Tre parole

Tre parole

Un giovane e ambizioso cavaliere era noto per la vita dissoluta e sfrenata.
Un buon frate cercò di farlo riflettere sui rischi che avrebbe corso presentandosi con l’anima cosi carica di peccati all’ultimo giudizio del Signore.
“Non ho nessuna paura!” rispose sprezzante il cavaliere, “So che il Signore è buono e misericordioso.
Poco prima di morire pronuncerò tre parole che mi garantiranno la salvezza eterna.

Dirò:

“Gesù, pietà, perdonami.”
Il frate scosse la testa ed il cavaliere, ridendo, riprese la sua vita depravata.
Un giorno, durante un terribile temporale, cavalcava a spron battuto sulle rive di un fiume gonfio d’acqua.

Non voleva mancare ad una festa.

Un fulmine spaventò il cavallo che lo disarcionò e lo fece piombare nella violenta corrente del fiume.
Le ultime tre parole del cavaliere, prima di morire, furono:
“Crepa bestiaccia infame!”

Brano di Bruno Ferrero

La malattia del pigiama

La malattia del pigiama

Un anziano signore ultraottantenne viveva da solo in una piccola villetta.
Aveva trascorso la propria esistenza da misantropo, sempre chiuso in se stesso, vivendo in mezzo al disordine più totale in compagnia dell’inseparabile gatto.

Da quanto narrava,

aveva sempre goduto di un’ottima salute e l’unica visita medica che ricordava di aver sostenuto era quella per il militare.
Da diversi mesi i servizi sociali del comune lo tenevano d’occhio dato che nell’ultimo periodo usciva poco di casa e, a turno, mandavano dei volontari che con molta discrezione e tatto lo monitoravano, qualora avesse dovuto avere bisogno di qualche bene di prima necessità e anche per mettere un po’ d’ordine in casa.
Una volontaria, entrando in casa durante una di queste visite,

lo trovò sul divano febbricitante e dolorante.

Pensò di accompagnarlo al pronto soccorso perché non seppe dirle chi fosse il proprio medico di famiglia.
Il medico del pronto soccorso che lo visitò lo mise subito in codice rosso e furono effettuati alcuni esami diagnostici di prassi, riscontrandogli diverse patologie gravi in atto.
Il suo ricovero fu la soluzione obbligata e, accompagnandolo al reparto, la volontaria gli chiese:
“Nonno, hai il pigiama?”

L’anziano rispose:

“Mi hanno detto che ho varie malattie, con nomi difficili che hanno a che fare con la matematica, ma quella del pigiama non mi sembra di averla sentita, comunque mi devono fare altri esami specialistici!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La coppia di anziani

La coppia di anziani

In una dacia sperduta nella tundra siberiana, viveva una coppia di anziani coniugi.
Si volevano molto bene ed erano così vecchi che non ricordavano più neanche quando si erano conosciuti.
Così, a chi glielo domandava, dicevano di conoscersi da sempre.
Con gli anni il loro affetto era diventato ancora più grande, ma più grandi si erano fatti anche i loro acciacchi.

L’età cominciava davvero a pesar loro.

Insieme, presto, avrebbero contato due secoli di vita!
E se il giorno era il tempo dedicato ai ricordi, la notte era il tempo dedicato al domani.
Ma che cosa riservava loro il domani?
La sera, a letto, prima di spegnere il lume, si scambiavano il loro bacio della buonanotte; poi, con un gesto simultaneo, mandavano un breve saluto con la mano alla Madonna d’oro che li guardava da un’icona appesa alla parete.

Ognuno si girava poi su un fianco e, in silenzio, iniziava la propria preghiera.

“Oh Madre Divina, fa’ che io abbandoni questa terra prima della mia cara Màrija.
Sarebbe troppo grande dolore sopravvivere a lei!” pregava il marito.
“Oh Madre Divina, fa’ che il mio caro Petrùska abbandoni questa terra prima di me.
Troppo grande sarebbe il suo dolore, se io dovessi andarmene prima di lui!” pregava la moglie.

Se qualcuno avesse udito quella loro intima preghiera,

forse, avrebbe avuto difficoltà a riconoscere in entrambi la stessa intensità d’amore e la loro profonda umiltà.
Una notte, qualcuno venne a bussare alla loro porta ed entrò.
Era l’Angelo della morte che, pietoso, li colse insieme nel sonno.

Brano di Silvia Guglielminetti incluso nel libro “Il secondo libro degli esempi. Fiabe, parabole, episodi per migliorare la propria vita.” Piero Gribaudi Editore.

Il pulcino Calimero

Il pulcino Calimero

Diversi anni fa andai con un mio amico, in treno, alla fiera internazionale di agricoltura a Verona.
L’esperienza di una fiera tematica è unica e soddisfa i gusti più esigenti, con tante novità, dai macchinari agli animali, circondati di tanta bella gente.
Il mio amico andò al settimo cielo quando poté acquistare dei pulcini, sponsorizzati come razza super rustica.
Lo invitai a desistere, visto che portare in treno 22 pulcini era una impresa ardua e avremmo attirato troppo l’attenzione.
Come se non bastasse, aveva anche acquistato e indossato un capello a larghe falde.

Contadini sì, ma non macchiette.

Non mi ascoltò, e con la scatola forata ed il certificato in mano, salimmo sul treno del ritorno all’ora di punta, con molta difficoltà per gli spintoni e per la calca.
Prevedibilmente, la scatola si ruppe in maniera irreparabile ed i pulcini si sparsero per il vagone, causando ilarità tra i passeggeri.
In quello stesso vagone erano presenti anche dei bambini con le loro insegnanti.

Fecero a gara per catturarli in mezzo alle gambe dei passeggeri.

Lo schiamazzo attirò l’attenzione del capotreno che ci disse:
“Voi contadini avete forse preso il mio treno per un pollaio ?”
Risposi alla provocazione e replicai:
“Sarà anche un pollaio, ma credo che lei non abbia mai visto ragazzini così felici per aver potuto tenere in mano un pulcino vivo, per la prima volta nella loro vita!”

Il capotreno non replicò.

Dopo questo simpatico dibattito, il mio amico decise di donare alla scolaresca i pulcini con mille raccomandazioni, suggerendo ai bambini di dare a ciascun pulcino anche un nome.
Quando, ad un certo punto, il più piccolo lo tirò per la giacca e gli disse:
“Signor contadino, potrei avere assieme a questo pulcino giallo anche quello nero, chiamato Calimero, per regalarlo a mia sorella che è allergica ai peluche?”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il quadro “La cosa più bella del Mondo”

Il quadro “La cosa più bella del Mondo”

Un celebre pittore, che aveva realizzato vari lavori di grande bellezza, si convinse che ancora gli mancava di dipingere la sua opera prima.
Si incamminò alla ricerca di un’ispirazione o di un modello, e un giorno, in una strada polverosa, incontrò un anziano sacerdote che gli chiese dove era diretto.
“Non so!” rispose il pittore, “Voglio dipingere la cosa più bella del mondo.

Forse lei può indicarmi dove posso trovarla.”

“È molto semplice.” disse il sacerdote. “In qualsiasi chiesa o nella fede puoi trovare quello che cerchi.
La fede è la più bella cosa del mondo.”
Il pittore proseguì il suo viaggio e incontrò una giovane sposa.
Le domandò se sapeva quale fosse la cosa più bella del mondo.
“L’amore.” rispose la donna, “L’amore fa diventare ricchi i poveri, cura le ferite, fa diventare molto il poco.

Senza amore, non c’è bellezza.”

Il pittore continuò ancora la sua ricerca.
Un soldato esausto incrociò la sua strada, e quando il pittore gli pose la stessa domanda, rispose: “La Pace è la più bella cosa del mondo.
La guerra è la cosa più brutta.
Dove si trova la pace, è sicuro che si troverà anche la bellezza.”
Fede, Amore e Pace.

Come potrei dipingerle?

Pensò tristemente l’artista.
Scuotendo la testa scoraggiato, riprese la direzione di casa.
Entrando nella sua casa, vide la cosa più bella del mondo:
Negli occhi dei figli c’era la Fede, l’Amore brillava nel sorriso della sua sposa.
E qui, nel suo focolare, c’era la Pace di cui gli aveva parlato il soldato.
Il pittore realizzò così il quadro “La cosa più bella del Mondo.”
E, una volta terminato, lo chiamò “La mia casa.”

Brano senza Autore.

Il presepe odoroso

Il presepe odoroso

La magia del Natale una volta era vissuta da tutta la società.
Era la festa della famiglia per eccellenza ed anche la scuola contribuiva a creare l’atmosfera magica, assegnando compiti a tema natalizio.

Era il 1958 e mi ricordo che,

quell’anno in prima elementare a Levada, la maestra aveva fatto la proposta di allestire il presepe in classe portando ognuno una statuina da casa.
Fummo entusiasti dell’idea ma dovemmo spiegare alla maestra che solo pochi di noi avevano le statuine di gesso; i più lo facevano a casa con tutoli, canne, foglie di mais, carta pesta e stoffa essendo il nostro un paese di poveri contadini.
Alla maestra piacque comunque l’idea di realizzarlo con questi materiali e potemmo farci aiutare anche dai rispettivi familiari.

Il presepe risultò bellissimo ed originale,

ma rientrando a scuola dopo le vacanze trovammo la porta e le finestre spalancate e la maestra, con il broncio, che disse con stizza:
“Io sono di città e non sopporto questo odore acre di stalla impregnato nelle vostre statuine, costruite, tra altro, in un luogo poco igienico.”
La capoclasse replicò:
“Ma, signora maestra, anche Gesù bambino nel presepe reale puzzava di stalla!”

La maestra istintivamente disse:

“Hai ragione!
Ma di sicuro a Levada non passano i Re Magi a profumare la nostra scuola con l’incenso!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Non c’è posto per voi…

Non c’è posto per voi…

Guido Purlini aveva 12 anni e frequentava la prima media.
Era già stato bocciato due volte.
Era un ragazzo grande e goffo, lento di riflessi e di comprendonio, ma benvoluto dai compagni.
Sempre servizievole, volenteroso e sorridente, era diventato il protettore naturale dei bambini più piccoli.
L’avvenimento più importante della scuola, ogni anno, era la recita natalizia.
A Guido sarebbe piaciuto fare il pastore con il flauto, ma la signorina Lombardi gli diede una parte più impegnativa, quella del locandiere, perché comportava poche battute ed avere il fisico di Guido.
Avrebbe dato più forza al suo rifiuto di accogliere Giuseppe e Maria, dicendogli:

“Andate via!”

La sera della rappresentazione c’era un folto pubblico di genitori e parenti.
Nessuno viveva la magia della santa notte più intensamente di Guido Purlini.
E venne il momento dell’entrata in scena di Giuseppe, che avanzò piano verso la porta della locanda sorreggendo teneramente Maria.
Giuseppe bussò forte alla porta di legno inserita nello scenario dipinto.
Guido il locandiere era là, in attesa.
“Che cosa volete?” chiese Guido, aprendo bruscamente la porta.
“Cerchiamo un alloggio.” rispose Giuseppe.

“Cercatelo altrove.

La locanda è al completo.” rispose il locandiere.
La recitazione di Guido era forse un po’ statica, ma il suo tono era molto deciso.
“Signore, abbiamo chiesto ovunque invano.
Viaggiamo da molto tempo e siamo stanchi morti!” proseguì Giuseppe.
“Non c’è posto per voi in questa locanda!” replicò Guido con faccia burbera.
“La prego, buon locandiere, mia moglie Maria, qui, aspetta un bambino e ha bisogno di un luogo per riposare.
Sono certo che riuscirete a trovarle un angolino.

Non ne può più!”

A questo punto, per la prima volta, il locandiere parve addolcirsi e guardò verso Maria.
Seguì una lunga pausa, lunga abbastanza da far serpeggiare un filo d’imbarazzo tra il pubblico.
“No! Andate via!” sussurrò il suggeritore da dietro le quinte.
“No!” ripeté Guido automaticamente, “Andate via!”
Rattristato, Giuseppe strinse a sé Maria, che gli appoggiò sconsolatamente la testa sulla spalla, e cominciò ad allontanarsi con lei.
Invece di richiudere la porta, però, Guido il locandiere rimase sulla soglia con lo sguardo fisso sulla miseranda coppia.
Aveva la bocca aperta, la fronte solcata da rughe di preoccupazione, e i suoi occhi si stavano riempiendo di lacrime.

Il finale di Guido

Tutt’a un tratto, quella recita divenne differente da tutte le altre.
“Non andar via, Giuseppe!” gridò Guido qualche istante dopo, “Riporta qui Maria!”

E, con il volto illuminato da un grande sorriso, aggiunse:

“Potete prendere la mia stanza.”
Secondo alcuni, quel rimbambito di Guido Purlini aveva fatto “saltare” la rappresentazione.
Ma per gli altri, per la maggior parte, fu la più “natalizia” di tutte le rappresentazioni natalizie che avessero mai visto.

Brano senza Autore.

L’uomo ed il pettirosso

L’uomo ed il pettirosso

Un uomo trovò un pettirosso fra gli spini e lo catturò, dicendo:
“Che bellezza, me lo porto a casa e me lo faccio allo spiedo!”
Al che il pettirosso gli parlò:
“Che ben magro pasto faresti col mio corpicino minuto!
Se invece mi lasci libero, in cambio ti dirò tre massime di grande valore!”
“Sì, d’accordo,” rispose l’uomo, “ma prima dimmi le massime e poi ti lascerò andare!”

“E come posso fidarmi?

Facciamo così: io ti dico la prima massima mentre mi hai ancora in mano.
Se ti va, mi lasci andare e io volo su quel ramoscello vicino, da dove ti dico la seconda massima, e dove mi puoi anche raggiungere con un salto.
Poi volerò sulla cima dell’albero, e da lì ti dirò la terza massima!”
Così fu convenuto e l’uccellino cominciò:
“Non ti lamentare mai di ciò che hai perso, tanto non serve a nulla.”
“Bene,” disse l’uomo, “mi piace!” e liberò il pettirosso che dal ramoscello vicino disse la seconda massima:
“Non dare mai per scontato ciò che non hai potuto verificare di persona!”
Dopo di che il pettirosso spiccò il volo, e mentre raggiungeva la cima dell’albero gridò tra i gorgheggi:

“Uomo sciocco e stupido!

Nel mio corpo è nascosto un bracciale tutto d’oro, tempestato di diamanti e rubini.
Se mi avessi aperto, a quest’ora saresti un uomo ricco!”
Al che l’uomo, disperato, si buttò a terra stracciandosi le vesti e gridando:
“Povero me, in cambio di tre massime ho perduto un tesoro favoloso!
Me disgraziato, perché ho dato retta al pettirosso!
Perché questo insulso scambio per tre sole massime…
Ma, un momento!
Ehi, pettirosso: me ne hai dette solo due; dimmi almeno anche la terza!”

E il pettirosso rispose:

“Uomo sciocco, tre volte sciocco: ti ho pur detto come prima massima di non lamentarti per ciò che hai perso, tanto è inutile.
Ed ecco che sei per terra a lamentarti.
Poi ti ho detto di non dare mai per scontato ciò che non hai potuto verificare di persona, ed ecco che tu credi a quel che ti ho detto senza averne la benché minima prova.
Ti sembra forse che il mio piccolo corpo possa racchiudere un grosso bracciale?
Se non sai fare uso delle prime due massime, come puoi pretendere di averne una terza?”
E volò via.

Brano tratto dal libro “Saggezza islamica.” di Gabriel Marcel. Edizione Paoline.

Bortolo, i fagioli ed il topolino

Bortolo, i fagioli ed il topolino

Durante la prima guerra mondiale, un giovane fante di nome Bortolo si distinse per coraggio e cameratismo.
Era benvoluto anche dagli altri soldati per la sua ironia e per la goliardia,

usate per rendere meno pesante la vita di trincea.

Quelli che erano insieme a lui raccontavano che “usava” un occhio per piangere le brutture della guerra e l’altro per sorridere alla vita che amava tanto.
Un giorno, mentre si trovava nella retrovia del fronte, gli venne servito nella gavetta un fumante minestrone di fagioli, di cui era particolarmente ghiotto.
Seduto per terra notò in mezzo alle gambe un piccolo topolino morto che prese delicatamente per la coda, lo imbrattò con una cucchiaiata di brodo di fagioli e mostrandolo a tutti esclamò:

“Compagni, oggi si mangia fagioli con della buona carne!”

Tutti ebbero una reazione di disgusto e si rifiutarono di continuare a mangiare i fagioli.
Così lui poté abbuffarsi delle razioni rifiutate.
La cosa non passò inosservata e insospettì il tenente che ravvisò nella sua bravata del procurato disfattismo.

Subito gli intimò di ingoiare il topolino,

altrimenti lo avrebbe deferito alla corte marziale.
Quella volta Bortolo pianse con tutti e due gli occhi ed ingoiò il topo.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Conosci il tuo valore! (L’orologio da polso)

Conosci il tuo valore!
(L’orologio da polso)

Un padre prima di morire disse a suo figlio:
“Questo è un orologio che tuo nonno mi ha regalato.

Ha più di 200 anni,

ma prima che te lo dia, vai al negozio di orologi e digli che voglio venderlo, vedi quanto ti offrono.”
Il figlio fece come disse il padre e ci andò.
Ritornò da suo padre, e disse:
“L’orologiaio vuole offrirmi 5 euro perché è vecchio!”

Il padre allora rispose:

“Vai al Museo e mostra quell’orologio.”
Non perse neanche un secondo, corse immediatamente al museo.
Tornato da suo padre gli disse:
“Mi hanno offerto un milione di euro per questo orologio!”

Il padre lo guardò sorridendo, dicendogli:

“Volevo farti sapere che il posto giusto valorizza il tuo valore nel modo giusto, non stare nel posto sbagliato e arrabbiati se non lo fai.
Chi sa il tuo valore è chi ti apprezza, non stare in un posto che non ti soddisfa!”
Conosci il tuo valore.

Brano senza Autore, tratto dal Web