Il contadino che vendette la mucca a Sant’Antonio

Il contadino che vendette la mucca a Sant’Antonio

C’era una volta un contadino proprio scemo, che aveva una moglie intelligente.
Era lei a portare avanti la casa, comprava e vendeva, organizzava il lavoro nella fattoria e si preoccupava che tutto procedesse sempre al meglio.
Un bel giorno, però, si fece male ad un piede, tanto da non riuscire a camminare, e dovette rimanere a casa.
Proprio in quei giorni doveva essere venduta una mucca e, per questa ragione, fu il contadino a dover portare la mucca al mercato.
La moglie lo aveva ammonito di non vendere la mucca al di sotto di 160 fiorini e di guardarsi dai compratori che parlavano troppo.

Infatti questi non avrebbero certamente comprato nulla.

Le occorreva il denaro per l’affitto, altrimenti avrebbe rimandato volentieri l’affare, poiché non credeva che il suo stupido marito fosse capace di portare a buon termine la vendita.
Al mercato molti compratori cercarono di convincere il contadino.
Egli si ricordò di sua moglie e non diede la mucca a nessuno.
Così dovette riportare la sua mucca di nuovo a casa.
Aveva già paura che la moglie gli dicesse che era scemo.
Cammin facendo arrivò in un villaggio, ad una chiesa che era aperta:
“Insomma,” pensò, “darò un’occhiata qui dentro; forse ci trovo un compratore!”
Proprio in quel giorno aveva avuto luogo un pellegrinaggio per sant’Antonio, la cui statua si trovava nella chiesa, e per questo la porta della chiesa era ancora aperta.

Era, però, già così tardi che non vi era più nessuno in chiesa.

Il contadinotto entrò con la sua mucca e legò la bestia ad un banco.
Lui andò più avanti, perché aveva notato uno che stava lì in piedi e non diceva una parola, cioè la statua di sant’Antonio.
Poiché Antonio era rappresentato insieme ad un maiale, il contadino lo prese per un porcaro.
Che se ne stesse così zitto, gli parve buona cosa.
Ad un certo punto iniziò lui a parlare con la statua.
Gli offrì la sua mucca.
Però, dato che Antonio non rispondeva proprio, si arrabbiò e lo colpì con il proprio bastone.
In quel preciso istante, di fronte ai piedi di Hannes, cadde un sacco di denaro:
“Beh,” disse, “sapevo che volevi comprare la mia mucca.
Se avessi aperto la bocca, non ti avrei picchiato!”
Contento raccolse il denaro, lasciò la chiesa e tornò a casa.
Rientrato a casa, lanciò il denaro alla moglie contento.
Da quel momento in poi, lei non avrebbe più potuto dire che fosse uno scemo.

La moglie si meravigliò poiché il denaro era molto.

Hannes le raccontò solamente di aver venduto la mucca ad un porcaro, il quale aveva gettato la borsa del denaro ai suoi piedi, senza nemmeno mercanteggiare.
Dopo che Hannes ebbe lasciato la chiesa, arrivò il sagrestano per chiudere le porte.
Vide la mucca legata e notò che tutti i suoi risparmi, nascosti dentro la statua di sant’Antonio, erano spariti.
Chiamò il parroco e gli raccontò della sua sciagura.
Aveva messo al sicuro da sua moglie il denaro dentro la statua di Antonio; la moglie, altrimenti, l’avrebbe speso a larghe mani.
Il parroco disse che doveva prendere la mucca e dire alla moglie che era un suo regalo.
Il sagrestano tornò a casa con la mucca e la moglie si meravigliò molto per un regalo così grande, dato che il parroco era parsimonioso e, inoltre, che non aveva grandi possibilità.
Il sagrestano, però, le tolse ogni dubbio dicendole di chiedere lei stessa al parroco.

La mucca, quindi, finì nella stalla, la donna se ne rallegrò e l’accudì bene.

Il lavoro le divenne poco a poco divertente e, invece della solita chiacchierata di fronte ad una tazza di caffè o al correre da una vicina all’altra, era continuamente indaffarata con la mucca.
La mucca dava molto latte, poiché era una bella bestia e la donna, che prima spendeva il denaro con leggerezza, divenne parsimoniosa, quando vide come fosse difficile guadagnare qualcosa.
In questo modo aveva presto messo da parte abbastanza denaro per comprare una seconda mucca.
Più tardi comprarono anche un pezzo di terra e oggi il sagrestano è un benestante con una stalla piena di bestiame e molta terra.
Anche la fattoria di Hannes andò in seguito bene, poiché sua moglie ebbe a disposizione più denaro.
Da quel momento non osò più rimproverarlo di essere scemo, anche se lui non era meno fannullone di prima.

Brano senza Autore

Il pellegrino ed il barcaiolo (I remi “Fede” e “Opere”)

Il pellegrino ed il barcaiolo (I remi “Fede” e “Opere”)

Un giorno, un uomo si stava dirigendo in pellegrinaggio verso un paese lontano!
Mentre era in cammino, solitario, verso il luogo di destinazione giunse presso la riva di un fiume.
Non sapendo come continuare il suo viaggio a causa delle profonde acque notò poco distante un barcaiolo che,

con la sua piccola imbarcazione,

svolgeva il proprio lavoro trasportando i passanti da una riva all’altra del fiume!
Il pellegrino, dopo essersi informato dal barcaiolo sul prezzo del trasporto, si accomodò tranquillamente sulla barca, per essere trasportato sulla sponda opposta del fiume.
Mentre si trovavano nel centro del fiume, il pellegrino notò che i remi della barca erano incisi da un’iscrizione a grandi caratteri!

Il primo remo portava la scritta “fede” mentre il secondo “opere.”

L’uomo, mosso da curiosità, domandò al barcaiolo quale fosse il significato di tali incisioni!
E, senza dire neanche una parola, il barcaiolo tirò sopra la barca il remo con la scritta “opere” e, remando solo con l’altro, la barca incominciò a girare su se stessa.
Poi portò sull’imbarcazione il remo con la scritta “fede” e, gettato in acqua quello delle “opere”, anche questa volta la barca girò su se stessa!
A questo punto, sotto lo sguardo attento del pellegrino, il barcaiolo fece scendere in acqua tutti e due i remi e, finalmente,

l’imbarcazione riprese la giusta direzione per raggiungere la meta.

Il pellegrino annuì pensieroso e disse:
“Adesso capisco!”

Brano senza Autore

I due frati e la porta

I due frati e la porta

Sulle pagine di un vecchio libro della biblioteca del monastero, due monaci avevano letto che esiste un luogo, ai confini del mondo, dove cielo e terra si toccano.
Decisero di partire per cercarlo e promisero a se stessi di non tornare indietro finché non lo avessero trovato.
Attraversarono il mondo intero, scamparono a innumerevoli pericoli, sopportarono tutte le terribili privazioni e sacrifici che comporta un pellegrinaggio in tutti gli angoli dell’immensa terra.
Non mancarono neppure le mille seducenti tentazioni che possono distogliere un uomo dal raggiungere la sua meta.

Le superarono tutte.

Sapevano che nel luogo che cercavano avrebbero trovato una porta:
bastava bussare e si sarebbero trovati faccia a faccia con Dio.
Trovarono la porta.
Senza perdere tempo, con il cuore in gola, bussarono.
Lentamente la porta si spalancò.

Trepidanti i due monaci entrarono e…

si trovarono nella loro cella, nel loro monastero.

Un giorno che ricevette degli ospiti eruditi, Rabbi Mendel di Kozk li stupì chiedendo loro a bruciapelo:
“Dove abita Dio?”
Quelli risero di lui:
“Ma che ti prende?
Il mondo non è forse pieno della sua gloria?”.

Il Rabbi diede lui stesso la risposta alla domanda:

“Dio abita dove lo si lascia entrare!”
Ecco ciò che conta più di tutto:
lasciar entrare Dio.
Ma lo si può lasciar entrare solo la dove ci si trova, e dove ci si trova realmente, dove si vive, e dove si vive una vita autentica.
“Io sto alla porta e busso.” dice Dio nella Bibbia.

Brano tratto dal libro “L’importante è la rosa.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

La leggenda dei Fichi del Papa

La leggenda dei Fichi del Papa

Una leggenda narra che ad una delegazione di cittadini di Castelli di Monfumo, dovendosi recare in pellegrinaggio a Roma, venne offerta la possibilità di essere accolti dal Papa, in via straordinaria e in udienza privata,
Gli abitanti di questa piccola frazione in provincia di Treviso erano considerati laboriosi e devoti.

I preparativi per questo evento furono intensi.

Dopo lunghe riflessioni pensarono di portare al Papa, come dono più significativo della loro terra, i bellissimi fichi fioroni.
Il giorno dell’udienza gli inservienti del papa, nell’aprire l’involucro che conservava i fichi, constatarono che erano marci ed emanavano un cattivo odore.
Di conseguenza cacciarono i Castellani in malo modo, umiliandoli.
Il Papa, che era un sant’uomo, li richiamò dopo essere stato informato dell’accaduto.

Disse loro:

“Vi ringrazio e vi lodo per quello che volevate donarmi.
Nelle vostre intenzioni volevate offrirmi il frutto più dolce della vostra terra.
Per imparare a giudicare come San Pietro, sto iniziando a valutare anche i propositi e per questa ragione concedo, come premio, a tutto il paese l’indulgenza plenaria dei vostri peccati.”
Tornati a casa chiamarono la varietà in questione i Fichi del Papa e nei ristoranti del luogo, durante la stagione estiva, vengono serviti come tali.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il giovanotto ed i “giudizi”

Il giovanotto ed i “giudizi”

Cera una volta, tanti anni fa, un giovanotto di un paese dell’Agordino, forte e bellissimo ma non molto intelligente.
Raggiunta l’età per fidanzarsi, i suoi genitori, preoccupati, chiesero consiglio al vecchio e saggio parroco del paese.
Questo, dopo un lungo colloquio, consigliò ai genitori di far intraprendere al loro figlio un pellegrinaggio a Padova da Sant’Antonio, chiedendo ospitalità lungo la strada ed affidandogli anche una prova da superare.

Preparato l’occorrente per il pellegrinaggio,

quando arrivò il momento della partenza, gli consegnarono una scatoletta con dentro i “giudizi” (in realtà la scatola non conteneva altro che un grillo) da non aprire mai.
Percorso un lungo tratto di strada ed in prossimità del tramontar del sole, il giovanotto chiese ospitalità nella zona appena raggiunta.
Una coppia di contadini, ascoltata la storia del ragazzo,

gli diede la possibilità di riposarsi in un loro fienile.

Dopo aver accettato ed esser rimasto solo, l’aitante giovanotto, sopraffatto dalla curiosità, aprì la scatola e la cosa misteriosa saltò fuori e scomparve rapidamente.
Spaventato per la perdita, cercò la cosa misteriosa per diverse ore, ma rendendosi conto di non essere riuscito a ritrovarla, usando un forcone, buttò giù dal fienile tutto il fieno già riposto.

Al mattino la coppia di contadini gli chiese come mai avesse causato quel disastro,

ed il giovanotto rispose di aver perso i “giudizi.”
I proprietari, rimasti senza parole, sia per la risposta che per il gesto compiuto, esclamarono con rammarico:
“Ce ne siamo resi conto!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il monaco povero ed il monaco ricco

Il monaco povero e il monaco ricco

In una città c’erano due monasteri.
Uno era molto ricco, mentre l’altro era poverissimo.
Un giorno, uno dei monaci poveri si presentò nel monastero dei ricchi per salutare un amico monaco che viveva là.

“Per un po’ non ci vedremo più, amico mio.”

disse il monaco povero, “Ho deciso di partire per un lungo pellegrinaggio e visitare i cento grandi santuari:
accompagnami con la tua preghiera perché dovrò valicare tante montagne e guadare pericolosi fiumi.”
“Che cosa porti con te, per un viaggio così lungo e rischioso?” chiese il monaco ricco.
“Solo una tazza per l’acqua e una ciotola per il riso.” disse sorridendo il monaco povero.

L’altro si meravigliò molto e lo guardò severamente:

“Tu semplifichi un po’ troppo le cose, caro mio!
Non bisogna essere così sventati e sprovveduti.
Anch’io sto per partire per il pellegrinaggio ai cento santuari, ma non partirò di certo finché non sarò sicuro di avere con me tutto quello che mi può servire!”
Un anno dopo, il monaco povero tornò a casa e si affrettò a visitare l’amico ricco per raccontargli la grande e ricca esperienza spirituale che aveva potuto fare durante il pellegrinaggio.

Il monaco ricco dimostrò solo un’ombra di disappunto quando dovette confessare:

“Purtroppo io non sono ancora riuscito a terminare i miei preparativi!”

Brano tratto dal libro “Il canto del grillo.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

La bambola di sale

La bambola di sale

Una bambola di sale voleva ad ogni costo il mare.
Era una bambola di sale, ma non sapeva che cosa fosse il mare.
Un giorno decise di partire.
Era l’unico modo per soddisfare la sua esigenza.
Dopo un interminabile pellegrinaggio attraverso territori aridi e desolati, giunse in riva al mare e scoprì qualcosa di immenso, affascinante e misterioso nello stesso tempo.
Era l’alba, il sole cominciava a sfiorare l’acqua accendendo timidi riflessi, e la bambola non riusciva a capire.
Rimase lì impalata a lungo, solidamente piantata al suolo, la bocca aperta.
Dinanzi a lei, quell’ estensione seducente.

Si decise.

Domandò al mare:
“Dimmi chi sei?”
“Sono il mare.” rispose.
“E che cos’è il mare?” chiese la bambola di sale.
“Sono io!” rispose il mare.
“Non riesco a capire, ma lo vorrei tanto.
Spiegami che cosa posso fare.” esclamò la bambola.
“E’ semplicissimo: toccami…” disse il mare.
Allora la bambola si fece coraggio.

Mosse un passo e avanzò verso l’acqua.

Dopo parecchie esitazioni, sfiorò quella massa con un piede.
Ne ricavò una strana sensazione.
Eppure aveva l’impressione di cominciare a comprendere qualcosa.
Allorché ritrasse la gamba, si accorse che le dita dei piedi erano sparite.
Ne risultò spaventata e protestò:
“Cattivo!
Che cosa mi hai fatto?
Dove sono finite le mie dita?”
Replicò imperturbabile il mare:
“Perché ti lamenti?
Semplicemente hai offerto qualche cosa per poter capire.
Non era quello che chiedevi?

L’altra patì:

“Sì veramente, non pensavo, ma…”
Stette a riflettere un po’.
Poi avanzò decisamente nell’acqua.
E questa, progressivamente, la avvolgeva, le staccava qualcosa, dolorosamente.
Ad ogni passo, la bambola perdeva qualche frammento.
Ma più avanzava, più si sentiva impoverita di una parte di sè, e più aveva la sensazione di capire meglio.
Ma non riusciva ancora a dire cosa fosse il mare.
Cavò fuori la solita domanda:
“Che cosa è il mare?”
Un’ ultima ondata inghiottì ciò che restava di lei.
E proprio nell’ istante in cui scompariva, perduta nell’onda che la travolgeva e la portava chissà dove, la bambola esclamò:
“Sono io!”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il barilotto

Il barilotto

Tempo fa, in una terra lontana, viveva un signore potente e famoso in ogni angolo del regno.
Sull’orlo di una nera scogliera aveva fatto costruire una roccaforte così solida e ben armata, da non temere né re, né conti, né duchi, né principi, né visconti.
E questo possente signore aveva un bell’aspetto, nobile e imponente.
Ma nel suo cuore era sleale, astuto e ipocrita, superbo e crudele.
Non aveva paura né di Dio né degli uomini.
Sorvegliava come un falco i sentieri e le strade che passavano nella regione e piombava sui pellegrini e mercanti per rapinarli.
Aveva da tempo calpestato tutte le promesse e le regole della cavalleria.

La sua crudeltà era divenuta proverbiale.

Disprezzava apertamente la gente e le leggi della Chiesa.
Ogni Venerdì santo invece di digiunare e rinunciare a mangiare carne organizzava grandi festini e lauti banchetti per i suoi cavalieri.
Si divertiva a tiranneggiare vassalli e servitù.
Ma un giorno, durante un combattimento, un colpo di balestra lo ferì gravemente ad un fianco.
Per la prima volta, il crudele signore provò la sofferenza e la paura.
Mentre giaceva ferito, i suoi cavalieri gli fecero balenare davanti agli occhi la gola spalancata e infuocata dell’inferno a cui era sicuramente destinato se non si fosse pentito dei suoi peccati e confessato in chiesa.

“Pentirmi io? Mai!

Non confesserò neppure un peccato!” tuttavia il pensiero dell’inferno gli provocò un po’ di spavento salutare.
A malincuore gettò elmo, spada e armatura e si diresse a piedi verso la caverna di un santo eremita.
Con tono sprezzante, senza neppure inginocchiarsi, raccontò al santo frate tutti i suoi peccati:
uno dietro l’altro, senza dimenticarne neppure uno.
Il povero eremita si mostrò ancora più afflitto:
“Sire, certamente hai detto tutto, ma non sei pentito.
Dovresti almeno fare un po’ di penitenza, per dimostrare che vuoi davvero cambiare vita!”
“Farò qualunque penitenza.
Non ho paura di niente, io!
Purché sia finita questa storia!” replicò il signore.
“Digiunerai ogni Venerdì per sette anni…!” disse allora il santo eremita.

“Ah, no! Questo puoi scordartelo!” rispose il crudele signore.

“Vai in pellegrinaggio fino a Roma…” suggerì allora l’eremita.
“Neanche per sogno!” esclamò il cavaliere.
“Vestiti di sacco per un mese…” proseguì l’eremita.
“Mai!” continuò il crudele signore.
Il superbo cavaliere respinse tutte le proposte del buon frate, che alla fine propose:
“Bene, figliolo.
Fa’ soltanto una cosa:
vammi a riempire d’acqua questo barilotto e poi riportamelo!”
“Scherzi?
È una penitenza da bambini o da donnette!” sbraitò il cavaliere agitando il pugno minaccioso.
Ma la visione del diavolo sghignazzante lo ammorbidì subito.
Prese il barilotto sotto braccio e brontolando si diresse al fiume.
Immerse il barilotto nell’acqua, ma quello rifiutò di riempirsi.
“È un sortilegio magico,” ruggì il penitente, “ma ora vedremo!”

Si diresse verso una sorgente:

il barilotto rimase ostinatamente vuoto.
Furibondo, si precipitò al pozzo del villaggio.
Fatica sprecata!
Provò ad esplorare l’interno del barilotto con un bastone:
era assolutamente vuoto.
“Cercherò tutte le acque del mondo!” sbraitò il cavaliere, “Ma riporterò questo barilotto pieno!”
Si mise in viaggio, così com’era, pieno di rabbia e di rancore.
Prese ad errare sotto la pioggia e in mezzo alle bufere.
Ad ogni sorgente, pozza d’acqua, lago o fiume immergeva il suo barilotto e provava e riprovava, ma non riusciva a fare entrare una sola goccia d’acqua.
Anni dopo, il vecchio eremita vide arrivare un povero straccione dai piedi sanguinanti e con un barilotto vuoto sotto il braccio.
Le lacrime scorrevano sul suo volto scavato.
Una lacrima piccola piccola scivolando sulla folta barba finì nel barilotto.
Di colpo il barilotto si riempì fino all’orlo dell’acqua più pura, più fresca e buona che mai si fosse vista.

Brano tratto dal libro “Parabole e storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero

Vivere, non sopravvivere. Uccidete quella mucca.

Vivere, non sopravvivere.
Uccidete quella mucca.

Un monaco durante il suo pellegrinaggio venne ospitato da una famiglia di contadini.
Gli offrirono un pezzo di formaggio e un po’ di latte, ma rimase in forte imbarazzo nel vedere che queste brave persone erano davvero poverissime.
Il monaco chiese come facessero a tirare avanti in quella capanna isolata e senza risorse di alcun genere.
La moglie del contadino rispose che, grazie ad una mucca che mungono ogni mattina, vendevano il latte alle famiglie che abitavano nelle vicinanze e sopravvivevano risparmiando i pochi soldi ricavati dalla vendita e mangiando un po’ di formaggio preparato con il siero.

La mattina dopo il monaco disse al contadino e sua moglie:

“Ho pensato tutta la notte a cosa posso fare per voi e… vi dico di uccidere la vostra mucca subito!”
Il contadino e la moglie sorpresi dalle parole del monaco si disperarono e si misero a piangere.
Erano molto affezionati all’animale, ma sapevano in cuor loro che il monaco aveva ragione e, pur con la morte nel cuore, condussero la mucca al precipizio dietro la casa e la buttarono giù uccidendola,

mentre il monaco riprese il suo viaggio.

Dopo due anni il monaco tornò a far visita alla famiglia di contadini e quello che vide una situazione completamente diversa:
al posto di una fattoria diroccata c’era una bellissima villa con giardino, allevamenti di animali, frutteti, orti e un bellissimo lago dove nuotavano pesci di ogni genere.
Quando il capofamiglia vide il monaco lo abbracciò in lacrime ringraziandolo del suo consiglio che gli aveva cambiato la vita!
Venne accolto dai padroni di casa e gli fu offerto ogni ben di Dio.
Sorpreso e felice che questi contadini avessero stravolto fino a quel punto il loro tenore di vita chiese di raccontargli come avessero fatto.

Da quando non c’era più la mucca,

ogni mattina, si alzavano con la forte motivazione di doversi trovare un modo per guadagnarsi da vivere, e questo gli permise di conoscere gente nuova e affrontare situazioni che furono il motivo della loro fortuna.
Il capofamiglia non si era infatti mai reso conto che la mucca non gli permetteva di vivere ma solo di sopravvivere

Storia Zen
Brano senza Autore, tratto dal Web

La sfida del Re ai suoi tre figli


La sfida del Re ai suoi tre figli

Un grande re aveva tre figli, e voleva sceglierne uno come erede.
Era in difficoltà, perché tutti e tre erano molto intelligenti, molto coraggiosi.
Chi scegliere?
Si rivolse dunque a un saggio, che gli suggerì un’idea!
Il re tornò a palazzo e convocò i tre figli.
Diede a ciascuno di loro una borsa contenente dei semi, e disse loro che sarebbe partito per un pellegrinaggio:
“Starò via qualche anno: uno, due, tre, forse di più.
E per voi questa sarà una prova: quando torno, mi dovrete ridare questi semi.
E chi di voi li proteggerà meglio, sarà il mio erede!”
Poi partì per il pellegrinaggio.

Il primo figlio pensò:

“Cosa dovrei fare con questi semi?”
E convinto di fare la cosa migliore, per proteggerli meglio da qualsiasi cosa, li chiuse in uno scrigno di ferro, in modo da poterli rendere intatti al ritorno del padre.
Il secondo pensò:
“Se li rinchiudo come ha fatto mio fratello, moriranno.
E un seme morto non è affatto un seme.”
Mio padre potrebbe obiettare:
“Io ti ho dato dei semi vivi, che potevano crescere, mentre questi sono morti:

ora non potranno più crescere.”

Per cui andò al mercato e li vendette, e conservò il denaro, pensando:
“Quando mio padre tornerà, andrò al mercato, comprerò nuovi semi e gliene ridarò di migliori.”
Ma fu il terzo a fare la cosa migliore.
Andò in giardino e li seminò.
Tre anni dopo, quando il padre tornò, il primo figlio aprì lo scrigno.
Quei semi erano tutti morti, puzzavano, e il padre disse:
“Cosa? Sono forse questi i semi che ti ho dato? Avevano la possibilità di fiorire e donare una fragranza squisita, mentre questi puzzano; no, questi non sono i miei semi!”
Andò dal secondo figlio che si precipitò al mercato, comprò semi nuovi e tornò a casa, dicendo: “Ecco i tuoi semi!”

E il padre commentò:

“La tua idea è migliore di quella di tuo fratello, ma non sei ancora abile come io vorrei che fossi!”
Quando andò dal terzo, il padre sperava e trepidava al pensiero di ciò che aveva potuto fare.
E il terzo figlio lo condusse in giardino dove erano spuntate milioni di piante, e milioni di fiori.
Il figlio disse:
“Questi sono i semi che mi hai dato.
Non appena le piante saranno adulte, li raccoglierò e te li restituirò.
Adesso stanno ancora crescendo!”
Il re disse:
“Tu sei il mio erede.
Ecco come ci si deve comportare con i semi!”

Brano di Osho Rajneesh