Il contadino che vendette la mucca a Sant’Antonio

Il contadino che vendette la mucca a Sant’Antonio

C’era una volta un contadino proprio scemo, che aveva una moglie intelligente.
Era lei a portare avanti la casa, comprava e vendeva, organizzava il lavoro nella fattoria e si preoccupava che tutto procedesse sempre al meglio.
Un bel giorno, però, si fece male ad un piede, tanto da non riuscire a camminare, e dovette rimanere a casa.
Proprio in quei giorni doveva essere venduta una mucca e, per questa ragione, fu il contadino a dover portare la mucca al mercato.
La moglie lo aveva ammonito di non vendere la mucca al di sotto di 160 fiorini e di guardarsi dai compratori che parlavano troppo.

Infatti questi non avrebbero certamente comprato nulla.

Le occorreva il denaro per l’affitto, altrimenti avrebbe rimandato volentieri l’affare, poiché non credeva che il suo stupido marito fosse capace di portare a buon termine la vendita.
Al mercato molti compratori cercarono di convincere il contadino.
Egli si ricordò di sua moglie e non diede la mucca a nessuno.
Così dovette riportare la sua mucca di nuovo a casa.
Aveva già paura che la moglie gli dicesse che era scemo.
Cammin facendo arrivò in un villaggio, ad una chiesa che era aperta:
“Insomma,” pensò, “darò un’occhiata qui dentro; forse ci trovo un compratore!”
Proprio in quel giorno aveva avuto luogo un pellegrinaggio per sant’Antonio, la cui statua si trovava nella chiesa, e per questo la porta della chiesa era ancora aperta.

Era, però, già così tardi che non vi era più nessuno in chiesa.

Il contadinotto entrò con la sua mucca e legò la bestia ad un banco.
Lui andò più avanti, perché aveva notato uno che stava lì in piedi e non diceva una parola, cioè la statua di sant’Antonio.
Poiché Antonio era rappresentato insieme ad un maiale, il contadino lo prese per un porcaro.
Che se ne stesse così zitto, gli parve buona cosa.
Ad un certo punto iniziò lui a parlare con la statua.
Gli offrì la sua mucca.
Però, dato che Antonio non rispondeva proprio, si arrabbiò e lo colpì con il proprio bastone.
In quel preciso istante, di fronte ai piedi di Hannes, cadde un sacco di denaro:
“Beh,” disse, “sapevo che volevi comprare la mia mucca.
Se avessi aperto la bocca, non ti avrei picchiato!”
Contento raccolse il denaro, lasciò la chiesa e tornò a casa.
Rientrato a casa, lanciò il denaro alla moglie contento.
Da quel momento in poi, lei non avrebbe più potuto dire che fosse uno scemo.

La moglie si meravigliò poiché il denaro era molto.

Hannes le raccontò solamente di aver venduto la mucca ad un porcaro, il quale aveva gettato la borsa del denaro ai suoi piedi, senza nemmeno mercanteggiare.
Dopo che Hannes ebbe lasciato la chiesa, arrivò il sagrestano per chiudere le porte.
Vide la mucca legata e notò che tutti i suoi risparmi, nascosti dentro la statua di sant’Antonio, erano spariti.
Chiamò il parroco e gli raccontò della sua sciagura.
Aveva messo al sicuro da sua moglie il denaro dentro la statua di Antonio; la moglie, altrimenti, l’avrebbe speso a larghe mani.
Il parroco disse che doveva prendere la mucca e dire alla moglie che era un suo regalo.
Il sagrestano tornò a casa con la mucca e la moglie si meravigliò molto per un regalo così grande, dato che il parroco era parsimonioso e, inoltre, che non aveva grandi possibilità.
Il sagrestano, però, le tolse ogni dubbio dicendole di chiedere lei stessa al parroco.

La mucca, quindi, finì nella stalla, la donna se ne rallegrò e l’accudì bene.

Il lavoro le divenne poco a poco divertente e, invece della solita chiacchierata di fronte ad una tazza di caffè o al correre da una vicina all’altra, era continuamente indaffarata con la mucca.
La mucca dava molto latte, poiché era una bella bestia e la donna, che prima spendeva il denaro con leggerezza, divenne parsimoniosa, quando vide come fosse difficile guadagnare qualcosa.
In questo modo aveva presto messo da parte abbastanza denaro per comprare una seconda mucca.
Più tardi comprarono anche un pezzo di terra e oggi il sagrestano è un benestante con una stalla piena di bestiame e molta terra.
Anche la fattoria di Hannes andò in seguito bene, poiché sua moglie ebbe a disposizione più denaro.
Da quel momento non osò più rimproverarlo di essere scemo, anche se lui non era meno fannullone di prima.

Brano senza Autore

Le scarpette d’oro della Madonna

Le scarpette d’oro della Madonna

Una vedova, che aveva due figlie, riusciva a mantenere la famiglia filando giorno e notte.
La mattina della festa della Madonna del Rosario, la vedova andò a riportare il filato dalle varie comari sperando che le pagassero il lavoro.
Invece non riuscì a riscuotere neanche un soldo, perché tutti avevano una scusa per non pagare.

La donna, prima di ritornare a casa,

si fermò in Chiesa e si mise a pregare davanti alla statua della Madonna del Rosario.
“Santa Madre di Dio, voi che siete mamma, mi sapete dire che cosa darò oggi da mangiare alle mie povere figlie?
Non ho di che accendere il fuoco, né farina né pane:
aiutatemi voi, perché sono alla disperazione!”
La Madonna ebbe compassione della povera vedova:

allungò il piede e le gettò la sua scarpetta d’oro.

La donna, tremante di gioia, andò sulla piazza dove c’era un’orefice e gli mostrò la scarpetta per vendergliela.
Questi, però, riconobbe subito la scarpetta della Madonna:
chiamò le guardie e la donna fu messa in prigione.
Prima della condanna essa chiese di poter pregare un’ultima volta davanti alla statua della Madonna del Rosario.

Il favore le fu accordato.

“Santa Madre di Dio!” supplicò la vedova quando fu davanti alla statua, “È vero o no che la scarpetta me l’avete data voi e non sono stata io a rubarvela?”
Tutti stavano muti a guardare, ed ecco che la statua cominciò a muoversi, il viso piano piano prese colore, la Madonna sollevò il piede e gettò l’altra scarpetta verso la vedova.
Allora la gente gridò al miracolo.
Chi piangeva, chi rideva.
La vedova se ne tornò libera dalle sue figlie con le scarpette d’oro della Madonna.

Brano tratto dal libro “Mese di maggio per i bambini.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

La leggenda della Stella di Natale

La leggenda della Stella di Natale

Anche a Città del Messico, nella lontana America, il Natale è una grande occasione di festa.
Tutti ne approfittano per sfoggiare vestiti nuovi, imbandire le tavole con cibi e bevande abbondanti e diversi dal solito, scambiarsi regali costosi e raffinati.
Che è poi quello che succede in gran parte del mondo.
Ma anche a Città del Messico ci sono persone che non possono permettersi di far festa neppure la Vigilia di Natale.
Una di queste, forse la più povera di tutte, si chiamava Ines.
Era una piccola e graziosa bambina indiana, grandi occhi neri nel visetto scuro, che anche la Vigilia di Natale vagava per il mercato grande a piedi nudi, sgranando gli occhi sulla mercanzia esposta sulle bancarelle:
trionfi di frutta colorata, dolci, tacchini e oche arrostiti, profumate patatine.
Tutte cose proibite per Ines, ricca solo del suo sorriso con cui cercava di intenerire i venditori, che le volevano bene e le regalavano sempre qualcosa.
La mamma le aveva cucito una grossa tasca sul davanti della gonna, e tutto quello che la bambina riceveva finiva in quella tasca.
Ogni giorno la piccola Ines la controllava perché nulla di quanto raccoglieva andasse perduto.

Il contenuto di quella tasca era preziosissimo:

quello era il cibo per i suoi fratellini e la mamma ammalata che aspettavano a casa.
Ines aveva l’occhio allenato a scoprire anche nei mucchi di rifiuti del mercato qualche cosa ancora in buono stato e la sua mano veloce sapeva sceglierlo con cura, ripulirlo, renderlo accettabile.
La sera della Vigilia di Natale, la tasca era colma più del solito.
Anche i suoi fratellini avrebbero fatto festa quella sera.
Ma Ines non era del tutto felice.
Aveva un piccolo ma insistente, segreto, cruccio.
A Città del Messico c’era una simpatica tradizione.
Nella Notte di Natale tutti i bambini della città portavano un fiore a Gesù Bambino nella chiesa della loro parrocchia.
C’era una specie di gara a chi portava il fiore più bello.
Ines desiderava portare anche lei un fiore a Gesù Bambino.
A volte si immaginava nel gesto di offrire, proprio lei, povera piccola bambina indiana, il fiore più bello.
Ma già faticava tanto a procurarsi un po’ di frutta e di verdura, come poteva procurarsi un fiore?
Aveva visto qualche fiore sui balconi più ricchi, altri fiori facevano capolino invitanti da cancelli di ferro battuto.

Era tentata di coglierli, ma non si può donare a Gesù un fiore rubato.

La piccola pensava con soddisfazione alle cose buone che portava ai fratellini, alla gioia con cui l’avrebbero accolta, ma non si decideva a tornare a casa.
Vagava inquieta, alla ricerca di un fiore, il più bello, quello che aveva visto solo nella sua fantasia.
La stradina tortuosa che portava al suo quartiere attraversava una zona di ruderi antichi.
Altre volte aveva visto tra le rovine ciuffi di foglie verdi con qualche fiore colorato.
Forse là avrebbe potuto trovare qualche fiore speciale da portare a Gesù Bambino.
Cautamente si addentrò tra i ruderi.
Girò, cercò, frugò attentamente tra le vecchie pietre, ma non c’era niente da fare.
Non c’era neppure un fiorellino.
Era quasi buio.
La mamma e i fratellini la stavano certo aspettando con impazienza.
Doveva tornare a casa.
Gettò un ultimo sguardo intorno e vide, in un angolo, un ciuffo di piantine che avevano foglie verdi, lucide, disposte come i petali di un fiore.
Si chinò e in fretta ne raccolse alcuni rametti; li mise insieme nel modo più gradevole possibile e formò un piccolo mazzo.

Mancava ugualmente qualcosa.

Con un sospiro, la bambina si tolse la cosa più bella che possedeva:
il nastro rosso che le serviva a legare i capelli.
Con il nastro fece una coccarda intorno alle foglie verdi.
Fu soddisfatta del risultato.
“Gesù Bambino gradirà i miei fiori verdi.” pensò, “E poi li ho legati con il nastro rosso!”
Era buio ormai e Ines si diresse verso casa.
Passò davanti alla chiesa:
il portone principale era spalancato.
“A quest’ora non ci sarà nessuno in chiesa!” pensò, “È l’ora di cena.
Verranno più tardi a portare i fiori a Gesù!”
Entrò furtivamente, con i suoi piedini nudi, il grembiulone sporco con la tasca piena di frutta e verdura.
Sgattaiolò, leggera come un’ombra, dietro le colonne della navata verso l’angolo pieno di luce dove su un cuscino ricamato avevano posto la statua di Gesù Bambino.
Con le lacrime agli occhi, Ines guardò il suo mazzo di foglie verdi e poi, rivolta alla statua del Bambino Gesù disse:
“Te li lascio adesso.
Non posso venire dopo con gli altri bambini.
Mi vergognerei troppo.
Spero ti piacciano lo stesso!”

Un “Oh!” di meraviglia la fece trasalire.

C’era un gruppo di gente intorno a lei.
Tutti fissavano meravigliati il mazzo che stringeva in mano.
“Che bei fiori…
Dove li hai trovati?
Non ho mai visto dei fiori così!”
Ines abbassò gli occhi sul suo mazzo di foglie e rimase senza fiato per la sorpresa.
Le foglie erano diventate di un bel rosso vivo.
Al centro della corolla le bacche avevano formato come un cuore d’oro.
Timidamente, la bambina depose il suo prezioso mazzo di stelle rosso-oro au piedi della statua del Bambino Gesù e poi corse a casa.
Non le sembrava neanche di toccare il terreno per la felicità.
Ora sapeva che Gesù aveva gradito il suo dono e aveva trasformato delle semplici foglie nel fiore più bello del Messico:
la stella di Natale.
Ancora oggi, a Natale, in tutto il mondo, le rosse stelle dal cuore d’oro ricordano il miracolo della fede di una povera bambina indiana.

Brano senza Autore

La carovana di mercanti

La carovana di mercanti

Una carovana di mercanti abituati da molto tempo a percorrere insieme le lunghe piste d’oriente si preparava ad attraversare un grande e pericoloso deserto.
Il percorso richiedeva una buona conoscenza dei luoghi e delle piste e delle oasi, ma anche delle abitudini degli indigeni.

Così si assicurarono i servizi di una guida locale famosa per la sua esperienza.

Dopo dieci giorni di rapido cammino, la colonna si arrestò contro una barriera di uomini armati, fermi attorno alla statua di una delle loro orribili divinità dall’aspetto crudele, che incombeva sulla pista.
“Non potete proseguire” gridò il capo degli uomini armati, “se non sacrificate un uomo al nostro dio!
È la regola di ogni nuova luna.
Se non lo farete morrete tutti qui immediatamente!”

I mercanti si radunarono e cominciarono a parlottare tra loro.

La scelta era drammatica e l’accordo molto difficile.
“Noi ci conosciamo tutti da molto tempo.
Siamo parenti tra di noi.
Non possiamo sacrificare uno di noi per placare questo dio!”

I loro sguardi si concentrarono tutti sulla guida…

Dopo avere immolato il pover’uomo, secondo il rito, ai piedi della statua, la carovana riprese il cammino.
Ma nessuno conosceva la via e ben presto si persero nel deserto.
Morirono uno dopo l’altro di sete e di sfinimento.

Brano senza Autore

La superbia del sacrestano

La superbia del sacrestano

Cera una volta un vecchio e saggio parroco di campagna, molto soddisfatto del risultato della sua pastorale.
Aveva un unico cruccio ed era quello di non essere riuscito a correggere il suo più stretto collaboratore:

il suo sacrestano.

Questo eccedeva, nonostante i richiami, in superbia.
Quindi pensò ad un singolare stratagemma:
mandò il sacrestano a tinteggiare una nicchia vuota, posta in alto nella chiesa, che avrebbe dovuto ospitare la statua di un nuovo santo.
Il sacrestano, dopo essere salito con la scala, si apprestò ad eseguire l’ordine del parroco che, nello stesso momento, levò subito la scala dalla nicchia e iniziò a suonare le campane a festa.
Accorse numerosa gente che chiese al sacerdote cosa fosse successo, ed allora il parroco spiegò:
“Venite abbiamo un nuovo Santo:

guardate la nicchia dove c’è Toni-Santo!”

La gente vedendo il sacrestano così ben posto nella nicchia cominciò ad elencare pubblicamente i vari difetti noti e meno noti, svergognandolo all’inverosimile.
Toni apprese la lezione inferta dal suo parroco e da quel giorno intraprese per davvero la via della santità.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

L’asinello vanitoso

L’asinello vanitoso

C’era una volta in un paesello in collina un asinello bianco che si chiamava Isaia.
Era un asinello assolutamente comune, uguale a tutti gli altri non più alto non più basso di tutti gli altri asinelli, ma data la disponibilità e gentilezza del suo padrone ogni anno Isaia veniva scelto per portare la statua del santo in processione per il paese.
Anche quell’anno gli fu affidato quel compito e subito Isaia iniziò a vantarsi con gli altri animali della fattoria:
“Sono il più bello di tutti gli animali del paese e per questo tutti mi guardano e mi ammirano!”
Il giorno della processione sulla groppa dell’asinello fu posizionata la statua del santo e il cammino per le strade del paese iniziò, ma iniziò anche Isaia a vantarsi:

“Tutti mi guardano perché sono il più bello.

Le donne del paese mi lanciano petali di fiori quando passo.
I bambini si inchinano.
Gli uomini mi aprono la strada ossequiosi.”
Gli altri animali non ne potevano davvero più, tutto il giorno a vantarsi, ed in più Isaia, convinto della sua superiorità non voleva più saperne di lavorare come tutti gli altri.
Il padrone si rese conto del gran disagio che si stava creando e così decise di parlare al suo asino vanitoso:
“Isaia, durante la processione la gente non guarda te, ma guarda il Santo!”

“Non è possibile!

Io sono l’animale più bello del paese!” replicò l’asino.
“Basta Isaia,” disse il padrone, “questa storia deve finire!”
Così quando arrivò il giorno della processione il padrone, senza nulla dire, prese il maiale, lo pulì per bene e ci caricò in groppa la statua del Santo.
La gente del paese lo guardava ammirata, le donne gli lanciavano petali di fiori, i bambini si inchinavano e gli uomini gli aprivano la strada ossequiosi.

Allora Isaia capì.

Non era lui che la gente guardava e ammirava.
Da quel giorno l’asinello imparò a essere meno vanitoso e a rispettare gli altri animali della fattoria.

Brano senza Autore, tratto dal Web

La statua senza valore

La statua senza valore

Viveva un tempo tra i monti un uomo che possedeva una statua, opera di un antico maestro.
L’aveva buttata in un angolo, faccia a terra, e non se ne curava affatto.

Un giorno, si trovò a passare nei pressi un uomo che veniva dalla città.

Essendo un uomo di cultura, quando vide la statua chiese al proprietario se fosse disposto a venderla.
Il proprietario rise e disse:
“E chi vuole che compri, scusi, quella pietra sporca e scialba?”

L’uomo della città disse:

“Ti do in cambio questa moneta d’argento.”
E l’altro ne fu sorpreso e felice.
La statua fu allora trasportata in città, a dorso di un elefante.
Dopo molte lune, l’uomo dei monti si recò in città, e mentre camminava per la strada vide gente affollarsi davanti a un edificio, dove un uomo gridava a gran voce:

“Venite a vedere la statua più bella, più mirabile esistente al mondo!

Solo due monete d’argento per ammirare l’opera meravigliosa di un gran maestro!”
E l’uomo dei monti pagò due monete d’argento ed entrò nel museo per vedere la statua che lui stesso aveva venduto per una moneta.

Brano di Khalil Gibran

Lo spaccapietre di Estimj


Lo spaccapietre di Estimj

Fin dai tempi dei tempi esisteva a Vergny lo spaccapietre.
Il mestiere era antico e se lo trasmettevano di padre in figlio da trentotto generazioni.
Sullo spaccapietre di Vergny ci si poteva contare: guerra o pace, abbondanza o carestia, lui ci sarebbe sempre stato.
Chi andava a Vergny sapeva che ce l’avrebbe trovato.
Così si credeva ma così non fu per sempre.
Un giorno il Sindaco di Vergny si presentò all’ultimo degli spaccapietre e gli disse:
“Ho una bella sorpresa per te: finalmente smetterai di faticare!”

Lo spaccapietre abbassò il martello e rispose:

“Cosa potrebbe sostituirmi se non mio figlio, così come io sostituii mio padre?”
Il sindaco rise e lo invitò a seguirlo fino ad un casolare fuori città, proprio sotto la montagna.
Quindi lo introdusse in una grande stanza, dalle volte altissime, imbiancata di fresco.
Una volta dentro il Sindaco indicò un enorme telo al centro della stanza che copriva qualcosa di davvero imponente e, ancora ridendo, continuò:
“Ecco cosa ti sostituirà!”
Quindi tirò via il telo e scoprì una gigantesca macchina fatta di infiniti rulli ruotanti di varie dimensioni.
“Bella, vero?
È l’ultima novità del progresso meccanico nel campo delle pietre.
Siamo il primo comune ad averla, nel paese e nell’Europa intera.
Ci aspettano anni di prodigi e di traffici intensi.”
Lo spaccapietre rimase con la bocca aperta per qualche minuto.
Infine disse, iniziando a girare intorno alla struttura luccicante:
“Ma come sarebbe a dire?”
“Sarebbe a dire che da domani sei in pensione.
La fabbrica, come vedi, è già pronta.

Non sei contento?”

“Ma…” provò a replicare lo spaccapietre.
“Non preoccuparti: non morirai di fame.
La pensione che ti darò sarà congrua ai tuoi cinquanta anni di fatiche.”
Così detto schiacciò un bottone e la macchina prese a digerire sassi grossi quanto piccole montagne con la voracità di un dinosauro.
Lo spaccapietre si sentì gelare.
“E…” tentò nuovamente di rispondere lo spaccapietre.
“E tuo figlio dovrà trovarsi un altro mestiere, come ogni bravo giovane che si rispetti.
Non è il primo, non sarà l’ultimo.
Non c’è niente di male in questo.”
Il rumore divenne assordante.
“Però…” provò ad obiettare lo spaccapietre.
“La fabbrica andrà avanti da sola.
Come vedi è progettata per non essere governata da nessuno.
Uno dei nostri operai verrà qui di tanto in tanto per vedere se tutto funziona come deve.”
replicò il sindaco.

“Sì ma…”

Mentre parlava, lo spaccapietre venne interrotto nuovamente dal sindaco:
“Niente ferie, niente malattia.
In un giorno spaccherà le pietre che tu spaccavi in un anno, direttamente dentro la montagna.
Ti fa invidia, vero?
Vorresti avere la sua forza?
I suoi denti?
Le sue braccia possenti?
Niente da fare, sei solo un uomo.
Mettiti il cuore in pace.”
“E…” provò ad aggiungere inutilmente.
“Può bastare.
Ti accompagno a casa.
Sii felice e goditi la tua vecchiaia.
Il tuo mestiere lo lasci in buone mani.” concluse il sindaco.
Una volta a casa lo spaccapietre si accasciò davanti al camino.
Doveva dire a suo figlio, che già era apprendista spaccapietre, di cercarsi un altro mestiere.
Le lacrime gli scesero sulla zuppa e le mangiò insieme ai fagioli.
Sua moglie non seppe fare altro che massaggiargli i calli delle mani, come ogni sera.
Avrebbe voluto dirgli qualcosa, ma non le venne tra le labbra nessuna buona parola.
Le uniche che seppe pronunciare furono:

“Ti insegnerò a ricamare le tovaglie!”

Dopo di queste non disse più niente.
Lo spaccapietre le prese per buone e non fu contento.
Sperava che avrebbe aiutato suo figlio fino alla morte, come suo padre con lui.
Quindi le rispose:
“Grazie, ma le tovaglie le lascio volentieri a qualcun altro.”
E così dicendo si addormentò piangendo.
Un mese dopo il figlio partì con il primo treno per il sud.
Era grande abbastanza per andare a cercarsi lavoro da solo, dovunque vi fosse stato.
Per consolare il padre, già sopra il treno, gli disse che quel mestiere, in fondo, non gli piaceva.
Che era felice di partire.
Che avrebbe trovato di meglio, senza dover rinunciare ad una famiglia, ad una casa e ad un buon pasto ogni giorno della settimana.
“Sei sicuro? Forse… cercando… insistendo…” chiese amorevolmente il padre.
“Sono sicuro!” rispose il figlio.
Lo spaccapietre fece finta di non sentire e lo lasciò partire.
Ricordava i giorni in cui gli spiegava i dettagli del suo lavoro.
Le prime pietre, immense, tra le mani.
I primi lavoretti d’apprendistato.

I primi calli.

Tutto era perduto.
Rimase con lo spaccapietre e sua moglie la giovane figlia.
Povera disgraziata!
Sarebbe cresciuta figlia di un pensionato senza mestiere, nessuno se la sarebbe presa in casa, nemmeno come serva.
Passarono così tre mesi senza gioie e senza miserie.
Finché una mattina lo spaccapietre si levò di buon’ora e si mise in cammino.
La pensione gli bastava per mangiare ma, da quando non aveva più un mestiere, non aveva più fame.
E poi c’era da mettere da parte la dote per la figlia, se la voleva maritare bene.
“Parto.” disse alla moglie.
“E dove vai? Sei vecchio.” lei gli rispose.
“Arriverò a Estimj e lì mi venderò al mercato.” replicò lui.
“E chi ti comprerà? Sei vecchio.” aggiunse lei.
“Qualcuno mi comprerà.
Poi tornerò e vi porterò con me.” rispose tranquillamente lui.
“Se tornerai!… sei vecchio.” ripetè nuovamente la moglie.

“Sai dirmi solo questo?” chiese lo spaccapietre.

Aveva deciso di passare la montagna per raggiungere Estimj, la grande città accanto al fiume.
Una volta lì avrebbe offerto la sua arte e la sua esperienza al miglior offerente.
Certo, sapeva fare soltanto lo spaccapietre, ma era già qualcosa.
Di sicuro avrebbe trovato qualcuno in grado di apprezzare le sue doti e la sua abilità.
Poi avrebbe richiamato con sé la sua famiglia e sarebbe invecchiato contento.
Avrebbe regalato alla figlia una bella dote e l’avrebbe sposata ad un uomo di giudizio.
Infine sarebbe morto come tutti i vecchi e al suo funerale la città avrebbe pianto.
Camminando su per la montagna giunse al grande fiume che divideva le due città di Vergny e di Estimj.
Si era già preparato a passare oltre quando vide che di là dal ponte la strada era interrotta.
Una grande frana, scendendo dalla montagna, l’aveva interamente sommersa.
“Come farò a raggiungere la città?” pensò.
Poi, vista la gravità della situazione, considerando che non aveva fretta, passò il ponte, si tolse la giacchetta e si mise subito a lavorare.
Era importante ripristinare quanto prima la via maestra.
Del resto erano mesi che non pesava più una sola pietra.

Un po’ di sana fatica l’avrebbe ritemprato.

Dopo alcune ore di lavoro, spostando e spezzando pietra su pietra, con attrezzi rudimentali, si trovò fra le mani il corpo di una giovane donna.
La ragazza, ferita, era svenuta ma ancora in vita.
Aveva soltanto bisogno di calore, riposo e cure.
“Adesso devo andare in città.
Questa giovane ha bisogno d’essere medicata.
E manca poco all’apertura del mercato.
Fortuna che ho quasi finito.
Il resto del lavoro, poche pietre, lo potrà compiere qualcuno degli addetti alla manutenzione delle strade.”
Detto questo si caricò la giovane sulle spalle e partì.
Appena in città lo spaccapietre consegnò la giovane ad un’infermiera dell’ospedale e si recò al mercato.
“Hei… lei… dove scappa?” chiese l’infermiera.
“Devo andare assolutamente al mercato!” rispose il vecchio spaccapietre.

“Ma questa giovane?” continuò l’infermiera.

“Era sepolta sotto una frana, accanto al ponte.
Presto, non perda tempo con me: è ancora in vita!” replicò lui.
“Ma lei: come si chiama?
Qualcuno vorrà sapere!” provò ad aggiungere l’infermiera.
“Che importa, infermiera: le salvi la vita, il resto andrà da sé!” concluse.
“Vendesi fatica di spaccapietre esperto.
Cinquant’anni di lavoro e di maestria.
Opere pulite e senza polvere…”
Il mercato era pieno d’ogni ben di dio.
Lo spaccapietre si mise in mostra, urlò come tutti gli altri e aspettò per l’intera mattinata.
Non lo volle comprare nessuno.
Qualcuno gli chiese di dare dimostrazione della sua forza.
Ci provò ma era talmente stanco, dopo tutto quel lavoro notturno, che non riuscì a sollevare nemmeno un sassolino.
“A Vergny c’è una macchina che trita la montagna senza una sola goccia di sudore!” gli dissero.
“Che costa poco e che lavora parecchio.

Soprattutto senza un’ombra di difetto.

Si dice che nessuno le faccia da guardia e che faccia tutto da sola.
A Vergny stanno arricchendo a vista d’occhio.
Tutti vanno a Vergny per le pietre.
A che serve, ormai, uno spaccapietre?”
Era seduto sconsolato sui gradini del Duomo, a stomaco vuoto, quando sentì da una radio accesa accanto ad una finestra aperta la seguente notizia:
“Questa mattina la figlia del Gran Magnate del Tabacco di Estimj, ancora priva di sensi, è stata lasciata in ospedale da uno sconosciuto.
La giovane, sveglia da circa un’ora, ha raccontato d’aver perso conoscenza vicino a Ponte Salvo, sepolta da una frana.
Sta bene e, per sua fortuna, non ha riportato alcuna lesione né interna né esterna.
Solo qualche graffio e qualche esile ferita.
Ma poteva andarle molto peggio.
Il Sindaco di Estimj si è detto disponibile, come segno di riconoscenza e a nome della città tutta, ad esaudire qualsiasi desiderio gli sia fatto pervenire dallo sconosciuto salvatore, purché si presenti!”
La notizia sollevò il morale dello spaccapietre, che si alzò e si mise in cammino verso il Municipio della grande città.
“Gli chiederò la grazia di darmi lavoro come spaccapietre in questa città.

È grande e ne avrà bisogno.

E inoltre di permettermi di trasferire con me anche mia moglie e mia figlia e di trasmettere la mia arte e il mio mestiere a mio figlio, come da trentotto generazioni avviene nella mia famiglia.
E di farmi vivere contento finché non sarò sepolto.”
Al Municipio lo spaccapietre fu ammesso a colloquio ma non fu creduto.
La storia che raccontò sembrava combaciare con quella narrata dalla figlia del Gran Magnate del Tabacco, ma chi la raccontava era troppo vecchio per una simile opera, gli rispose il Sindaco in persona, e troppo stolto.
“Le assicuro che ero proprio io, sulla montagna…” disse lo spaccapietre.
“Basta così! L’accuso di attentare al buon nome della città, nonché alla mia buona fede personale e a quella del Gran Magnate del Tabacco.”
Così dicendo il Sindaco chiamò le guardie e lo fece rinchiudere in galera.
La notizia dell’arresto corse in fretta per l’intera città e anche oltre:
“Un vecchio spaccapietre, licenziato dal suo lavoro per inedia, ha rivendicato il salvataggio della giovane figlia del Gran Magnate del Tabacco.
Fonti ben informate raccontano che, per la sua buona azione, abbia chiesto in ricompensa una casa, un lotto di terra, un conto milionario in una banca fuori paese, un posto alle Poste per il figlio debosciato, un marito barone per la figlia svergognata, una pensione d’invalida per la moglie nullatenente e per se stesso una vasca idromassaggio, un cane di razza e un’amante fotomodella di non più di ventidue anni.

È stato arrestato per menzogna acclamata.”

Fortunatamente i giornali pubblicarono anche la sua foto.
La città ci sputò sopra ma l’infermiera che quella mattina aveva accolto la ragazza lo riconobbe e testimoniò per lui in tribunale.
Il pianto della giovane donna salvata, nel sentire la voce dell’anziano spaccapietre mentre raccontava ancora una volta tutta la storia, fu la prova decisiva della sua buona fede.
Il Gran Magnate del Tabacco pianse con la figlia e gli regalò una scatola di sigari in legno d’abete.
Dopo quindici mesi lo spaccapietre di Vergny venne così rilasciato con le scuse della Magistratura, del Tribunale, della Corte, del Guardiacella e del Sindaco in persona.
“Mi chieda qualsiasi cosa: ho con lei un enorme debito da saldare!”
Lo spaccapietre non sapeva più cosa chiedere.
In tutto quel tempo il figlio aveva trovato un buon lavoro come netturbino, la figlia si era fidanzata con un promettente banchiere figlio di banchieri e lui era invecchiato a vista d’occhio.
Adesso le pietre le poteva solo carezzare.
“Vorrei tornare a casa, e niente più.”
Il Sindaco crollò di schianto.
Stava preparando la sua ricandidatura al seggio più alto della città e voleva presentarsi ai suoi concittadini con un gesto di grande impatto emotivo.
Tirò le somme e pronunciò:
“Se non chiede nulla le darò io qualcosa.”
Così detto tirò fuori da un cassetto una grossa chiave d’oro.
“Le consegno le chiavi della città!

Da oggi sarà questa la sua casa!”

“Il Municipio?” chiese il vecchio spaccapietre, ingenuamente.
“Ma no!” proseguì il Sindaco ridacchiando:
“La città intera.
Scelga una casa e sarà sua.
Un giardino e sarà suo.
Un pezzo di terra e sarà suo.
Al resto penserò io, purché si sappia.
Le farò avere un congruo compenso e una congrua pensione.
Il tutto a spese del paese.
Lo spaccapietre ringraziò per l’offerta e scelse la casa più modesta.
La scelse perché da ogni finestra si poteva vedere la montagna.
Che poi avesse un solo bagno, due stanze e una cucina non gli importava.
Si fece fare pure una rimessa per i suoi attrezzi e le sue pietruzze.
Già si vedeva a fabbricare piccoli portavasi in marmo sotto l’ombra di un pino nei pomeriggi estivi.
Quindi invitò la moglie a raggiungerlo e maritò la figlia e il figlio; e tutto proseguì per il meglio.
La conclusione, dopo tanti anni, si può ancora leggere nella targa affissa a Estimj in Piazza Mastù, proprio di fronte al Duomo:
“Qui riposò un giorno lo spaccapietre che spostò una montagna, salvò una donna e recitò canzoni per il carcere circondariale.”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il custode dei sogni


Il custode dei sogni

Quest’ uomo andava in giro con la sua valigia e raccoglieva i sogni dei bimbi, degli uomini e delle donne che li immaginavano e li lasciavano in giro.
Raccoglieva i sogni e li riponeva nella sua valigia di cartone con sopra dipinte le stelle.
Lui poteva vederli, erano leggeri ed evanescenti e leggermente luminosi.
Molte volte le persone li abbandonavano e si spegnevano un poco e lui camminando per strade e piazze li vedeva e li raccoglieva.
Giorno dopo giorno continuava a mettere i sogni in questa valigia.

Una sera stanco di camminare si sedette su una panchina, guardò il cielo dove vi era una luna piena.

Intorno nella piazza vi era gente che passeggiava e bambini che giocavano.
Il custode dei sogni si mise la valigia sulle ginocchia e l’aprì.
Da questa valigia usciva una luce fluorescente.
Questi sogni avevano una luce propria che pulsava leggermente.
Alcuni curiosi si fermavano a guardare.
Lui aprì a poco a poco la valigia.

Bolle luminescenti brillando si gonfiavano e questi globi di luce fluttuavano leggermente nell’aria sopra la valigia.

I curiosi divenivano sempre più numerosi, i bambini si avvicinavano a guardare; così il custode dei sogni iniziò a prendere ciascuno dei sogni racchiusi in queste bolle di luce e a darli a ciascun bambino che si faceva avanti, anche agli innamorati che si avvicinavano, ed alle persone che ne chiedevano uno.
E così man mano che queste persone li raccoglievano, divenivano anche loro leggermente luminescenti.
La piazza era diventata luminosa e la luna sorrideva nel cielo.
Ad un certo punto il custode dei sogni prese dalla sua valigia una tenda nera, salì sul piedestallo della statua in mezzo alla piazza e sventolando la tenda nera disse a tutti:
“Vedete anche voi cosa ho in mano?”

Il brusio della gente disse: “Una tenda nera.”

“Ebbene sì!” disse lui.
“Questo velo è il velo che ponete sui vostri sogni quando avete difficoltà a raggiungerli! Vedete tutti?”
La gente esclamò un timoroso “Si!”
“Bene!” disse il custode dei sogni.
“Volete sapere come togliere questo velo nero dai vostri sogni?
Ascoltate, ci sono due cose da fare per ravvivare i sogni.
La prima è ridare vita al vostro sogno, senza mai stancarsi di infondere energia su di esso, e avere il coraggio di continuare anche quando sembra “impossibile!”
Quindi perseverare.
La seconda cosa è conoscere come raggiungere la meta.
Dovete apprendere e conoscere quello che vi serve per vincere nella vita e trovare un modo di realizzarlo.

Perseverando nel vostro intento, raggiungerete la meta.

Quale meta?
Quella la dovete mettere voi, o ‘scoprirla’ togliendo il velo!”
Così dicendo il custode dei sogni agitò la tenda e svanì.
La gente stupita rimase a guardare immobile.
Tutti avevano la loro bolla di luce in mano e in quel momento pulsava… il loro sogno!
Rimase giusto una valigia su una panchina con sopra tante stelle dipinte.
La valigia dei sogni.
Quella non buttiamola.
Non buttarla via, riponila in un angolo della tua mente, dove potrai riporre i tuoi sogni e riprenderli e coltivarli uno per uno.
Buona fortuna.

Brano di Franco Farina