La lepre ed il ghiacciolo

La lepre ed il ghiacciolo

Sui verdi fianchi di una balza delle Alpi, sotto un roccione sporgente, c’era la tana di una lepre di montagna.
Quella lepre ogni tanto faceva capolino.
Come tutti gli animali selvatici, era povera in canna e viveva nutrendosi di ogni sorta di erbaggi.
Aveva però due vestiti, un lusso che la natura le concedeva gratuitamente e senza pericolo di farla diventare ambiziosa.
I fiori, che vedevano la lepre d’estate, conoscevano bene il suo giubbetto color grigio-bruno con la gran toppa bianca sul petto.
I ghiacci e le nevi che la vedevano d’inverno, conoscevano invece il suo candido, attillato pastrano.
Anche i ghiaccioli, che pendevano numerosi e impettiti dall’ingresso della tana, stavano ad ammirarla un po’ invidiosi per ore e ore, mentre dormiva avvolta nella sua bianca pelliccia.
I fiori che segnavano il tempo di primavera e d’estate non consideravano la lepre un personaggio importante, pensando che avesse, come tutti gli altri animali, un solo vestito; ma le rocce e gli alberi, che la vedevano in tutte le stagioni, sapevano benissimo che i suoi vestiti erano due, e avevano di lei grande stima, perché la ritenevano una bestia facoltosa e tuttavia sempre umile, riservata e gentile.
Sul finire di un inverno, mentre la lepre si preparava a cambiare vestito perché l’aria si era fatta meno cruda e ormai le nevi avevano preso congedo, sul roccione sovrastante la tana si vide un ghiacciolo ostinatamente aggrappato all’orlo della fenditura.

“Non ti decidi ad andartene?” gli chiese un giorno l’abete più vicino.

“I tuoi fratelli sono già partiti da un pezzo!
Finirai col non riuscire a raggiungerli!”
“Andarmene, io?
Io non me ne vado: rimango!
Durante l’inverno non ho fatto altro che sentir decantare la primavera con i suoi colori, l’estate con la sua luce e il vento che sembra una carezza, e la gioia dei fiori e dell’erba, e il cielo tutto lucido e pulito.
Perfino le lepri so che mutano d’abito, come per prepararsi ad una festa.
Perché proprio io non dovrei conoscere tante belle cose, se sono belle davvero?
Ho deciso perciò di restare fino alla primavera, magari fino all’estate!”
“Resta pure, se ci riesci!” replicò l’abete.
“Questo, amico bello, è affar mio!” concluse il ghiacciolo.
Quando l’aria cominciò a intiepidire, il ghiacciolo volle mettersi al riparo dal sole.
Si staccò dalla fenditura e si lasciò cadere in un’incavatura della roccia nella quale il sole non batteva e da cui avrebbe potuto assistere comodamente allo spettacolo atteso.
Ma quando si fu fermato, sentì che era caduto addosso a qualcosa.
“Che maniera villana di presentarsi!” brontolò quel qualcosa.
“Sono veramente mortificato!” esclamò il ghiacciolo, “Non avevo visto che c’era lei.

Se permette, anzi, mi presento:

io sono il ghiacciolo, l’ultimo ghiacciolo dell’inverno!”
“Bene, tanto piacere.
Io sono la cartuccia, una cartuccia di fucile da caccia!” spiegò la cartuccia.
“Ma come si trova qui, signora cartuccia?
È carica o scarica?
Che pensa della primavera e dell’estate?
Che programmi ha per il futuro?” domandò il ghiacciolo.
“Ragazzo, non prendiamoci confidenze!” replicò la cartuccia
Era una cartuccia molto dura e superba, e vedeva tutte le cose dal punto di vista delle cartucce.
“Sono di ottima marca, e… carica, naturalmente.
“E se mi trovo qui è solo a causa di uno spiacevole contrattempo.
Durante una battuta, il mio padrone mi ha smarrita, povero sciocco!
Andava a caccia della lepre, e io ero l’ultima cartuccia che gli restava.
La lepre può ringraziare il cielo:
se avesse avuto a che fare con me, non sarebbe scappata di certo.
Con me non si scherza!”

“Ma che le ha fatto la lepre?” chiese il ghiacciolo.

“Niente mi ha fatto.
Ma non doveva nascere lepre.
Se la trovo, l’accoppo!” esclamò la cartuccia.
“Via, c’è posto per tutti a questo mondo…” disse, sicuro, il ghiacciolo.
“Tu non immischiarti nei miei affari privati.
Spero solo che il cacciatore ripassi di qua e che mi veda.
Al resto penserò io!” conclusa la cartuccia.
L’aria si era fatta ormai mite e la lepre vagava nei dintorni in cerca di nutrimento.
Quanto al ghiacciolo, esso faceva una gran fatica a non sciogliersi, e cercava di aderire all’incavatura della roccia nel punto più profondo e più fresco.
Voleva a tutti i costi vedere i fiori dei rododendri, le stelle alpine, il tenero dell’erba novella, il cielo lucido e pulito nello sfolgorio della sua luce cilestrina.
Ormai non doveva attendere molto.
Ma un mattino, svegliandosi, non vide più la cartuccia.
Orme d’uomo, recenti, erano impresse nel suolo ai piedi del roccione.
Il cacciatore era passato di là?
La cartuccia aveva ritrovato il fucile?
Bisognava avvertire la lepre del pericolo, subito!
“Lepre! Lepre! Ehi, lepre!” si mise a gridare il ghiacciolo, “Non uscire!
C’è gente che ti minaccia qua intorno!”

Nessuno rispose.

La lepre certamente era fuori dalla tana.
Al ghiacciolo non rimase che starsene rincattucciato nell’incavatura della roccia a rimuginare pensieri uno più triste dell’altro.
Verso sera, trascinandosi a stento, la lepre fece ritorno alla tana.
Era malconcia, grondava sangue, aveva la febbre.
“Oh, poveretta, poveretta!” esclamò commosso il ghiacciolo che, in fondo, non aveva un cuore di ghiaccio, “Che ti è successo?
Chi è stato?
Quella sciagurata cartuccia?”
“Non so!” rispose la lepre con un filo di voce, cadendo sfinita sulla soglia della tana, “Ho visto una vampa.
Ho udito un sibilo.
Sono ferita.
Ho tanta sete…”
Il ghiacciolo non volle udire altro.
Si rotolò fin sul margine dell’incavatura, sulla roccia ancor calda dal sole, e cominciò rapidamente a sciogliersi.
Cadde in gocce fitte e refrigeranti sulle ferite della lepre, in gocce ristoratrici sulle labbra riarse.
“Chi piange lassù?” balbettò la lepre stupita, riavendosi a poco a poco.
Ma il ghiacciolo non poté più rispondere.
Si era ormai sciolto del tutto, senza neppur pensare che le stelle alpine e i rododendri non erano ancora fioriti, che il cielo non era ancora terso e azzurro.
Tutte cose che dovevano essere belle, oh molto belle, a vedersi.

Brano tratto dal libro “Tutte storie. Per la catechesi, le omelie e la scuola di religione.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

I chicchi di frumento

I chicchi di frumento

Erano nati a primavera con i primi raggi del sole in un campo di un luminoso verde tenero!
Tutti nella loro culla, che mamma spiga aveva preparato con cura…
Tanti lettini allineati, che il vento cullava, mentre grilli e cicale cantavano la “ninna nanna”!
Dal verde tenero diventarono di un bel giallo brillante, sempre più grassottelli e chiacchieroni…
Dondolare in cima al lungo stelo della spiga insieme a migliaia di altri chicchi di frumento,
sempre più allegri e rubicondi, era molto divertente!
“Piano, ragazzi!” li ammoniva mamma spiga, “È ora che dimostriate un po’ di maturità:
presto comincerà la mietitura!”
“Che cos’è la mietitura?” chiese allora un chicco.
“È quando cominciate a fare quello per cui siete nati!” rispose la mamma.
In un’assolata giornata di fine Giugno, una grossa macchina rossa passò veloce fra le spighe mature e raccolse i chicchi di grano con la sua grossa bocca spalancata…

“Addio!”

“Arrivederci!”
“Buona fortuna!” si sentiva dire da tutte le parti.
I chicchi di grano furono raccolti in grossi sacchi e poi in enormi depositi!
Addio al sole, al vento, al canto dei grilli…
Nel deposito, era tutto buio!
“Che succederà, adesso?” chiese uno di loro.
Un vecchio topo con gli occhiali che da tempo immemore viveva tra due travi del granaio lo spiegò pazientemente ai più vicini, i quali lo raccontarono a quelli che avevano accanto, e così via…
“La missione dei chicchi di grano è una grande missione!” esordì il vecchio topo, “Seconda, appena, a quella dei topi che, come ognuno sa, sono la razza eletta della Creazione…
Alcuni di voi saranno seminati:
cioè, messi dentro la terra!”
Un brivido passò tra i chicchi.

Poi il vecchio topo continuò:

“Altri saranno macinati!”
Un altro brivido percorse i granelli di frumento.
“Ma diventeranno farina e poi pane profumato o deliziosi biscotti!”
I baffi del topino vibravano di soddisfazione…
Tirò su con il naso e continuò:
“Gli uomini portano il pane a tavola, lo benedicono, lo dividono…
È molto importante per loro: porta gioia, porta la vita!
Sono grandi e grossi grazie al pane… Grazie, a voi!”
I chicchi di grano trattenevano il fiato, coinvolti dalle parole del vecchio topo.
Ora sapevano…
Ed erano orgogliosi della loro missione!
Solo un granello di frumento si lasciò scivolare in fondo al mucchio di chicchi e si nascose in una fessura presente nel pavimento del granaio…
Non voleva essere seminato!
Non voleva morire!
Non voleva essere sacrificato!

Voleva salvarsi…

Non gliene importava niente di diventare pane!
Né di essere portato a tavola!
Né tantomeno di essere benedetto e condiviso…
Non avrebbe mai donato vita!
Non avrebbe mai donato gioia!
Un giorno arrivò il contadino ed iniziò a fare pulizia e, con la polvere del granaio, spazzò via anche l’inutile granello di frumento…

Brano senza Autore

La giornata con i papà

La giornata con i papà

Indossava il vestito più bello, di un luminoso color arancione, aveva i capelli raccolti con un nastro rosso e oro, ed era pronta ad uscire per andare a scuola.
Era la “Giornata con i papà” e tutti i bambini sarebbero dovuti andare a scuola accompagnati dal proprio papà.
Lei sarebbe stata l’unica con la mamma.
La mamma le aveva suggerito di non andare, perché i suoi compagni non avrebbero capito.
Ma la bambina voleva parlare a tutti del suo papà, anche se era un po’ diverso dagli altri.
A scuola c’era una folla di papà che si salutavano un po’ imbarazzati e bambini impazienti che li tenevano per mano.
La maestra li chiamava uno dopo l’altro e ciascuno presentava a tutti il suo papà.
Alla fine, la maestra chiamò la bambina con il vestito arancione e tutti la guardarono, cercando l’uomo che non era là.

“Dov’è il suo papà?” chiese un bambino.

“Per me non ce l’ha!” esclamò un altro.
Dal fondo, una voce brontolò:
“Sarà un altro padre troppo occupato che non ha tempo per venire!”
La bambina sorrise e salutò tutti.
Diede un’occhiata tranquilla alla gente, mentre la maestra la invitava a sbrigarsi.
Con le mani composte e la voce alta e chiara, cominciò a parlare:
“Il mio papà non è qui perché vive molto lontano!

Io, però, so che desidererebbe tanto essere qui con me:

voglio che sappiate tutto sul mio papà e su quanto mi vuole bene!
Gli piaceva raccontarmi le storie e mi insegnò ad andare in bicicletta.
Mi regalava un rosa rossa alle mie feste e mi insegnò a far volare gli aquiloni.
Mangiavamo insieme gelati enormi e, anche se non lo vedete, io non sono sola, perché il mio papà sta sempre con me, anche se viviamo lontani.
Lo so, perché me l’ha promesso lui, che sarebbe stato sempre nel mio cuore!”
Dicendo questo alzò una mano e la posò sul cuore.
La sua mamma, in mezzo alla schiera dei papà, la guardava con orgoglio, piangendo.
Abbassò la mano e terminò con una frase piena di dolcezza:
“Amo molto il mio papà!
È il mio sole e, se avesse potuto, sarebbe stato qui, ma invece è lontano in cielo…
Qualche volta però, se chiudo gli occhi, è come se non se ne fosse mai andato!”
Chiuse gli occhi e la madre, sorpresa, vide che tutti, padri e bambini, avevano chiuso gli occhi.

Che cosa vedevano?

Probabilmente il papà vicino alla bambina.
“So che sei qui con me, papà!” disse la bambina, rompendo il silenzio.
Quello che accadde dopo lasciò tutti emozionati.
Nessuno riuscì a spiegarlo, perché tutti avevano gli occhi chiusi, però sul tavolo ora c’era una magnifica e profumata rosa rossa.
E una bambina aveva ricevuto la benedizione dell’amore del suo papà e il dono di credere che il cielo non è poi così lontano!

Brano senza Autore

L’uomo e la pompa dell’acqua

L’uomo e la pompa dell’acqua

Un uomo si era perso in un territorio pietroso e arido!
Il sole dardeggiava implacabile e rendeva tutto rovente.
L’uomo era allo stremo delle forze!
Poco prima di crollare vide una casupola abbandonata.

Si trascinò, fin là, penosamente!

Davanti alla casa c’era un abbeveratoio malandato con una pompa a mano.
Si buttò sulla maniglia e cominciò ad agitarla come un pazzo.
La pompa cigolava ma non ne uscì una sola goccia d’acqua.
All’ombra della pompa l’uomo notò una brocca di vetro, accuratamente chiusa con un tappo di sughero, e un biglietto infilzato sul tappo!
La brocca era piena d’acqua.
Con le mani tremanti l’uomo si portò il biglietto vicino agli occhi bruciati dal sole e lesse:
“Amico!
Se vuoi che la pompa funzioni devi prima riempirla con tutta l’acqua della brocca.
Alla fine, prima di andartene, ricordati di riempire di nuovo d’acqua la brocca!”
Pensieri contrastanti dilaniarono l’uomo.

Stava morendo di sete:

doveva proprio sprecare tutta quell’acqua e buttarla nella pompa?
Era così arrugginita!
E se non avesse funzionato?
Se avesse bevuto l’acqua della brocca si sarebbe salvato ma, in questo caso, chi fosse arrivato dopo di lui non avrebbe avuto alcuna speranza di salvezza!
Che cosa doveva fare?
Salvarsi o rischiare per dare anche ad altri la possibilità di sopravvivere?
Una voce interiore gli suggerì di rischiare!
Versò di colpo l’acqua della brocca nella pompa e poi si attaccò disperatamente alla leva, manovrando con tutte le forze che gli rimanevano.
La pompa tossicchiò un paio di volte ma poi, dopo uno starnuto, cominciò a buttare acqua fresca e pulita!
“Grazie, grazie!” mormorava l’uomo dissetandosi e facendosi scorrere l’acqua addosso.
Prima di ripartire riempì accuratamente la brocca e la tappò.

Poi aggiunse una riga al biglietto:

“Credici amico: funziona!
Dai tutto alla pompa:
te ne restituirà in abbondanza!”

Brano senza Autore

Il fiume ed il deserto

Il fiume ed il deserto

Un fiume, durante la sua tranquilla corsa verso il mare, giunse a un deserto e si fermò.
Davanti ora aveva solo rocce disseminate di anfratti e caverne nascoste, dune di sabbia che si perdevano nell’orizzonte.

Il fiume fu attanagliato dalla paura.

“È la mia fine.
Non riuscirò ad attraversare questo deserto.
La sabbia assorbirà la mia acqua ed io sparirò.
Non arriverò mai al mare.
Ho fallito tutto!” si disperò.
Lentamente, le sue acque cominciarono a intorpidirsi.
Il fiume stava diventando una palude e stava morendo.
Ma il vento aveva ascoltato i suoi lamenti e decise di salvargli la vita.
“Lasciati scaldare dal sole, salirai in cielo sotto forma di vapore acqueo.
Al resto penserò io!” gli suggerì.

Il fiume ebbe ancor più paura:

“Io sono fatto per scorrere fra due rive di terra, liquido, pacifico e maestoso.
Non sono fatto per volare per aria!”
Il vento rispose:

“Non aver paura.

Quando salirai nel cielo sotto forma di vapore acqueo, diventerai una nuvola.
Io ti trasporterò di là del deserto e tu potrai cadere di nuovo sulla terra sotto forma di pioggia, e ritornerai fiume e arriverai al mare!”
Ma il fiume aveva troppa paura e, alla fine, fu divorato dal deserto.

Brano tratto dal libro “A volte basta un raggio di sole.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Da domani sarò triste

Da domani sarò triste

Da domani sarò triste, da domani.
Ma oggi sarò contento.

A che serve essere tristi, a che serve.

Perché soffia un vento cattivo?
Perché dovrei dolermi, oggi, del domani?
Forse il domani è buono.

Forse il domani è chiaro.

Forse domani splenderà ancora il sole.
E non vi sarà ragione di tristezza.

Da domani sarò triste, da domani.

Ma oggi, oggi sarò contento e, ad ogni amaro giorno dirò:
“Da domani, sarà triste. Oggi no.”

Poesia di un ragazzo trovata in un Ghetto nel 1941.
Per non dimenticare! Giornata della Memoria.

Il passero ed il girasole

Il passero ed il girasole

In una discarica abusiva, in un angolo abbandonato di una zona industriale di una città, era nato un girasole, che aveva fatto amicizia con un passero!
Il fiore era triste:
sognava un prato verde e farfalle svolazzanti.
“A che servo io qui?” si chiedeva.
Ma l’uccellino guardava il girasole, raggiante, a becco aperto:
“Come sei bello!
Sei meraviglioso!” trillava.
“Ci sono molte cose più belle!” rispondeva il saggio girasole, “Guardati intorno!”
Il buon passero si guardava diligentemente intorno, ma finiva sempre per voltarsi verso il girasole e pigolare con aria ammirata:

“Il più bello di tutti sei tu!”

Così, ogni giorno, il girasole prendeva coraggio e cresceva, tanto da troneggiare, ormai, sul mucchio di rifiuti.
La sua corona d’oro splendeva sempre di più!
Ma un giorno, al sorgere del sole, il fiore attese invano il suo piccolo amico.
Solo nel tardo pomeriggio sentì un pietoso pigolio ai suoi piedi!
Si piegò e vide il passero che si trascinava con un’ala ferita.
“Piccolo amico mio, che cosa ti è successo?” gli chiese.
“Un gabbiano mi ha colpito e da alcuni giorni non riesco a trovare niente da mangiare.
È la fine per me!” bisbigliò l’uccellino.
“No no!” urlò il girasole, “Aspetta un attimo!”
Il bel fiore scosse con vigore la sua grande corolla e una pioggia di semi scese sul passero.

“Mangiali, amico mio!

Ti daranno nuova forza!” disse il girasole.
Giorni dopo, il passero aveva ripreso vigore e, riconoscente, si voltò a guardare il girasole.
Ma fu ferito da una dolorosa sorpresa:
lo splendido fiore aveva perso i colori, le foglie penzolavano grigiastre e i petali erano terrei!
“Che cosa ti è successo bellissimo fiore?” pigolò.
“Il mio tempo è finito!” rispose il girasole.
“Ma me ne vado felice!
Per tanto tempo mi son chiesto quale crudele destino mi avesse fatto nascere in una discarica.

Ora ho capito:

sono stato un dono per te e ti ho ridato la vita!
Come tu sei stato un dono per me perché mi hai sempre incoraggiato.
Mangia tutti i semi che vuoi ma lasciane qualcuno!
Un giorno germoglieranno e, chissà, forse qui sorgerà una splendida aiuola!”

Brano senza Autore

Il riflesso della luce

Il riflesso della luce

Uno specchio finì in tanti minuscoli frammenti.
Tutti si ritrovarono sparpagliati in un mucchio di rifiuti e naturalmente cominciarono a lagnarsi del loro crudele destino.
“Ahinoi!
Che fine infame!” si lamentava uno, “Eravamo il riflesso di volti graziosi e sorrisi attraenti.

Ora solo questo orribile ciarpame!

Chi ci spolvererà, adesso?
Chi ci laverà con il detersivo profumato?”
I pezzetti di specchio caddero in una profonda depressione.
Ma un giorno, la mano paffuta di un bambino afferrò uno dei frammenti di specchio e cominciò a giocare.

Catturò un po’ di sole e lo diresse in una fessura del muro.

Così scoprì che là viveva un minuscolo fiorellino azzurro.
Gli sembrò che tremasse di felicità.
Raccolse un altro raggio di sole e lo inviò nello scantinato buio dove lavorava Giovanni il calzolaio.
Giovanni sorrise.
Il bambino continuò fino a sera, incantato dalla possibilità di dirigere la luce riflessa negli angoli bui dove il sole non brillava mai:
buche profonde, crepacci, ripostigli.

A cena, quando il papà chiese al bambino:

“Che cosa hai fatto oggi?”
Il bambino rispose:
“Ho inventato un gioco bellissimo!”

Brano di Bruno Ferrero

Il sovrano e la meridiana

Il sovrano e la meridiana

Un sovrano orientale portò, da un viaggio in Occidente, una meridiana per i suoi sudditi, che non conoscevano ancora le ore.
Quel regalo singolare cambiò la vita della gente del regno.
I sudditi, guardando la meridiana, impararono rapidamente a dividere la giornata in ore e a suddividere il tempo a loro disposizione.

Diventarono puntuali, ordinati, fidati e diligenti.

Così, in pochi anni, si guadagnarono agiatezza e ricchezza.
Quando il sovrano morì, i buoni e prosperi sudditi vollero erigere un monumento che lo ricordasse degnamente.
E siccome la meridiana era il simbolo della bontà del re e l’origine della loro ricchezza,

pensarono di costruirle intorno un magnifico tempio con una bella cupola dorata.

Quando il tempio fu completato e la cupola d’oro coprì la meridiana, i raggi del sole naturalmente non poterono più raggiungerla.
Quel filo d’ombra che, grazie al sole, aveva segnato il tempo per i cittadini, naturalmente scomparve insieme al punto d’orientamento costituito dalla meridiana stessa.

Alcuni cittadini smisero di essere puntuali,

altri tornarono ad essere poco precisi e altri ancora si scordarono la diligenza.
Ciascuno per la sua strada senza badare al prossimo.
E tutto il regno andò in rovina!

Brano senza Autore

La voce della conchiglia

La voce della conchiglia

Il Re di “Nonsodove”, essendo ormai vecchio, convocò i suoi tre figli:
Valente, forte e risoluto ma arrogante;
Folco, intelligente ma avido e ambizioso;
Giannino, ancora giovane, il volto lentigginoso, svelto e furbo ma oggetto degli scherzi dei fratelli, che non lo stimavano molto.
Il Re disse ai figli:
“È ora che io designi il mio successore al trono.
Voglio bene a tutti e tre e non so chi scegliere.
Pertanto ho pensato che chi di voi mi porterà lo Smeraldo Verde sarà re.”

I figli sentendo quelle parole strabuzzarono gli occhi:

lo Smeraldo Verde era stato il sogno di tutti i cavalieri, ma tutti coloro che avevano cercato di prenderlo erano morti.
Il re allora disse:
“So che vi ho chiesto una cosa molto difficile, per questo ho pensato di darvi qualcosa che vi potrà giovare!”
Dicendo così aprì un contenitore in cui vi erano una spada, un sacchetto di monete d’oro e una conchiglia.
Il re disse ancora:
“Ecco: rappresentano la mia forza, la mia ricchezza, le mie parole: la lama di questa spada non può essere spezzata, chi avrà queste monete d’oro sarà il più ricco della terra e in questa conchiglia ci sono tutte le mie parole, quelle che vi ho detto da quando siete nati ad oggi. Scegliete!”
Valente e Folco si scambiarono un’occhiatina e scelsero secondo le loro inclinazioni, senza badare a Giannino.
Con mossa rapida Valente afferrò la spada fiammeggiante e Folco il sacco di monete.
Giannino prese la conchiglia e se la legò al collo.
Poi tutti e tre partirono.
Valente sul suo focoso destriero; Folco sulla sua carrozza dorata; Giannino a piedi, ma fischiettando.
Lo Smeraldo Verde si trovava nella grotta Ferrea e per raggiungerla bisognava attraversare per prima la foresta abitata dal bandito Molk.
Valente ingaggiò una furibonda battaglia contro i suoi uomini;
Folco gli offrì centomila monete d’oro, mentre Molk ne voleva di più.
Quando giunse Giannino i fratelli erano ancora là, uno a combattere e l’altro a contrattare.

Portò la conchiglia all’orecchio e sentì la voce del padre che gli diceva:

“Si prendono più mosche con un cucchiaio di miele che con un barile di aceto!”
Giannino preparò una deliziosa bevanda per il bandito e gliela offrì lodando per il suo coraggio e la sua generosità, cosa che mai nessuno gli aveva detto.
Molk, commosso gli chiese cosa volesse in cambio.
Giannino chiese di poter passare con i suoi fratelli attraverso la sua foresta.
Molk glielo concesse.
Giannino portò all’orecchio la conchiglia e sentì ancora la voce del padre:
“Le ore del mattino hanno l’oro in bocca!”
Mentre era ancora notte riprese il cammino; giunse al lago delle tempeste prima dell’alba, quando ancora era ghiacciato e lo poté attraversare.
I fratelli, invece, avendo dormito fino a tardi, quando arrivarono al lago il sole aveva sciolto il ghiaccio e perciò dovettero fare il giro lungo.
Il terzo ostacolo prima della grotta ferrea era la palude della tristezza, immensa e piena d’insidie.
Valente con la sua armatura veniva risucchiato dalle sabbie mobili; la carrozza di Folco si capovolse e tutte le monete andarono a fondo:

tornati indietro, si sedettero ai bordi della palude disperati.

Anche Giannino scivolò tante volte e fu sul punto di temere per la stessa vita, ma ogni volta portava all’orecchio la conchiglia dalla quale gli giungevano le parole del padre che lo guidavano e lo incoraggiavano.
Così riuscì a raggiungere la grotta ferrea e a prendere lo Smeraldo Verde.
Allora, pieno di gioia, gridò:
“Grazie, papà!”

Brano tratto dal libro “Tutte storie. Per la catechesi, le omelie e la scuola di religione.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.