Il Re, il mendicante e la mela

Il Re, il mendicante e la mela

Ogni mattina, il potente e ricchissimo re di Bengodi riceveva l’omaggio dei suoi sudditi.
Aveva conquistato tutto il conquistabile e si annoiava un po’.
In mezzo agli altri, puntuale ogni mattina, arrivava anche un silenzioso mendicante, che porgeva al re una mela.

Poi, sempre in silenzio, si ritirava.

Il re, abituato a ricevere ben altri regali, con un gesto un po’ infastidito, accettava il dono, ma appena il mendicante voltava le spalle cominciava a deriderlo, imitato da tutta la corte.
Il mendicante non si scoraggiava.
Tornava ogni mattina a consegnare nelle mani del re il suo dono.
Il re lo prendeva e lo deponeva macchinalmente in una cesta posta accanto al trono.

La cesta conteneva tutte le mele portate dal mendicante con gentilezza e pazienza.

E ormai straripava.
Un giorno, la scimmia prediletta del re prese uno di quei frutti e gli diede un morso, poi lo gettò sputacchiando ai piedi del re.
Il sovrano, sorpreso, vide apparire nel cuore della mela una perla iridescente.
Fece subito aprire tutti i frutti accumulati nella cesta e trovò all’interno di ogni mela una perla.

Meravigliato, il re fece chiamare lo strano mendicante e lo interrogò.

“Ti ho portato questi doni, sire,” rispose l’uomo, “per farti comprendere che la vita ti offre ogni mattina un regalo straordinario, che tu dimentichi e butti via, perché sei circondato da troppe ricchezze.
Questo regalo è il nuovo giorno che comincia!”

Brano tratto dal libro “Cerchi nell’acqua” di Bruno Ferrero

Credo in te, amico. Credo nel tuo sorriso…


Credo in te, amico.
Credo nel tuo sorriso…

Credo in te, amico.
Credo nel tuo sorriso,
finestra aperta nel tuo essere.

Credo nel tuo sguardo,

specchio della tua onestà.

Credo nella tua mano,
sempre tesa per dare.

Credo nel tuo abbraccio,

accoglienza sincera del tuo cuore.

Credo nella tua parola,
espressione di quel che ami e speri.

Credo in te, amico,

così, semplicemente,
nell’eloquenza del silenzio.

Poesia di Elena Oshiro

Il segreto del vecchietto


Il segreto del vecchietto

Un giovane medico si trovava in un lebbrosario in un’isola del Pacifico.
Un incubo di orrore.
Solo cadaveri ambulanti, disperazione, rabbia, piaghe e mutilazioni orrende.
Eppure, in mezzo a tanta devastazione, un anziano malato conservava occhi sorprendentemente luminosi e sorridenti.
Soffriva nel corpo, come i suoi infelici compagni, ma dimostrava attaccamento alla vita, non disperazione, e dolcezza nel trattare gli altri..
Incuriosito da quel vero miracolo di vita, nell’inferno del lebbrosario, il giovane medico volle cercarne la spiegazione:
che cosa mai poteva dare tanta forza di vivere a quel vecchio così colpito dal male?

Lo pedinò, discretamente.

Scoprì che, immancabilmente, allo spuntar dell’alba, il vecchietto si trascinava al recinto che circondava il lebbrosario, e raggiungeva un posto ben preciso.
Si metteva a sedere e aspettava.
Non era il sorgere del sole che aspettava.
Né lo spettacolo dell’aurora del Pacifico.
Aspettava fino a quando, dall’altra parte del recinto, spuntava una donna, anziana anche lei, con il volto coperto di rughe finissime, gli occhi pieni di dolcezza.
La donna non parlava.
Lanciava solo un messaggio silenzioso e discreto: un sorriso.
Ma l’uomo si illuminava a quel sorriso e rispondeva con un altro sorriso.
Il muto colloquio durava pochi istanti, poi il vecchietto si rialzava e trotterellava verso le baracche.
Tutte le mattine.
Una specie di comunione quotidiana.
Il lebbroso, alimentato e fortificato da quel sorriso, poteva sopportare una nuova giornata e resistere fino al nuovo appuntamento con il sorriso di quel volto femminile.
Quando il giovane medico glielo chiese, il lebbroso gli disse:

“È mia moglie!”

E dopo un attimo di silenzio:
“Prima che venissi qui, mi ha curato in segreto, con tutto ciò che riusciva a trovare.
Uno stregone le aveva dato una pomata.
Lei tutti i giorni me ne spalmava la faccia, salvo una piccola parte, sufficiente per apporvi le sue labbra per un bacio…
Ma tutto è stato inutile.
Allora mi hanno preso, mi hanno portato qui.

Ma lei mi ha seguito.

E quando ogni giorno la rivedo, solo per lei so che sono ancora vivo, solo per lei mi piace ancora vivere.”

Certamente qualcuno ti ha sorriso stamattina, anche se tu non te ne sei accorto.
Certamente qualcuno aspetta il tuo sorriso, oggi.
E se entri in una chiesa e spalanchi la tua anima al silenzio, ti accorgerai che Dio, per primo, ti accoglie con un sorriso….

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il pappagallo riconoscente


Il pappagallo riconoscente

Il povero pappagallo non ne poteva proprio più.
Era nato per la quiete: e intorno a lui, dalla mattina alla sera, venti, cinquanta, cento pappagalline irrequiete, sventate, pettegole, andavano, venivano, svolazzavano, cicalavano, strillavano senza concedere un istante di pace.
Il pappagallo dovette finalmente risolversi e prese il volo per andar a cercare un cantuccio tranquillo in terra straniera.
Fu proprio fortunato.
Dove capitò, tutti gli animali erano pacifici e tutti gli fecero grande accoglienza, specialmente gli uccelli.
Il pappagallo era beato: quanta quiete!

Quanto silenzio!

Ci si sarebbe fermato tutta la vita; ma non voleva abusare dell’ospitalità, e un giorno a malincuore si congedò:
“Devo ritornare tra i miei.”
Fece i suoi addii e se ne partì.
Era già abbastanza alto e lontano, quando scorse levarsi un denso fumo proprio sui cari luoghi che aveva da poco lasciato.
Tornò subito indietro.

Un grande incendio era scoppiato.

Le fiamme correvano la pianura, risalivano i fianchi dei monti, divoravano foreste, villaggi, campagne.
Il pappagallo, angosciato, vide un laghetto non lontano.
Vi si tuffò, si inzuppò più che poté di acqua, poi volò sul luogo dell’incendio e, scuotendo ali e piume, fece piovere sulle fiamme le gocce d’acqua che lo imperlavano; quindi volò via ancora al laghetto, tornò a tuffarsi, rivolò sulle fiamme e lasciò ricadere le sue scarse gocciole.
E cosi fece non so quante volte.

Lo scorse una scimmia e lo ammonì:

“O pappagallo, come sei sciocco!
Pensi forse di spegnere un incendio che si stende mille miglia, solo con le goccioline d’acqua che puoi raccogliere nel cavo delle tue alucce?”
“Oh,” rispose il pappagallo, “so benissimo che non spegnerò l’immenso incendio!
Ma il buon popolo di questi luoghi mi ha accolto e trattato come un fratello e cerco di dimostrargli per quanto posso tutta la mia gratitudine e la mia pietà.
Non saprei vederlo soffrire tanto, senza portargli il mio soccorso, anche sapendolo inutile.”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il guerriero più degno


Il guerriero più degno

Tre giovani africani furono fatti entrare nella capanna delle riunioni.
Il capo era seduto in fondo, circondato dai vecchi guerrieri.
I ragazzi gli s’avvicinarono.
“Per sei giorni,” egli disse, parlando lentamente, “siete stati lasciati nella foresta per mettere alla prova le vostre capacità, affinché noi potessimo giudicare se siete degni di essere considerati guerrieri.
Siete ritornati sani e salvi, nonostante i mille pericoli.

Ma non basta.

Che cosa avete fatto per meritare il nome di guerrieri?”
Tra l’attento silenzio degli uomini della tribù, i ragazzi narrarono le loro imprese.
Uno aveva ucciso un leopardo, un altro aveva lottato con un pitone.
Solo il terzo dei ragazzi non parlò.
“E tu, Mamadù, che cosa hai fatto?” chiese il capo.
“Ho preso un orcio di miele dalle api selvatiche!” rispose sommessamente Mamadù.

I ragazzi sorrisero.

Che cos’era rubare del miele dalle api?
Ci voleva pazienza, audacia anche, ma non era una prova degna di un guerriero della tribù.
“Perché hai preso il miele e non hai cacciato qualche animale feroce?” chiese il capo.
“Tu sai,” rispose Mamadù, “che i miei genitori sono vecchi e ammalati; dovevo pensare a loro e l’ho fatto portando loro il miele.”

Il capo si alzò.

Tese la lancia verso Mamadù e disse:
“Prendila, perché fra tutti tu sei il più degno.
Prima di essere cacciatore, un uomo deve essere uomo.
E c’è solo un modo per sapere quando egli è tale:
quando sopra ogni cosa egli mette l’amore e il rispetto per i suoi genitori.”

Brano di Alberto Manzi

I tre spaccapietre


I tre spaccapietre

Durante il Medioevo, un pellegrino aveva fatto voto di raggiungere un lontano santuario, come si usava a quei tempi.
Dopo alcuni giorni di cammino, si trovò a passare per una stradina che si inerpicava per il fianco desolato di una collina brulla e bruciata dal sole.
Sul sentiero spalancavano la bocca grigia tante cave di pietra.
Qua e là degli uomini, seduti per terra, scalpellavano grossi frammenti di roccia per ricavare degli squadrati blocchi di pietra da costruzione.
Il pellegrino si avvicinò al primo degli uomini.
Polvere e sudore lo rendevano irriconoscibile, negli occhi feriti dalla polvere di pietra si leggeva una fatica terribile.
Il suo braccio sembrava una cosa unica con il pesante martello che continuava a sollevare ed abbattere ritmicamente.

“Che cosa fai?” chiese il pellegrino.

“Non lo vedi?” rispose l’uomo, sgarbato, senza neanche sollevare il capo.
“Mi sto ammazzando di fatica”.
Il pellegrino non disse nulla e riprese il cammino
S’imbatté presto in un secondo spaccapietre.
Era altrettanto stanco, ferito, impolverato.

“Che cosa fai?” chiese anche a lui il pellegrino.

“Non lo vedi? Lavoro da mattino a sera per mantenere mia moglie e i miei bambini.”, rispose l’uomo.
In silenzio, il pellegrino riprese a camminare.
Giunse quasi in cima alla collina.
Là c’era un terzo spaccapietre.
Era mortalmente affaticato, come gli altri.
Aveva anche lui una crosta di polvere e sudore sul volto, ma gli occhi feriti dalle schegge di pietra avevano una strana serenità.

“Che cosa fai?” chiese il pellegrino.

“Non lo vedi?” rispose l’uomo, sorridendo con fierezza, “Sto costruendo una cattedrale.”
E con il braccio indicò la valle dove si stava innalzando una grande costruzione, ricca di colonne, di archi e di ardite guglie di pietra grigia, puntate verso il cielo.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Gandhi e lo zucchero


Gandhi e lo zucchero

Una nonna trovò l’occasione di portare suo nipote al Mahatma Gandhi.
Il bambino aveva un’attrazione insaziabile per lo zucchero e ciò stava mettendo in pericolo la sua salute.
“Per favore,” supplicando Gandhi “dica a mio nipote che smetta di mangiare lo zucchero, poiché lui la rispetta molto e so che l’ascolterà perché è lei che glielo dice.”

Gandhi allora chiese che si ripresentassero dopo quattro giorni.

Quattro giorni più tardi la nonna ed il nipote ritornarono.
Gandhi guardando fisso negli occhi del ragazzo, gli disse con autorità:
“Smetti di mangiare zucchero, stai ferendo il tuo corpo.”

Dopo un breve silenzio, la nonna domandò a Gandhi:

“Signore, perché ci chiese di aspettare quattro giorni e poi di ritornare?
Questo è lo stesso che poteva dire quattro giorni fa!”

Gandhi rispose:

“Signora, quattro giorni fa io avevo mangiato dello zucchero e non potevo parlare con autorità a suo nipote.
Ora posso, perché sono quattro giorni che non mangio più zucchero.”

Eric Yaverbaum nel suo libro “Segreti della Leadership dei dirigenti che hanno più successo nel mondo” scrive che il loro più grande segreto è quello di guidare con l’esempio.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Le stelle marine


Le stelle marine

Una tempesta terribile si abbatté sul mare.
Lame affilate di vento gelido trafiggevano l’acqua e la sollevavano in ondate gigantesche che si abbattevano sulla spiaggia come colpi di maglio, o come vomeri d’acciaio aravano il fondo marino scaraventando le piccole bestiole del fondo, i crostacei e i piccoli molluschi, a decine di metri dal bordo del mare.
Quando la tempesta passò, rapida come era arrivata, l’acqua si placò e si ritirò.
Ora la spiaggia era una distesa di fango in cui si contorcevano nell’agonia migliaia e migliaia di stelle marine.
Erano tante che la spiaggia sembrava colorata di rosa.
Il fenomeno richiamò molta gente da tutte le parti della costa.
Arrivarono anche delle troupe televisive per filmare lo strano fenomeno.
Le stelle marine erano quasi immobili.

Stavano morendo.

Tra la gente, tenuto per mano dal papà, c’era anche un bambino che fissava con gli occhi pieni di tristezza le piccole stelle marine.
Tutti stavano a guardare e nessuno faceva niente.
All’improvviso, il bambino lasciò la mano del papà, si tolse le scarpe e le calze e corse sulla spiaggia.
Si chinò, raccolse con le piccole mani tre piccole stelle del mare e, sempre correndo, le portò nell’acqua.
Poi tornò indietro e ripeté l’operazione.
Dalla balaustrata di cemento, un uomo lo chiamò:
“Ma che fai ragazzino?”.

“Ributto in mare le stelle marine.

Altrimenti muoiono tutte sulla spiaggia!” rispose il bambino senza smettere di correre.
“Ma ci sono migliaia di stelle marine su questa spiaggia; non puoi certo salvarle tutte.
Sono troppe!” gridò l’uomo.
“E questo succede su centinaia di altre spiagge lungo la costa!
Non puoi cambiare le cose!” proseguì.
Il bambino sorrise, si chinò a raccogliere un’altra stella di mare e gettandola in acqua rispose:

“Ho cambiato le cose per questa qui!”

L’uomo rimase un attimo in silenzio, poi si chinò, si tolse scarpe e calze e scese in spiaggia.
Cominciò a raccogliere stelle marine e a buttarle in acqua.
Un istante dopo scesero due ragazze ed erano in quattro a buttare stelle marine nell’acqua.
Qualche minuto dopo erano in cinquanta, cento, duecento, centinaia di persone che buttavano stelle di mare nell’acqua.
Così furono salvate tutte.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il negozio di musica. (Domani potrebbe essere troppo tardi!)


Il negozio di musica.
(Domani potrebbe essere troppo tardi!)

C’era una volta un ragazzo nato con una grave malattia, una malattia di cui non si conosceva la cura.
Aveva 17 anni, ma poteva morire in qualsiasi momento.
Visse sempre in casa sua, con l’assistenza di sua madre, ma un giorno stanco di stare in casa decise di uscire almeno una volta.
Chiese il permesso a sua madre e lei accettò.
Camminando nel suo quartiere vide diversi negozi e passando per un negozio di musica, guardando dalla vetrina, notò la presenza di una tenera ragazza della sua età.
Fu amore a prima vista.
Aprì la porta ed entrò guardando nient’altro che la ragazza, e avvicinandosi poco a poco, arrivò al bancone dove c’era quell’adorabile fanciulla.
Lei lo guardò e gli disse sorridente:

“Posso aiutarti?”

Nel frattempo egli pensava che era il sorriso più bello che avesse mai visto nella sua vita e sentì il desiderio di baciarla.
Balbettando le disse: “Mi piacerebbe comprare un CD!”
Senza pensarci, prese il primo che vide e le diede i soldi.
“Vuoi che te lo impacchetti?” chiese la ragazza sorridendo di nuovo.
Egli rispose di si annuendo; lei andò nel magazzino, tornò con il pacchetto e glielo consegnò.

Lui lo prese ed uscì dal negozio.

Tornò a casa e da quel giorno in poi andò al negozio ogni giorno per comprare un cd.
Faceva fare il pacchetto sempre alla ragazza e poi tornava a casa per riporlo nell’armadio.
Egli era molto timido per invitarla ad uscire e nonostante provasse non ci riusciva.
Sua madre si interessò alla situazione e lo spronò a tentare, così egli il giorno seguente si armò di coraggio e si diresse al negozio.
Come tutti i giorni comprò un altro cd e come sempre lei gli fece una confezione.
Lui prese il cd e, in un momento in cui la ragazza era distratta, posò rapidamente un foglietto con il suo numero di telefono sul bancone; dopodiché uscì di corsa dal negozio.

Il giorno dopo squillò il telefono.

Sua madre rispose: “Pronto?”
Era la ragazza che chiedeva di suo figlio; la madre afflitta cominciò a piangere mentre diceva:
“Non lo sai?… è morto ieri!”
Ci fu un silenzio prolungato interrotto dai lamenti della madre.
Più tardi la madre entrò nella stanza del figlio per ricordarlo.
Decise di iniziare dal guardare tra la sua roba, aprì l’armadio e con sorpresa si trovò di fronte ad una montagna di cd impacchettati.

Non ce ne era nemmeno uno aperto.

Le procurò una curiosità vederne tanti che non resistette: ne prese uno e si sedette sul letto per guardarlo; facendo ciò, un biglietto uscì dal pacchettino di plastica.
La madre lo raccolse per leggerlo, diceva:
“Ciao, sei bellissimo! Ti andrebbe di uscire con me? TVB… Sofia.”
La madre emozionata ne aprì altri e trovò altri bigliettini: tutti dicevano la stessa cosa.

Brano senza Autore, tratto dal Web

La storia dell’Arcobaleno


La storia dell’Arcobaleno

Una volta, tanti tanti anni fa, tutti i colori del mondo cominciarono a litigare; ognuno sosteneva di essere il migliore, il più importante, il più utile, il preferito.
Il verde disse:
“E’ chiaro che il più importante sono io!
Sono simbolo della vita e della speranza.
Sono il color dell’erba, degli alberi, delle foglie.
Senza di me tutti gli uomini e gli animali morirebbero.”
Il blu lo interruppe:
“Tu stai guardando solo la terra, ma pensa al mare e al cielo.
Io sono il colore delle due cose più belle e più grandi!”

Il giallo rise sotto i baffi:

“Siete tutti così seri!
Io porto il sorriso, l’allegria, il caldo nel mondo.
Io sono il colore del sole, della luna, delle stelle!”
L’arancio alzò la voce e disse:
“Io sono il colore della salute e della forza.
Trasporto tutte le vitamine più importanti.
Pensate alla carota e alla zucca, al mango e alla papaia.”
Il rosso non poté sopportare più a lungo questi discorsi:
“Io sono il sovrano di tutti voi.
Il colore del sangue, e il sangue è vita!
Sono il colore della passione e dell’amore, il colore della rosa, della stella di natale, del papavero.”

Anche il porpora si alzò in tutta la sua altezza.

Era molto alto e parlò con grande enfasi:
“Io sono il colore della sovranità e del potere.
Re, capi e vescovi hanno sempre scelto me perché io sono il segno dell’autorità e della saggezza.
Tutti mi ascoltano e mi obbediscono.”
L’indaco parlò più pacatamente di tutti gli altri, ma con la stessa determinazione:
“Pensate a me.
Sono il colore del silenzio.
Io rappresento il pensiero e la riflessione, la luce del crepuscolo e le acque profonde.”
E così tutti i colori continuarono con le loro vanterie, quando a d un tratto, un tuono potente li fece sussultare.
Dopo un po’ una pioggia torrenziale cominciò a scrosciare.

I colori si acquattarono tutti presi dalla paura e si raccolsero vicini l’uno all’altro per farsi forza.

Allora parlò la pioggia:
“Voi colori siete sciocchi; vi azzuffate, cercando di dominarvi!
Non sapete che è Dio ad avervi creato?
Ognuno con il suo compito unico, diverso, insostituibile.
Egli vi ama tutti, vi vuole tutti.
Prendetevi per mano e venite con me.
Egli vi stenderà tutt’intorno nel cielo in un meraviglioso arco di colori allegri.”
Da quel giorno, ogni volta che piove, Dio mette un arcobaleno lassù in alto.
Quando lo vediamo ci dovremmo ricordare che egli vuole che facciamo pace.

Brano senza Autore, tratto dal Web