allora si mise a ridere e, rivolto all’imbroglione, disse:
“Me l’hai fatta, furbo delinquente!
Così, ora so per certo che nessuno è innocente.
Neppure io!
Ho capito la lezione:
prendi i tuoi soldi, vattene, e non farti mai più vedere!”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il boscaiolo e la principessa


Il boscaiolo e la principessa

C’era una volta un giovane boscaiolo che, un giorno, andò in città al castello del Re, per vendere un po’ di legna.
Caricò quindi il carretto, con fascine e tocchi di legna da ardere, e partì.
Lungo il tragitto si fermò sulla riva di un fiume per far bere un sorso d’acqua al cavallo; d’un tratto si accorse che in mezzo alle canne, che crescevano sulla sponda, c’erano tre pesciolini che boccheggiavano:
erano rimasti incastrati e non riuscivano più a nuotare.
Il boscaiolo, che voleva molto bene agli animali, prese allora una ciotola dal suo zaino e con molta delicatezza vi fece scivolare dentro uno alla volta i pesciolini e li liberò nel fiume:
“Ciao pesciolini!
Fate più attenzione la prossima volta!”
Poco dopo salì sul suo carretto e si rimise in cammino.
Era una bella giornata soleggiata e il boscaiolo era di ottimo umore.
Mancava ancora un’ora all’arrivo e decise allora di fermarsi per mangiare un po’ di pane e del formaggio che aveva nel suo zaino.

Sul ciglio del sentiero c’era un grande masso sotto un albero.

Slegò il cavallo così che potesse mangiare l’erba che c’era lì intorno e lui si sedette sul masso.
Mangiò il suo panino con grande appetito, si rimise in piedi e si scrollò di dosso le briciole di pane.
Molte formichine si erano già raggruppate per recuperare le briciole e portarle nel loro formicaio.
Il boscaiolo si mise a osservarle incuriosito:
“Buon appetito formichine!” disse sorridendo.
Seguì la carovana con lo sguardo e si accorse ben presto che si interrompeva vicino la ruota del carretto.
Si rese subito conto che aveva ostruito con la ruota l’ingresso del formicaio, creando panico tra le piccole operaie.
Dispiaciuto per l’accaduto, si adoperò subito per liberare l’ingresso del formicaio, spostando la ruota e liberando l’ingresso dalla terra che era caduta dentro.
Subito dopo riprese il viaggio.
Finalmente arrivò in città e si diresse verso il castello per vendere lì la sua legna.
Bussò alla porta riservata ai mercanti e aprì un servitore: “Chi è?”

“Sono il boscaiolo e sono qui per vendere la legna!”

Il servitore fece entrare il boscaiolo e il suo carretto e lo condusse nel cortile interno per scaricare la legna.
Lui vuotò il carretto e aspettò di venir pagato.
Si mise a girovagare per il cortile e si avvicinò all’albero che era al centro.
Sentiva un debole pigolio e incuriosito si mise a cercare da dove proveniva.
Poco sotto l’albero c’erano tre piccoli di gazza che erano caduti dal nido che si trovava su un ramo.
Pigolavano disperatamente: erano affamati e spaventati.
Il boscaiolo prese un pezzo di pane che aveva con se, lo sbriciolò e diede da mangiare le briciole agli uccellini.
Una volta sfamati, li prese e li rimise nel nido.
La principessa era affacciata alla finestra e da lì vide il giovane boscaiolo che nutriva gli uccellini e li salvava.
Piacevolmente colpita, decise di dover conoscere più da vicino il giovane del cortile.
Finse di essere una serva e andò nel cortile:
era emozionata perché da vicino il giovane boscaiolo era molto più carino.

“Buongiorno giovane, che fate qui?”

Il boscaiolo si voltò e vide una bellissima ragazza con lunghi capelli, occhi grandi e sorridenti e una bocca color di ciliegia.
Si innamorò di lei a prima vista e rispose balbettando:
“Sono un boscaiolo e sono venuto a portare la legna.”
“Ho visto che avete salvato la vita a quei poveri uccellini.”
Il boscaiolo rispose umilmente:
“Chiunque lo avrebbe fatto al mio posto, chi non si adopererebbe per aiutare dei poveri uccellini indifesi?”
In quel momento arrivò il servitore per pagare il boscaiolo ed esclamò:
“Principessa!
Cosa fate qui in cortile così abbigliata?
Ah, se lo venisse a sapere vostro padre!”
La principessa pregò il servitore di mantenere il segreto e si ritirò nelle sue stanze, non prima di aver salutato il boscaiolo.
Mentre rientrava in camera la principessa si rese conto di essersi innamorata del boscaiolo a prima vista:
era, sì, di umili origini,

ma da come si era comportato con gli uccellini si capiva che aveva un animo nobile.

Sapeva però che era un amore impossibile perché il re, suo padre, non avrebbe mai acconsentito ad un matrimonio con un uomo che non fosse un principe.
Soffriva così tanto per questo amore impossibile che si ammalò e nessun medico di quelli a corte riuscì a lenire il suo dolore, perché non ci sono medicine che possono guarire un cuore innamorato.
I medici dissero al re che, il malore della principessa, veniva dal profondo del cuore, solo lei poteva decidere di guarire.
Mentre tornava nella sua casa, il boscaiolo non poteva non pensare alla dolce principessa, al suono melodioso della sua voce:
peccato che fossero riusciti a scambiarsi così poche parole!
Passava intere giornate a chiedersi come fare per poter conquistare il suo cuore, ignorando che i suoi sentimenti fossero ricambiati.
Intanto le condizioni della principessa si aggravarono e il padre, disperato, si recò nella stanza della principessa e le disse:
“Figlia mia, cosa posso fare per aiutarti?
Farò tutto ciò che vuoi e che è in mio potere per poter far guarire il tuo cuore.”
Con un filo di voce la principessa disse:
“Il mio cuore appartiene al boscaiolo.
Se non potrò vivere con lui, io morirò.”
“Figlia mia, non puoi sposare un semplice boscaiolo, tu sei la figlia del re!” esclamò il re.
“Non posso vivere senza il mio amore!” disse la principessa con un filo di voce.

Il re sospirò e lasciò la stanza.

Era combattuto, non poteva vedere la figlia morire ed allo stesso tempo non poteva tollerare l’idea di dare la sua unica figlia in sposa a un semplice boscaiolo.
Alla fine decise di dare al boscaiolo una possibilità:
se avesse superato tre prove alle quali lo avrebbe sottoposto, avrebbe potuto avere in sposa la principessa.
Il boscaiolo venne fatto chiamare al cospetto del Re che gli offrì la mano della principessa, a condizione che lui se ne mostrasse degno.
L’araldo poi illustrò le prove che avrebbe dovuto superare.
La prima prova consisteva nel recuperare un anello che era stato gettato in un punto imprecisato del fiume.
Il boscaiolo aveva un solo giorno per provare a trovare l’anello:
se avesse fallito, avrebbe dovuto dire addio alla sua amata.
Il boscaiolo era deciso a riuscire nell’impresa perché amava tanto la sua principessa, ma era disperato perché non sapeva nuotare.
Era seduto sulla riva del fiume tenendosi la testa tra le mani quando scorse nell’acqua tre pesciolini:
erano i pesciolini ai quali aveva salvato la vita il giorno che andò in città.
Uno di loro aveva in bocca un piccolo oggetto luccicante:
era l’anello!
I pesciolini lo stavano ringraziando per averli aiutati!

Il boscaiolo era commosso e stupito.

Recuperò l’anello dalla bocca del pesciolino e corse al castello per consegnarlo al re.
La prima prova era stata superata.
La principessa era stata informata di quello che stava accadendo dalla sua fida ancella e, quando seppe che la prima prova era stata superata, cominciò a stare un po’ meglio.
Il giorno dopo fu il momento della seconda prova:
il boscaiolo venne condotto nel cortile del castello, quel cortile che vide nascere l’amore tra lui e la principessa.
Su un lato del cortile c’erano dieci sacchi di grano e dieci servitori.
Ad un cenno del re, i servitori rovesciarono i dieci sacchi di grano per tutto il cortile e l’Araldo spiegò che il boscaiolo avrebbe dovuto raccogliere tutti i chicchi di grano:
aveva tempo fino all’alba del giorno dopo.
I chicchi erano ovunque nel cortile, tra la ghiaia, i fili d’erba, nascosti nei più piccoli anfratti.
L’entusiasmo che aveva per il superamento della prima prova pian piano svanì lasciando nuovamente posto allo sconforto.
Per quanto velocemente raccogliesse il grano, difficilmente sarebbe riuscito a portare a termine la prova entro i tempi stabiliti.
Era oramai calato il sole, al castello dormivano tutti e il boscaiolo era ancora in alto mare, quando, da sotto la porta, vide una processione di formiche:

erano tantissime!

Erano le formiche del formicaio che aveva salvato dalla distruzione ed erano lì a ringraziarlo per aver salvato la loro vita!
Le formichine iniziarono a raccogliere i chicchi di grano e a riporli nei sacchi; grazie al loro olfatto riuscivano a scovare anche i chicchi di grano che erano nascosti nei posti dove il boscaiolo mai avrebbe potuto trovarli.
Prima dell’alba ogni singolo chicco di grano era stato recuperato e anche la seconda prova era stata superata.
E la principessa migliorò ancora un po’.
Era giunto il momento della terza e ultima prova.
Se il boscaiolo l’avesse superata, finalmente i due innamorati avrebbero potuto coronare il loro sogno d’amore.
L’araldo iniziò a spiegare l’ultima prova.
Il boscaiolo avrebbe dovuto portare al Re una delle mele d’oro che crescevano sull’albero magico che si trovava in cima alla montagna incantata.
Tutti sapevano che coloro che erano partiti per la montagna incantata non avevano fatto ritorno e lo sapeva anche il boscaiolo.
Si incamminò verso la montagna incantata e, arrivato quasi a metà strada, vide arrivare in volo tre uccelli.

Erano le gazze che aveva salvato e che ora erano cresciute.

Avevano udito della prova che doveva superare e avevano deciso di ringraziare il giovane boscaiolo andando a prendere la mela d’oro.
Infatti una di loro aveva, stretta nel becco, la mela preziosa e la diede al giovane che non poteva credere ai suoi occhi.
Prese la mela e corse verso il castello per consegnare la mela al Re e per poter finalmente abbracciare la sua amata.
La principessa guarì e finalmente i due innamorati poterono sposarsi con la benedizione del Re.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Le sette giare ed il barbiere


Le sette giare ed il barbiere

Molti anni fa c’era un barbiere.
Era il barbiere del re.
Egli viveva in una piccola casetta con la moglie.
Non erano ricchi, ma non erano neppure poveri.
Ogni mese il re gli pagava le sue prestazioni e con quel denaro acquistavano tutto quello di cui avevano bisogno.
Tuttavia, il barbiere non era felice.
Egli voleva diventare ricco.
“Risparmia più soldi che puoi!” diceva alla moglie.
“Tu devi avere più monili d’oro.
Quando avremo risparmiato abbastanza, ti comprerò una bella collana.
Voglio che tu sembri la moglie di un uomo ricco!”
Così i due risparmiarono quanto più soldi potevano.
Quando ne ebbero a sufficienza, andarono insieme dall’orefice e acquistarono una collana d’oro.
La donna era monto compiaciuta.
“Adesso cominci a sembrare la moglie di un uomo ricco.” le disse il barbiere.
Ma il barbiere non era ancora soddisfatto.

Egli desiderava possedere più oro.

Una sera fece una passeggiata nel bosco vicino a casa.
Si sedette sotto un albero, e come al solito, cominciò a pensare all’oro.
“Vorrei possedere più oro!” diceva fra sé.
In quell’istante sentì una voce.
Sembrava provenire dalla cima dell’albero.
“Barbiere, barbiere!” chiamò la voce.
“Vuoi diventare ricco?
Vuoi dell’oro?”
“Sì, sì!” urlò il barbiere.
“È così!
Voglio diventare ricco!
Voglio dell’oro!”
“Quanto oro vuoi?” chiese la voce.
“Vanno bene sette giare d’oro?”
“Sì, sì!” urlò il barbiere.
“Sette giare vanno bene!
Voglio sette giare d’oro!”

“Va bene.” replicò la voce.

“Vai a casa barbiere, troverai le sette giare che ti aspettano!”
L’uomo saltò in piedi e corse a casa.
“Sarà vero?” si chiedeva.
“Forse stavo solo sognando.
Sette giare d’oro.
Ma pensaci!”
Il barbiere correva verso casa.
“Moglie, moglie!” chiamò, appena giunse alla casetta.
La donna si affrettò verso la porta.
Sorrideva felice.
“Moglie, hai visto qualcosa?” le chiese.
“Vieni a vedere!” lei rispose.
Lo accompagnò nella stanza.
Sì, sul pavimento c’erano sette giare!
“Sai cosa c’è nelle giare, moglie?” le chiese.
“Oro, mio caro.
Oro!
Ora ti faccio vedere!”
Il barbiere prese la prima giara e sollevò il coperchio.

Era pieno d’oro.

“Vedi moglie?” esclamò il barbiere.
“Ora siamo ricchi.
Abbiamo sette giare piene d’oro!”
Sentendosi felice ed eccitato il barbiere cominciò a ballare per la stanza.
Sua moglie, seduta sul pavimento, cominciò a sollevare i coperchi delle giare, una per una, per vedere l’oro che vi era contenuto.
“Uno, due, tre, quattro, cinque, sei… ” contava mentre apriva i coperchi.
“Sono piene d’oro… Che meraviglia!”
Quando aprì la settima giara, emise un’esclamazione di sorpresa.
L’ultima giara era mezza vuota.
“Questa è mezza vuota!” esclamò.
“Cosa?” esclamò il barbiere.
“Come mai questa giara è mezza vuota?”
Il barbiere e la moglie osservavano tristemente le sette giare.
“Bene, bene, non si può far nulla, credo!” disse il barbiere alla fine.
“Ma perché dovremmo tenerla mezza vuota, moglie?
Riempiamola, così sarà come le altre!”
“Riempirla?” disse sua moglie.

“Con cosa la riempiremo?”

“Come, con dell’oro, naturalmente!” rispose il barbiere.
“Dove troveremo abbastanza oro?” ella replicò.
“Bene, risparmieremo di più!” disse il marito.
“E inoltre ci sono i tuoi monili d’oro.
Potremo cominciare con quelli.
Chiederò all’orefice di fonderli nuovamente.
Così potremmo mettere l’oro nella giara.”
“Ma, marito,” ella obbiettò, “dicevi che volevi che sembrassi la moglie di un uomo ricco!”
“Sei una stupida!” replicò il barbiere.
“È vero che i ricchi danno alle loro moglie dei gioielli la indossare, ma questi non sono dei ricconi.
Quelli veramente ricchi tengono il loro oro in giare, proprio come queste.
Quando avremo sette orci pieni d’oro saremo ricchissimi!”
Il barbiere portò i gioielli della moglie dall’orefice.
Questi li fuse in lingotti ed il barbiere li ripose nella settima giara.
Tuttavia la giara non era completamente piena.
“Non spendere così tanti soldi, donna.” le diceva il barbiere.
“Mangiamo troppo.

Compra meno cibo.

Così risparmieremo più denaro!”
La coppia cominciò a mangiare sempre di meno.
Entrambi diventarono magri.
Il re si accorse che il suo barbiere era diventato molto magro e sembrava sempre preoccupato.
“Qual è il tuo problema, barbiere?” un giorno gli chiese il re.
“Perché in questi giorni sei sempre così triste?
Sei anche molto dimagrito.
Sei malato?”
“No, no, vostra maestà!” replicò il barbiere “Non sono malato.
Sono preoccupato per i soldi, ecco tutto!”
“Vedo,” rispose il re “ti servono più soldi?”
“Sì, ecco di cosa ho bisogno, più soldi!” disse il barbiere.
“Bene,” disse il re “ti raddoppio lo stipendio.
Va bene?”
“Oh sì, grazie Vostra maestà!” esclamo il barbiere con gioia.
“Adesso tutto andrà per il meglio.”
Il barbiere cominciò a risparmiare sempre più soldi.

Egli acquistò sempre nuovo oro, ma la giara non si riempiva mai.

“Compra meno cibo,” disse il barbiere alla moglie “come possiamo comprare più oro se spendi così tanto per mangiare?”
Il re notò che il barbiere continuava ad apparire triste e preoccupato.
“Barbiere,” esordì il re un giorno “ti ho raddoppiato lo stipendio ma tu sembri sempre preoccupato.
Diventi sempre più magro.
Qual è il motivo?”
Il barbiere non sapeva cosa dire.
Come poteva spiegare al re che voleva oro, sempre più oro, null’altro che oro?
Egli non aveva fatto parola a nessuno delle sette giare.
Improvvisamente il re parlò ancora.
“So cosa ti succede!” urlò il re.
“Sono le sette giare.
Hai ricevuto le sette giare, non è vero?”
Il barbiere rimase attonito.
“Come, come lo sapete, Vostra maestà?” gli chiese.

Il re rise.

“Lo so,” rispose “perché anche a me sono state offerte una volta.
Ho udito una voce in un albero che me le offriva.”
“Non le avete accettate, allora?” gli chiese l’uomo.
“Sì, le ho accettate,” rispose il re “ma mi sono accorto immediatamente che qualcosa non andava.
La voce mi offrì sette orci pieni d’oro, ma trovai che la settima era piena a metà!”
“È così,” esclamò il barbiere “la settima giara era mezza vuota!”
“Così tornai dalla voce nell’albero,” continuò il re “la settima giara è mezza vuota!” dissi.
“Va bene,” replicò la voce “la settima giara è sempre mezza vuota.”
“Cosa successe allora?” domandò il barbiere.
“Allora,” continuò il re “chiesi alla voce se l’oro poteva essere speso o conservato nei contenitori.”
“E cosa rispose?” chiese il barbiere ansiosamente.
“Non mi rispose nulla!” rispose il re, “Così andai a casa, mi sedetti a riflettere sulle giare!”
“Sì?” disse il barbiere.
“Improvvisamente,” continuò il re “capii cosa intendeva la voce quando diceva la settima giara è sempre mezza vuota.
Significava che per quanto mi impegnassi per riempirla, non sarebbe mai potuta essere colmata.
Compresi che mi era una trappola tesa, per farmi desiderare sempre più oro.
Fino a quando la giara non fosse stata riempita, non si sarebbe mai sopito il mio desiderio per l’oro.”
“Una trappola!” esclamò il barbiere.

“Sì,” continuò il re “era una trappola.

Ma lo compresi.
Non mi feci prendere al laccio.
La settima giara era la “giara del desiderio” e più ottieni l’oro che desideri, e più aumenta il tuo desiderio.”
“Come usciste dalla trappola?” chiese il barbiere.
“È stato molto semplice,” replicò il re, “andai ancora una volta all’albero e dissi alla voce: “Riprenditi le tue sette giare d’oro. Non le voglio!”
“E cosa successe?” chiese il barbiere.
“Bene!” disse la voce.” rispose il re.
“Le riprenderò indietro.” E quando tornai a casa, le giare erano sparite!”
“Così la settima giara non può essere riempita.” disse il barbiere, pensieroso.
“Ne siete veramente sicuro, Vostra maestà?”
“Su questo non ci sono dubbi!” replicò il re.
“Rendi quelle giare, barbiere, prima che sia troppo tardi.

Sei magro e malato.

Quale bene ti potrà venire da questo desiderio per sempre più oro?
Rendi quelle giare, ti dico, prima di incappare in problemi ancora più gravi.”
Il barbiere era molto spaventato dalle parole del re.
Corse ancora una volta dall’albero nella foresta e chiese alla voce di riprendersi le sette giare.
“Tutto bene, lo farò!” rispose la voce.
Quando il barbiere tornò a casa, le sette giare erano sparite.
E con quelle, naturalmente si era volatilizzato tutto l’oro che il barbiere aveva risparmiato… e anche tutti i gioielli di sua moglie!

Brano tratto dal libro “Il canto degli uccelli. Frammenti di saggezza nelle grandi religioni.” di Anthony De Mello