Noi dobbiamo correre il rischio!

Noi dobbiamo correre il rischio!

Ridere, è rischiare di apparire matti!
Piangere, è rischiare di apparire sentimentali!
Tendere la mano, significa rischiare di impegnarsi!

Mostrare i sentimenti, è rischiare di esporsi!

Far conoscere le proprie idee ed i propri sogni, è rischiare di essere respinti!
Amare, è rischiare di non essere contraccambiati!
Vivere, è rischiare di morire!

Sperare, è rischiare di disperare!

Tentare, è rischiare di fallire!
Ma noi dobbiamo correre il rischio!
Il più grande pericolo nella vita è quello di non rischiare.

Colui che non rischia niente…

Non fa niente!
Non ha niente!
Non è niente!

Brano di Joseph Rudyard Kipling

La lepre ed il ghiacciolo

La lepre ed il ghiacciolo

Sui verdi fianchi di una balza delle Alpi, sotto un roccione sporgente, c’era la tana di una lepre di montagna.
Quella lepre ogni tanto faceva capolino.
Come tutti gli animali selvatici, era povera in canna e viveva nutrendosi di ogni sorta di erbaggi.
Aveva però due vestiti, un lusso che la natura le concedeva gratuitamente e senza pericolo di farla diventare ambiziosa.
I fiori, che vedevano la lepre d’estate, conoscevano bene il suo giubbetto color grigio-bruno con la gran toppa bianca sul petto.
I ghiacci e le nevi che la vedevano d’inverno, conoscevano invece il suo candido, attillato pastrano.
Anche i ghiaccioli, che pendevano numerosi e impettiti dall’ingresso della tana, stavano ad ammirarla un po’ invidiosi per ore e ore, mentre dormiva avvolta nella sua bianca pelliccia.
I fiori che segnavano il tempo di primavera e d’estate non consideravano la lepre un personaggio importante, pensando che avesse, come tutti gli altri animali, un solo vestito; ma le rocce e gli alberi, che la vedevano in tutte le stagioni, sapevano benissimo che i suoi vestiti erano due, e avevano di lei grande stima, perché la ritenevano una bestia facoltosa e tuttavia sempre umile, riservata e gentile.
Sul finire di un inverno, mentre la lepre si preparava a cambiare vestito perché l’aria si era fatta meno cruda e ormai le nevi avevano preso congedo, sul roccione sovrastante la tana si vide un ghiacciolo ostinatamente aggrappato all’orlo della fenditura.

“Non ti decidi ad andartene?” gli chiese un giorno l’abete più vicino.

“I tuoi fratelli sono già partiti da un pezzo!
Finirai col non riuscire a raggiungerli!”
“Andarmene, io?
Io non me ne vado: rimango!
Durante l’inverno non ho fatto altro che sentir decantare la primavera con i suoi colori, l’estate con la sua luce e il vento che sembra una carezza, e la gioia dei fiori e dell’erba, e il cielo tutto lucido e pulito.
Perfino le lepri so che mutano d’abito, come per prepararsi ad una festa.
Perché proprio io non dovrei conoscere tante belle cose, se sono belle davvero?
Ho deciso perciò di restare fino alla primavera, magari fino all’estate!”
“Resta pure, se ci riesci!” replicò l’abete.
“Questo, amico bello, è affar mio!” concluse il ghiacciolo.
Quando l’aria cominciò a intiepidire, il ghiacciolo volle mettersi al riparo dal sole.
Si staccò dalla fenditura e si lasciò cadere in un’incavatura della roccia nella quale il sole non batteva e da cui avrebbe potuto assistere comodamente allo spettacolo atteso.
Ma quando si fu fermato, sentì che era caduto addosso a qualcosa.
“Che maniera villana di presentarsi!” brontolò quel qualcosa.
“Sono veramente mortificato!” esclamò il ghiacciolo, “Non avevo visto che c’era lei.

Se permette, anzi, mi presento:

io sono il ghiacciolo, l’ultimo ghiacciolo dell’inverno!”
“Bene, tanto piacere.
Io sono la cartuccia, una cartuccia di fucile da caccia!” spiegò la cartuccia.
“Ma come si trova qui, signora cartuccia?
È carica o scarica?
Che pensa della primavera e dell’estate?
Che programmi ha per il futuro?” domandò il ghiacciolo.
“Ragazzo, non prendiamoci confidenze!” replicò la cartuccia
Era una cartuccia molto dura e superba, e vedeva tutte le cose dal punto di vista delle cartucce.
“Sono di ottima marca, e… carica, naturalmente.
“E se mi trovo qui è solo a causa di uno spiacevole contrattempo.
Durante una battuta, il mio padrone mi ha smarrita, povero sciocco!
Andava a caccia della lepre, e io ero l’ultima cartuccia che gli restava.
La lepre può ringraziare il cielo:
se avesse avuto a che fare con me, non sarebbe scappata di certo.
Con me non si scherza!”

“Ma che le ha fatto la lepre?” chiese il ghiacciolo.

“Niente mi ha fatto.
Ma non doveva nascere lepre.
Se la trovo, l’accoppo!” esclamò la cartuccia.
“Via, c’è posto per tutti a questo mondo…” disse, sicuro, il ghiacciolo.
“Tu non immischiarti nei miei affari privati.
Spero solo che il cacciatore ripassi di qua e che mi veda.
Al resto penserò io!” conclusa la cartuccia.
L’aria si era fatta ormai mite e la lepre vagava nei dintorni in cerca di nutrimento.
Quanto al ghiacciolo, esso faceva una gran fatica a non sciogliersi, e cercava di aderire all’incavatura della roccia nel punto più profondo e più fresco.
Voleva a tutti i costi vedere i fiori dei rododendri, le stelle alpine, il tenero dell’erba novella, il cielo lucido e pulito nello sfolgorio della sua luce cilestrina.
Ormai non doveva attendere molto.
Ma un mattino, svegliandosi, non vide più la cartuccia.
Orme d’uomo, recenti, erano impresse nel suolo ai piedi del roccione.
Il cacciatore era passato di là?
La cartuccia aveva ritrovato il fucile?
Bisognava avvertire la lepre del pericolo, subito!
“Lepre! Lepre! Ehi, lepre!” si mise a gridare il ghiacciolo, “Non uscire!
C’è gente che ti minaccia qua intorno!”

Nessuno rispose.

La lepre certamente era fuori dalla tana.
Al ghiacciolo non rimase che starsene rincattucciato nell’incavatura della roccia a rimuginare pensieri uno più triste dell’altro.
Verso sera, trascinandosi a stento, la lepre fece ritorno alla tana.
Era malconcia, grondava sangue, aveva la febbre.
“Oh, poveretta, poveretta!” esclamò commosso il ghiacciolo che, in fondo, non aveva un cuore di ghiaccio, “Che ti è successo?
Chi è stato?
Quella sciagurata cartuccia?”
“Non so!” rispose la lepre con un filo di voce, cadendo sfinita sulla soglia della tana, “Ho visto una vampa.
Ho udito un sibilo.
Sono ferita.
Ho tanta sete…”
Il ghiacciolo non volle udire altro.
Si rotolò fin sul margine dell’incavatura, sulla roccia ancor calda dal sole, e cominciò rapidamente a sciogliersi.
Cadde in gocce fitte e refrigeranti sulle ferite della lepre, in gocce ristoratrici sulle labbra riarse.
“Chi piange lassù?” balbettò la lepre stupita, riavendosi a poco a poco.
Ma il ghiacciolo non poté più rispondere.
Si era ormai sciolto del tutto, senza neppur pensare che le stelle alpine e i rododendri non erano ancora fioriti, che il cielo non era ancora terso e azzurro.
Tutte cose che dovevano essere belle, oh molto belle, a vedersi.

Brano tratto dal libro “Tutte storie. Per la catechesi, le omelie e la scuola di religione.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Christine e la Vergine del Carmelo

Christine e la Vergine del Carmelo
(Nostra Signora del Monte Carmelo, o anche del Carmine)

Christine era una buona madre ed un’ottima moglie, ma un triste e desolato giorno il suo giovane marito morì.
Un dolore immenso e rovente dilaniò la sua esistenza.
Niente riusciva ad attenuare la sua sofferenza.
Cercava invano brandelli di consolazione nei suoi bambini, che la fissavano smarriti.
Come specchi, gli umidi occhioni le rimandavano l’immagine del loro papà tanto amato.
Neanche più ricordava il tempo in cui lavorava cantando.
Il lavoro, come il pane, le era diventato amaro e pesante.
Una sera, rannicchiata nel letto, piangeva silenziosamente per non svegliare i bambini, quando le apparve una figura dolce e rassicurante, che la prese per mano.

Era la Vergine del Carmelo.

“Vieni con me, Christine!” le disse, “Vieni con me: ti porterò al Fiume della Pace.
Chiunque si bagna nelle sue acque, troverà la consolazione che cerca!”
Camminarono nella notte per molto tempo.
Ad un certo punto, Christine cominciò a sentire il rumore di acque scroscianti.
Un fiume immenso, dalle acque pure e trasparenti, scorreva davanti a loro.
“Immergiti nel Fiume della Pace!” le intimò la Vergine, “Le sue acque scioglieranno la tua pena e la tua angoscia!”

Christine si immerse.

Il suo corpo fu avvolto da un conforto pieno di vigore e serenità, una pace balsamica che guariva le sue ferite.
Dopo quell’immersione salutare, Christine chiese alla Madonna:
“Da dove viene quest’acqua miracolosa?”
“Sono le lacrime del mondo!” rispose la Vergine.
“Tutte le lacrime del mondo si raccolgono in questo fiume.
Lacrime amare, di paura, di dolore, di delusione, di sconfitta, di rabbia.
Ma anche le lacrime più dolci, quelle versate per amore, per il ritorno di una persona cara, per uno scampato pericolo!”
Christine udì i sospiri ed i gemiti di tutti coloro che avevano versato quelle lacrime, e comprese che anche le sue lacrime erano ormai un unico pianto, puro e indistinto, che scorreva nelle acque di quel fiume.

Si sentì in comunione totale con tutto il dolore e la gioia del mondo.

Fu in quel momento che la Madre di Dio le parlò del dolore di suo Figlio.
Christine sentì il pianto di Cristo davanti alla tomba di Lazzaro, il pianto nel Getsemani, il suo pianto ai piedi della croce.
Christine si ridestò improvvisamente, il cuscino era ancora bagnato, ma una pace profonda si era impadronita di lei…

Brano senza Autore

La conchiglia e la beccaccia

La conchiglia e la beccaccia

Su di una spiaggia, una conchiglia si aprì per esporsi ai raggi del sole.
Una beccaccia passò di lì ed allungò il becco a punta con l’intenzione di cibarsi della polpa del mollusco.
La conchiglia, di fronte al pericolo, si richiuse,

imprigionando così il becco dell’uccello.

La beccaccia tentò di liberarsi dalla stretta… inutilmente!
Da parte sua la conchiglia, sempre attaccata al becco del volatile, non rischiava di abbandonare la presa.
Fu così che i due rimasero imprigionati l’uno all’altro.

L’uccello pensava:

“Cederà prima lei, per mancanza di acqua!”
La conchiglia si diceva:
“Aspetterò a liberare il becco, finché lui morirà di sete!”

Ad un certo punto, arrivò un pescatore.

S’impadronì della beccaccia e del mollusco e s’incamminò verso casa, soddisfatto del provvidenziale bottino…

Brano senza Autore

La cocorita Francesca

La cocorita Francesca

In una giungla piena di suoni e di colori, viveva una cocorita che aveva il carattere festoso e vivace come le sue piume azzurre, verdi, oro e arancione.
Si divertiva a svolazzare nell’intrico dei rami, giocava a nascondino con altri pappagallini colorati e con i bengalini candidi.
Si chiamava Francesca e ovunque arrivava riusciva a comunicare la sua intensa gioia di vivere.
Perfino le scimmie, che non sopportavano cocorite e pappagallini, facevano eccezione per la cocorita Francesca.
Era un uccellino felice, grato di essere vivo e di avere avuto in dono un paio di ali per volare e un bellissimo vestito di piume morbido e screziato.
Ogni mattina, appena il sole irrompeva attraverso lo spesso fogliame, si levava il suo grido:

“È una bellissima giornata!

Forza fratelli, non fate i pigroni, spalancate le ali: il cielo è tutto nostro!”
E incominciava a tracciare arabeschi nell’aria, come un fiore multicolore portato dal vento.
Ma, un brutto giorno, il cielo sulla foresta si fece improvvisamente nero e minaccioso come una palude senza sole.
Un silenzio pesante, pieno di paura, attanagliò le creature della giungla.
Le cocorite si strinsero tremanti le une alle altre, a formare una nube tremante.
Un vento violento afferrò le chiome degli alberi più alti e cominciò a scuoterli come se volesse sradicarli, rovesciando nidi e piccoli pappagallini che non sapevano ancora volare.
Poi cominciò la sarabanda dei tuoni e dei fulmini.
Staffilate di fuoco sibilavano dal cielo e colpivano senza pietà i vecchi tronchi, finché improvvisa si levò una fiamma e un albero centenario prese fuoco, urlando il suo dolore, con i rami nodosi levati verso il cielo come un’ultima disperata invocazione di aiuto.
“Il fuoco!
Si salvi chi può!” tutte le lingue animali della foresta gridarono all’unisono il loro terrore.
Migliaia di animaletti cominciarono a fuggire, ma il fumo acre e impenetrabile toglieva loro il respiro, faceva bruciare gli occhi e impediva crudelmente di vedere le vie di scampo.
La cocorita Francesca volava affannata, cercando di guidare i più piccoli e i più spaventati:
“Di qua!
Correte di qua!

Il fiume è da questa parte!”

Molti animali, sentendo il suo grido, si affrettarono a fuggire verso il corso d’acqua, altri invece finivano intrappolati dal fuoco e dal fumo.
Francesca, invece di mettersi in salvo, come tutti gli uccelli, continuava a sorvolare i più sfortunati, cecando un modo per aiutarli.
La disperazione le suggerì un’idea.
Volò sino al fiume che scorreva ai margini della foresta e lì si immerse nelle acque scure.
Poi riemerse con il corpicino intriso d’acqua e volò sull’inferno di fiamme, scrollando e scuotendo le piume per liberare le gocce d’acqua e farle piovere sulle fiamme.
Incurante del pericolo, sfiorando coraggiosamente le fiamme, tornò indietro e si immerse di nuovo nel fiume.
Poi, via!
“A scagliare il suo carico prezioso sul fuoco che continuava a ruggire.
Piccole gemme piovevano sul rogo.
Una cosa insignificante, ma la cocorita coraggiosa e testarda ripeté più e più volte il suo viaggio tra il fiume e le fiamme.
Le sue belle piume erano tutte bruciacchiate e il suo colore era quello della cenere, non riusciva più a tenere aperti gli occhi, ma non le importava.
“Che altro posso fare!” si ripeteva, “Solo volare, ed io volerò fino allo stremo delle forze pur di salvare una sola vita!”
Due occhi acuti, ma vagamente annoiati osservavano tutto dall’alto.
Un gigantesco avvoltoio veleggiava, godendosi lo spettacolo della giungla in fiamme.
Scorse la cocorita impegnata nella sua lotta contro il fuoco e sghignazzò:

“Che stupida bestia.

Come può pensare di domare il fuoco con quattro gocce d’acqua?
Chi ha mai visto una cosa del genere?”
Il coraggio dell’uccellino però lo aveva commosso un po’ e scese in picchiata verso la foresta in fiamme.
La cocorita stava ancora sfidando il fuoco quando vide apparire al suo fianco l’enorme avvoltoio dagli occhi gialli.
“Vattene, uccellino, il tuo compito è senza speranza!” gracchiò imperioso l’avvoltoio, “Cosa possono fare poche gocce d’acqua contro questo inferno?
Vola lontano prima che sia troppo tardi!”
“Non posso.
Devo fare qualcosa, devo tentare!” rispose la cocorita.
“Guarda in che stato sei!” continuò l’avvoltoio, “Fra un po’ finirai in una fiammata, mi sembri un tizzone affumicato!”
“Riesco ancora a volare…
Qualcosa farò!” replicò la cocorita.
“Ma che ti importa di loro?
Non hanno mai fatto niente per te.” esclamò l’avvoltoio.

“Sono miei amici:

li voglio salvare.” spiegò la cocorita.
La cocorita, stremata e ferita non ascoltava più.
Ostinata, continuava a fare la spola tra l’acqua e il fuoco.
L’avvoltoio, prima di sparire oltre le colonne di fumo, gridò:
“Basta!
Fermati stupida piccola cocorita!
Salva te stessa!”
Francesca era irremovibile.
“Ci mancava anche l’avvoltoio con i suoi consigli!” brontolava, “Consigli!
Anche la nonna e tutti i miei parenti mi direbbero le stesse cose.
Non ho bisogno di consigli, ma di qualcuno che mi aiuti!”
Proprio in quel momento, un gran frullare di ali riempì il cielo.
Una nube colorata, gialla, verde, blu, rossa e bianca si affiancò alla piccola cocorita.
Migliaia e migliaia di cocorite, pappagallini, bengalini, tucani, uccelli piccoli e grandi, si immergevano nell’acqua e andavano a scrollare le piume sul fuoco.
Le fiamme erano violente, ma gli uccelli erano milioni e arrivavano a ondate successive, senza smettere mai.

Come stupito, il fuoco si arrestò.

E cominciò lentamente a sfrigolare e illanguidire.
La cocorita Francesca, insieme alle poche gocce d’acqua che aveva raccolto, scagliò sulle fiamme anche le sue lacrime.
Ma erano lacrime di gioia.
“Grazie.” mormorò e cadde a terra, senza più un filo di forza.
Quando si risvegliò il temporale era scoppiato e l’acqua del cielo stava completando l’opera iniziata dalla coraggiosa cocorita.
“Urrà per Francesca!” gridarono gli abitanti della foresta, che le stavano tutti intorno.
La piccola cocorita aprì gli occhi e disse:
“È una bellissima giornata!”

Brano tratto dal libro “Storie belle e buone.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il gatto e i topi

Il gatto e i topi

In un certo luogo di questo mondo abitava un gatto era il terrore di tutti i topi dei paraggi.
Non li lasciava vivere in pace neppure un istante.
Li inseguiva di giorno e di di notte e così i poveri animaletti non potevano godere un momento di pace.

Il gatto era molto astuto e i topi,

sapendo di non poterlo ingannare, decisero di tenere consiglio.
Si salutarono cordialmente, perché il pericolo rende la gente più amabile, e poi diedero inizio all’assemblea.
Dopo lunghe ore di discussione senza concludere nulla, un sorcio si alzò e chiese silenzio.
Tutti zittirono, perché erano desiderosi di ascoltare le parole di colui che si era alzato in piedi:

chissà, forse aveva la soluzione del problema.

“La cosa migliore sarebbe appendere un sonaglio al collo del gatto; così, tutte le volte che si avvicina, paremmo accorgercene in tempo e scappare!”
I topi si entusiasmarono dell’idea e fecero salti di gioia e corsero ad abbracciare quel topo che aveva suggerito la soluzione, come se fosse un eroe.
Ma, allorché si furono calmati, il sorcio chiese di nuovo silenzio e disse solennemente:

“E chi appenderà il sonaglio al collo del gatto?”

All’udire queste parole, i topi si guardarono l’un l’altro imbarazzati e cominciarono a presentare scuse e a tirarsi fuori, uno alla volta.
In breve marciarono tutti verso casa senza avere concluso nulla.
Perché è molto facile proporre soluzioni; il difficile è assumersi la responsabilità e metterle in pratica, farsi avanti per eseguire un’azione concreta che trasformi in realtà le soluzioni proposte.

Brano senza Autore

Guarda Pin-hua sull’albero

Guarda Pin-hua sull’albero

C’era una volta un uomo che non sapeva far nulla.
A qualunque lavoro si dedicasse, non combinava che disastri.
C’erano da raccogliere i fichi?
Il cesto di Pin-hua (era questo il suo nome) si rovesciava, quando non era lui stesso a cadere dall’albero.
C’era da andare per legna?
I rami che raccattava Pin-hua erano o marci o ancor verdi, quando non si trattava di qualche insonnolito serpente.

Da intagliare il tek?

Alla larga da Pin-hua, poiché lo scalpello gli s’imbizzarriva in mano e non si sapeva dove andasse a colpire.
Pin-hua, insomma, con la sua inettitudine, era un pericolo non solo per sé ma per tutti; ed egli, che non era uno stupido, era il primo a soffrire di questa situazione.
Stava un giorno seduto sotto l’albero sacro del villaggio, quando gli si avvicinò un monaco:
“A che stai pensando?” gli chiese.
“Al fatto che non so far nulla!” rispose.
“Perché ti preoccupi?” gli disse il monaco, “Se non sai far nulla, fallo bene!”
Allora Pin-hua prese una canna e andò a pescare sul molo.
Naturalmente non prese un sol pesce, perché ruppe subito l’amo.
In compenso, meditò a fondo le parole del monaco e prese la sua decisione.

La notte, si arrampicò sull’albero sacro.

Non ne sarebbe mai più disceso.
La gente, un po’ lo compianse, un po’ ne rise, un po’ si preoccupò:
e se si fosse messo a pregare, che guai avrebbe combinato?
Ma Pin-hua non combinò più alcun guaio:
si limitò ad esserci, nel villaggio.
E poco alla volta la gente cominciò a sentire il beneficio di quella presenza.
“Perché te la prendi tanto?” si diceva a chi si affannava oltre misura, “Guarda Pin-hua sull’albero:
non fa nulla eppure trova sempre chi gli offre una ciotola di riso.”
“Perché litigate tra voi?” si diceva a chi si odiava per un palmo di terra, “Guardate Pin-hua sull’albero:

non ha nulla eppure canta dal mattino alla sera.”

“Perché ti arrabbi coi figli?” diceva la moglie al marito, “Guarda Pin-hua sull’albero:
le formiche lo tormentano persino nel sonno, eppure l’hai mai sentito lagnarsi?”
Ma, soprattutto, quando qualcuno faceva male qualcosa, gli si diceva:
“Perché tanta negligenza?
Guarda Pin-hua sull’albero:
non fa niente, ma lo fa bene.”

Brano senza autore

Il libro del tesoro in regalo

Il libro del tesoro in regalo

In una piccola città della Persia, ai tempi del grande scià Selciuk, viveva una vedova che aveva un solo figlio.
Quando si sentì giunta alla fine della vita terrena, la vedova chiamò il figlio e gli disse:
“Abbiamo vissuto di stenti, perché siamo poveri; ma ti affido una grande ricchezza:
questo libro.
Mi venne donato da mio padre e contiene tutte le indicazioni necessarie per giungere a un tesoro immenso.
Io non avevo né la forza, né il tempo per leggerlo, ma ora lo affido a te.

Segui le istruzioni e diventerai ricchissimo.”

Il figlio, passata la profonda tristezza per la perdita della madre, cominciò a leggere quel grosso libro antico e prezioso che iniziava con queste parole:
“Per giungere al tesoro leggi pagina dopo pagina.
Se salti subito alla conclusione, il libro sparirà per magia e non potrai raggiungere il tesoro.”
Proseguiva poi descrivendo la quantità di ricchezze accumulate in un paese lontano, ben custodite in una vasta caverna.
Senonché dopo le prime pagine il testo persiano si interrompeva continuando in lingua araba.
II giovane che già si vedeva ricco, per non correre il pericolo che, facendo tradurre il testo, degli altri venissero a conoscenza del tesoro e se ne impadronissero dandogli false informazioni, si mise a studiare con passione l’arabo, sino a che fu in grado di leggere a perfezione il testo.
Ma ecco che, dopo altre pagine, questo continuava in cinese, e poi ancora in altre lingue che il giovane, con accanimento e pazienza, studiò tutte.
Nel frattempo, per vivere, mise a frutto la sua perfetta conoscenza di quelle lingue e cominciò ad essere noto anche nella capitale come uno dei migliori interpreti, cosicché anche la sua vita divenne meno precaria.

Dopo le molte pagine in varie lingue,

il libro proseguiva ancora con istruzioni per amministrare il tesoro, dopo averlo raggiunto, e il giovane studiò volentieri economia, contabilità, e anche la valutazione dei metalli pregiati, delle pietre preziose, dei beni mobili e immobili per non essere imbrogliato una volta in possesso del tesoro.
Nel frattempo metteva a frutto le sue nuove conoscenze anche per assicurarsi un miglior tenore di vita, tanto che la sua fama di poliglotta esperto di finanza e abile economista giunse fino alla corte dello scià.
Lo scià ordinò che fosse assunto tra i suoi consiglieri e gli affidò dapprima dei piccoli incarichi, poi, conoscendolo meglio, gli confidò alcune missioni difficili e delicate e, alla fine, lo nominò amministratore generale dell’impero.
Il giovane non tralasciava però di continuare la lettura del suo libro, che finalmente si addentrava nel vivo della questione, indicando come bisognava fare per costruire un grande ponte e degli argani, delle macchine per giungere alla caverna, aprire le porte di pietra scartando grandi massi, riempiendo anfratti e avvallamenti per appianare la strada, e altre cose del genere.
Sempre con l’idea di non confidare a nessuno il suo segreto, e quindi di non farsi aiutare da altri, il figlio della vedova, divenuto ormai un uomo colto e rispettato, studiò anche ingegneria e urbanistica, al punto che lo scià, apprezzandone il valore e la cultura, lo nominò ministro e architetto di corte, e infine primo ministro.
Non c’era nel regno un altro uomo tanto colto, pratico e abile in tutte le scienze, come il lettore del “Libro del tesoro.”
Proprio nel giorno in cui sposava la figlia dello scià, il giovane arrivò all’ultima pagina del libro.
Con un po’ di batticuore, afferrò il lembo dell’ultima pagina:
stava per conoscere la rivelazione definitiva.

Lentamente voltò il foglio e… scoppiò in una risata.

Di sorpresa, gioia e gratitudine.
L’ultima pagina era una lastra di metallo perfettamente levigato che faceva da specchio:
nell’ultima pagina il figlio della vedova vide il proprio volto.
Un volto di uomo maturo, consapevole, saggio e destinato ad una grande carriera.
E tutto questo grazie al libro che sua madre gli aveva donato.
Il grande tesoro era lui stesso e il libro l’aveva aiutato a scoprirlo.

Brano tratto dal libro “Nuove storie. Per la scuola e la catechesi.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il guardiano

Il guardiano

Un uomo era profondamente legato al suo maestro.
Su lui vegliava affinché non gli si avvicinasse nessun pericolo.
Il maestro viveva sotto una tenda, circondata da una siepe.
La siepe era circondata da un recinto di bambù, il recinto di bambù da un muro di pietra.
Il guardiano dormiva accanto alla porta del muro di pietra.
Da lì teneva d’occhio la strada e poteva sentire la voce del maestro se lo chiamava da dentro la tenda.
Ma, invecchiando, il suo udito peggiorò.

Così decise di avvicinarsi al recinto di bambù.

Quando anche da lì divenne difficile sentire la voce del maestro, il guardiano si spostò di nuovo, a lato della siepe.
Dopo un po’ di tempo iniziò comunque a svegliarsi la notte in preda alla paura di non aver udito il richiamo del maestro nel momento del bisogno.
Allora si mise a far la guardia proprio davanti alla tenda.
Nel silenzio, riconosceva il respiro del maestro ed era felice di vegliare su di lui.

Ma un giorno si svegliò e non udì più niente.

Preoccupato, si precipitò nella tenda.
Era vuota…
Come aveva potuto distrarsi?
Non se lo sarebbe mai perdonato…

Iniziò a cercare il maestro.

Dalla tenda arrivò alla siepe, dalla siepe al recinto di bambù, dal recinto di bambù al muro di pietra.
Là, sulla porta, stava seduto il maestro, che gli disse tranquillo:
“Vai a riposarti nella tenda adesso.
D’ora in poi sarò io il tuo guardiano!”

Brano senza Autore.

La democrazia e le regole da rispettare

La democrazia e le regole da rispettare

Il Veneto è stato interessato interamente dalla nube radioattiva fuggita dalla centrale nucleare di Chernobyl (Cernobil).
A distanza di anni non è stato fatto ancora un bilancio definitivo della portata e delle conseguenze di tale calamità.
Alcune fonti, ovviamente non confermate, affermano che, in regione, siano presenti minime quantità di sostanze radioattive nei funghi dei nostri boschi.

Ricordo quei giorni di emergenza,

la gente era molto preoccupata ed allarmata, poiché non si poteva stare all’aperto e non si potevano consumare ortaggi a foglia, fragole ed asparagi, prodotti abbondanti in quel momento.
Il divieto era assoluto, soprattutto per i giovani, dato che le conseguenze sarebbero potute perdurare ed emergere negli anni.
Mia nonna, incurante dei divieti e delle nostre perplessità, fece grandi scorpacciate di asparagi e fragole, di cui era ghiotta, usufruendo dei prodotti del nostro orto e dei prodotti degli orti dei vicini, che come noi ne rifiutavano il consumo, convinta a suo dire che, essendo anziana, non correva nessun pericolo.

Il Coronavirus,

che tanto danno e dolore ha causato e sta causando in Italia e nel Mondo, ha invertito la situazione dell’epoca ed ora sono gli anziani a correre i maggiori pericoli, registrando, purtroppo, tanti, troppi, decessi.
Sembra quasi che la natura si stia ribellando perché maltrattata, causando diverse calamità.
Infatti oggi gli uomini non riescono a controllare la loro tecnologia e la loro iper produzione, inquinando sempre di più, colpendo così le fasce deboli della società.

Mia nonna, in quel frangente, non fu responsabile,

dato che avrebbe dovuto dare l’esempio in quanto anziana, astenendosi dal consumare questi prodotti.
Alcuni giovani, altrettanto irresponsabilmente, all’inizio del contagio da Coronavirus, sfidando divieti di assembramento, continuavano ad uscire e a mantenere le loro abitudini, dato che, con il virus, a rischiare non erano loro.
Un grande plauso va fatto, invece, a chi di loro è rimasto chiuso in casa fin da subito, come da ordinanza, cantando e suonando inni di speranza dai balconi.
La democrazia è regola comune sempre; soprattutto nelle emergenze.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno