I merli

I merli

Mi racconto.
Negli anni scorsi, come avevo un po’ di tempo libero, andavo a far visita agli anziani di una casa di riposo del mio comune.
Ci andavo per un senso civico e tornavo a casa appagato da questa esperienza, dato che incontravo una grande e variegata umanità.

Avevo stretto delle belle e vere amicizie.

Alcuni di loro attendevano il mio ritorno per affrontare insieme discorsi interessanti.
Tra coloro che incontravo abitualmente, c’era anche una signora che si chiamava Giulietta, con la quale trattavamo sempre lo stesso tema fisso:
quello della caccia.
Era stata figlia, moglie e madre di un cacciatore ed usava il gergo dei cacciatori e le loro metafore su tutto.
Ricordo che, durante una di quelle visite, appena arrivato,

la vidi nel corridoio e le chiesi come fosse andata.

Intendevo l’operazione a cui si era sottoposta, ma lei non capì la mia domanda.
Mi rispose, pensando alla caccia anche se in senso metaforico, che ai “merli” aveva rinunciato.
Non li cercava più dato che, chiunque la corteggiasse, poco tempo dopo “ci lasciava le penne.”
Attribuiva la colpa di tutto ciò al suo bizzarro comportamento.
Ovviamente si riferiva agli anziani signori ospitati dalla casa di riposo.

Per questa ragione,

aveva deciso di non affezionarsi più a nessuno spasimante, dato che per l’età avanzata, in punta di piedi, uno per volta, i suoi Romei se ne dipartivano, lasciando dentro di lei l’ennesimo vuoto incolmabile.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

La pace verrà… se…

La pace verrà… se…
La pace verrà… se…

… tu credi che un sorriso è più forte di un’arma.
… tu credi alla forza di una mano tesa.
… tu credi che ciò che riunisce gli uomini è più importante di ciò che li divide.
… tu credi che essere diversi è una ricchezza e non un pericolo.
… tu sai scegliere tra la speranza o il timore.
… tu pensi che sei tu che devi fare il primo passo piuttosto che l’altro, allora …

La pace verrà… se…

… lo sguardo di un bambino disarma ancora il tuo cuore.
… tu sai gioire della gioia del tuo vicino.
… l’ingiustizia che colpisce gli altri ti rivolta come quella che subisci tu.
… per te lo straniero che incontri è un fratello.
… tu sai donare gratuitamente un po’ del tuo tempo per amore.
… tu sai accettare che un altro ti renda un servizio.
… tu dividi il tuo pane e sai aggiungere ad esso un pezzo del tuo cuore, allora …

La pace verrà… se…

… tu credi che il perdono ha più valore della vendetta.
… tu sai cantare la gioia degli altri e dividere la loro allegria.
… tu sai accogliere il misero che ti fa perdere tempo e guardarlo con dolcezza.
… tu sai accogliere e accettare un fare diverso dal tuo.
… tu credi che la pace è possibile, allora …

La pace verrà!

Poesia di Charles de Foucauld

La candela che non voleva bruciare

La candela che non voleva bruciare

Questo non si era mai visto:
una candela che rifiuta di accendersi.
Tutte le candele dell’armadio inorridirono.
Una candela che non voleva accendersi era una cosa inaudita!
Mancavano pochi giorni a Natale e tutte le candele erano eccitate all’idea di essere protagoniste della festa, con la luce, il profumo, la bellezza che irradiavano e comunicavano a tutti.
Eccetto quella giovane candela rossa e dorata che ripeteva ostinatamente:

“No e poi no!

Io non voglio bruciare.
Quando veniamo accese, in un attimo ci consumiamo.
Io voglio rimanere così come sono:
elegante, bella e soprattutto intera!”
“Se non bruci è come se fossi già morta senza essere vissuta!” replicò un grosso cero, che aveva già visto due Natali, “Tu sei fatta di cera e stoppino ma questo è niente.
Quando bruci sei veramente tu e sei completamente felice.”

“No, grazie tante,”

rispose la candela rossa, “ammetto che il buio, il freddo e la solitudine sono orribili, ma è sempre meglio che soffrire per una fiamma che brucia.”
“La vita non è fatta di parole e non si può capire con le parole, bisogna passarci dentro,” continuò il cero, “solo chi impegna il proprio essere cambia il mondo e allo stesso tempo cambia se stesso.
Se lasci che la solitudine, il buio e il freddo avanzino, avvolgeranno il mondo!”
“Vuoi dire che noi serviamo a combattere il freddo, le tenebre e la solitudine?” chiese la candela.
“Certo,” ribadì il cero, “ci consumiamo e perdiamo eleganza e colori, ma diventiamo utili e stimati.
Siamo i cavalieri della luce.”
“Ma ci consumiamo e perdiamo forma e colore?”

domandò ancora la candela.

“Sì, ma siamo più forti della notte e del gelo del mondo!” concluse il cero.
Così anche la candela rossa e dorata si lasciò accendere.
Brillò nella notte con tutto il suo cuore e trasformò in luce la sua bellezza, come se dovesse sconfiggere da sola tutto il freddo e il buio del mondo.
La cera e lo stoppino si consumarono piano piano, ma la luce della candela continuò a splendere a lungo negli occhi e nel cuore degli uomini per i quali era bruciata.

Brano di Bruno Ferrero

L’asino che insegna

L’asino che insegna

Un giovane missionario andò in Africa per evangelizzare ma soprattutto a sollevare quelle popolazioni dall’ignoranza atavica in cui si trovavano.
Si sa, l’ignoranza è portatrice solo di fame e miseria.
La sua venuta era stata annunciata da tempo dai catechisti locali e tutti si aspettavano che portasse beni di sostentamento,

usati per lenire i mali endemici.

Grande fu la sorpresa quando arrivò solamente con un asino che trasportava due grandi cesti vuoti.
Ordinò che l’asino facesse avanti e indietro per il villaggio con un carico di legna o con i bidoni per l’acqua.
L’intento era quello di insegnare che era meglio usare l’asino come mezzo di trasporto,

che di solito oziava all’ombra,

invece di abusare delle donne che erano costrette a trasportare sulla testa carichi pesanti.

Quel giovane missionario aveva applicato con il suo asino la famosa citazione di Confucio:
Dai un pesce a un uomo e lo nutrirai per un giorno; insegnagli a pescare e lo nutrirai per tutta la vita.”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il bambino che spostò un armadio con un dito

Il bambino che spostò un armadio con un dito

Seduto e in silenzio, Gesù guardava con tenerezza un bambino che cercava di spostare un grosso armadio, molto pesante, di casa sua.
Spingeva da un lato, poi spingeva da un altro, sbuffando e stringendo i denti, ma niente… il grosso armadio non si spostava neanche di un millimetro.
Il bambino voleva spostare l’armadio per fare contenti i suoi genitori.
Loro avevano molto bisogno di spostare l’armadio, ma non trovavano mai il tempo e la voglia di farlo.
Certo, poveretti, tornavano a casa sempre stanchi del lavoro!

Questo il bambino lo capiva.

Quello che non capiva era perché litigavano sempre per colpa di quell’armadio.
La mamma rimproverava il papà di non fare assolutamente nulla per spostarlo.
Il papà accusava la mamma di non volere togliere tutta la roba che era dentro l’armadio per renderlo più leggero e permettergli di spostarlo.
In casa c’era sempre tensione e sembrava che andasse sempre peggio.
Così il bambino si sforzava di spostare l’armadio, e ci provava in tutti i modi.
Niente!
L’armadio era sempre al suo posto.
Il bambino era tutto sudato e anche molto stanco.
Ci aveva messo tutta la sua forza.
“Hai usato proprio tutte le tue forze?” gli chiese Gesù con un tono di voce molto delicato.
“Si!” rispose il bambino, cercando di riprendere fiato.
“Non mi sembra,” ribatté Gesù, “anzi, direi proprio di no…

Pensaci bene.

Hai fatto proprio tutto quello che potevi fare per spostarlo?”
“Si!” rispose deluso e convinto il bambino.
“Guarda che non hai ancora usato la tua forza più grande!” disse Gesù con un bellissimo sorriso.
“Quale forza?” domandò il bambino con gli occhi spalancati per la meraviglia.
“Non mi hai chiesto di aiutarti.” disse dolcemente Gesù, “Io sono la tua forza più grande!”
Il bambino cominciò a pregare, e pregare, e pregare.
L’armadio non si spostò.
Ma il papà una sera, rientrando a casa, sembrava più sereno.
E, senza dire una parola, si mise a svuotare i cassetti dell’armadio.
La mamma lo vide e, dopo un po’, andò da lui dicendo:

“Aspetta che ti aiuto!”

Insieme vuotarono l’armadio cominciando a ridere di tutti gli episodi che quelle cose gli ricordavano.
Poi insieme spinsero l’armadio fuori della loro stanza da letto.
Insieme prepararono la cena, e insieme andarono a riposarsi sul divano, abbracciati l’uno all’altro.
Il bambino si tuffò felice in mezzo a loro.
Da quel giorno imparò non a spingere gli armadi, ma a spingere i suoi genitori ad andare insieme a Messa la domenica, perché anche loro potessero ricevere la forza di Gesù.
Passò ancora un po’ di tempo.
I genitori ed il bambino cominciarono a sentire il bisogno e il gusto di pregare insieme.
Ci si sentiva un po’ strani all’inizio su quel divano con la televisione spenta, ma poi era diventato il momento più bello della giornata.
Ci si sentiva uno dentro l’altro.
Ci si sentiva stanchi ma contenti, in una semplice e dolce pace.
Una colomba aveva preso l’abitudine di posarsi sul davanzale della loro finestra proprio mentre pregavano, chissà perché…
E fu così che, dopo qualche anno, in quella casa, gli armadi si spostavano con un solo dito.

Brano senza Autore

La ragazza ed il barbone

La ragazza ed il barbone

Un giorno, mentre passeggiava per strada, una ragazza notò un barbone che cantava in cambio di qualche monetina.
Non ci fece troppo caso ed entrò in una caffetteria.
Qualche minuto dopo aver presto posto ed aver ordinato, vide entrare il barbone.
Questi iniziò a contare le monetine, vicino a lei, ma con le offerte ricevute aveva raccolto solo poco più di un euro.

Titubante e deluso si avviò verso l’uscita,

ma la ragazza, avendo assistito a tutta la scena, impulsivamente, decise di offrigli un caffè ed un bel panino.
Il barbone indeciso se accettare o meno si convinse solamente quando la stessa ragazza lo invitò al suo tavolo.
Nonostante fosse rimasto sorpreso e combattuto dalla proposta si sedersi con lei, alla fine la raggiunse.
Iniziarono a parlare ed il barbone le fece diverse confidenze.
Le raccontò che la maggior parte delle volte le persone erano cattive nei suoi confronti,

solo per il fatto che vivesse per strada.

Le ammise anche che furono le droghe a farlo finire per la strada e che per questo si odiava.
Lui continuava a sognare di essere il figlio del quale la propria madre possa essere orgogliosa, nonostante la donna fosse morta per un tumore diversi anni prima.
I due parlarono per più di un’ora, ma ad un certo punto la ragazza si rese conto che il tempo era trascorso in fretta e che si era fatto molto tardi.
Nel momento in cui la ragazza stava per alzarsi, il barbone le chiese di aspettare solo un momento e si mise a scrivere qualcosa su un foglietto tutto spiegazzato.
Le diede il foglio di carta in mano e le chiese scusa per la sua brutta lettera, poi si salutarono.
Quando la ragazza aprì il biglietto capì di aver fatto qualcosa di molto più importante che offrire un semplice pasto ad un mendicante.

Sul foglietto c’era scritto:

“Mi sarei voluto suicidare oggi, ma grazie a te non lo voglio più fare.
Grazie bella persona.”
A volte un gesto generoso o solamente un sorriso possono fare la differenza, più di quanto possiamo immaginare.

Storia vera, liberamente ispirata al racconto autobiografico di Casey Fisher

Lo sai che hai due stupendi occhi verdi?

Lo sai che hai due stupendi occhi verdi?

“Non stia lì a perdere tempo con me.
Sono una poco di buono, faccio schifo a tutti e faccio schifo anche a me!”

Era una giovane arrabbiata.

Incrociò il parroco che l’aveva invitata a frequentare il gruppo dei giovani e con astio e amarezza snocciolò tutte le cose che non le piacevano di se stessa:
“Sono piatta e insignificante, ho un carattere insopportabile, ci provo con tutti, ma… nessuno mi vuole veramente, sono invidiosa delle mie amiche e in famiglia do sui nervi a tutti.
Che ci sto a fare in questo mondo?”
Il parroco la guardò e, dopo un momento di silenzio, le disse:

“Lo sai che hai due stupendi occhi verdi?”

… La ragazza tacque interdetta.
Il primo passo era fatto.

Brano tratto dal libro “La vita è tutto quello che abbiamo.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il monaco e l’abate

Il monaco e l’abate

C’era una volta un monaco che conduceva una vita serena e tranquilla.
Una sola inquietudine lo tormentava.
Aveva paura dell’eternità.
Gli eletti in Paradiso cantano le lodi di Dio come fanno i monaci.
Un conto è farlo per un po’ di tempo.

Ma per l’eternità!

Per felici che si possa essere alla presenza di Dio, dopo qualche milione d’anni chissà che noia!
Un giorno di autunno, se ne andò secondo la sua abitudine a passeggiare nel bosco che circondava il monastero.
L’aria era viva e leggera, profumata di erba e di fiori.
Il monaco sospirò pensando al suo problema.
Sopra la sua testa un usignolo cominciò a cantare.
Un canto così puro, modulato, melodioso che il monaco dimenticò i suoi pensieri per ascoltarlo.
Non aveva mai sentito niente di più bello.

Per un istante ascoltò estasiato.

Poi pensò che era ora di raggiungere il coro per la preghiera e si affrettò.
Stranamente avevano sostituito il frate portinaio con uno che non conosceva.
Passò un altro monaco e poi un altro che non aveva mai visto.
“Che cosa desidera?” gli chiese il portinaio.
Vagamente irritato, il nostro monaco rispose che voleva soltanto entrare per non essere in ritardo.
L’altro non capiva.
Il monaco protestò e chiese con veemenza di vedere l’abate.
Ma anche l’abate era uno sconosciuto e il povero monaco fu preso dalla paura.
Balbettando un po’, spiegò che era uscito dal monastero per una breve passeggiata e che si era attardato un attimo ad ascoltare il canto di un usignolo, ma che si era affrettato a rientrare per l’ufficio pomeridiano.

L’abate lo ascoltava in silenzio.

“Cento anni fa,” disse alla fine, “un monaco di questa abbazia, proprio in questa stagione e in quest’ora, è uscito dal monastero.
Non è più ritornato e nessuno l’ha più rivisto.”
Allora il monaco capì che Dio l’aveva esaudito.
Se cento anni gli erano parsi un istante nello stato d’estasi in cui l’aveva rapito il canto dell’usignolo, l’eternità non era che un istante nell’estasi in Dio.

Brano tratto dal libro “Il segreto dei pesci rossi.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Il gelso, il bruco e la farfalla

Il gelso, il bruco e la farfalla

C’era una volta un gelso centenario, pieno di rughe e di saggezza, che ospitava una colonia di piccoli bruchi.
Erano bruchi onesti, laboriosi, di poche pretese.
Mangiavano, dormivano e, salvo qualche capatina al bar del penultimo ramo a destra, non facevano chiasso.
La vita scorreva monotona, ma serena e tranquilla.
Faceva eccezione il periodo delle elezioni, durante il quale i bruchi si scaldavano un po’ per le insanabili divergenze tra la destra, la sinistra e il centro.
I bruchi di destra sostenevano che si comincia a mangiare la foglia da destra, i bruchi di sinistra sostenevano il contrario, quelli di centro cominciano a mangiare dove capita.
Alle foglie naturalmente nessuno chiedeva mai un parere.
Tutti trovavano naturale che fossero fatte per essere rosicchiate.
Il buon vecchio gelso nutriva tutti e passava il tempo sonnecchiando, cullato dal rumore delle instancabili mandibole dei suoi ospiti.
Bruco Giovanni era tra tutti il più curioso, quello che con maggiore frequenza si fermava a parlare con il vecchio e saggio gelso.
“Sei veramente fortunato, vecchio mio!” diceva Giovanni al gelso, “Te ne stai tranquillo in ogni caso.
Sai che dopo l’estate verrà l’autunno, poi l’inverno, poi tutto ricomincerà.

Per noi la vita è così breve.

Un lampo, un rapido schioccar di mandibole e tutto è finito!”
Il gelso rideva e rideva, tossicchiando un po’:
“Giovanni, Giovanni, ti ho spiegato mille volte che non finirà così!
Diventerai una creatura stupenda, invidiata da tutti, ammirata…”
Giovanni agitava il testone e brontolava:
“Non la smetti mai di prendermi in giro.
Lo so bene che noi bruchi siamo detestati da tutti.
Facciamo ribrezzo.
Nessun poeta ci ha mai dedicato una poesia.
Tutto quello che dobbiamo fare è mangiare e ingrassare.
E basta!”
“Ma Giovanni,” chiese una volta il gelso, “tu non sogni mai?”
Il bruco arrossì.
“Qualche volta.” rispose timidamente.
“E che cosa sogni?” domandò il vecchio gelso.
“Gli angeli,” disse il bruco, “creature che volano, in un mondo stupendo.”
“E nel sogno sei uno di quelli?” continuò il saggio gelso.
“…Sì.” mormorò con un fil di voce il bruco Giovanni, arrossendo di nuovo.

Ancora una volta, il gelso scoppiò a ridere.

“Giovanni, voi bruchi siete le uniche creature i cui sogni si avverano e non ci credete!” esclamò il vecchio albero.
Qualche volta, il bruco Giovanni ne parlava con gli amici.
“Chi ti mette queste idee in testa?” brontolava Pierbruco, “Il tempo vola, non c’è niente dopo!
Niente di niente.
Si vive una volta sola:
mangia, bevi e divertiti più che puoi!”
“Ma il gelso dice che ci trasformeremo in bellissimi esseri alati…” replicò Giovanni.
“Stupidaggini.
Inventano di tutto per farci stare buoni!” rispondeva l’amico.
Giovanni scrollava la testa e ricominciava a mangiare:
“Presto tutto finirà… scrunch… Non c’è niente dopo… scrunch… Certo, io mangio… scrunch … bevo e mi diverto più che posso… scrunch … ma … scrunch … non sono felice… scrunch…
I sogni resteranno sempre sogni.
Non diventeranno mai realtà.
Sono solo illusioni!” bofonchiava, lavorando di mandibole.
Ben presto i tiepidi raggi del sole autunnale cominciarono ad illuminare tanti piccoli bozzoli bianchi tondeggianti sparsi qua e là sulle foglie del vecchio gelso.
Un mattino, anche Giovanni, spostandosi con estrema lentezza, come in preda ad un invincibile torpore, si rivolse al gelso:
“Sono venuto a salutarti.

È la fine.

Guarda sono l’ultimo.
Ci sono solo tombe in giro.
E ora devo costruirmi la mia!”
“Finalmente!
Potrò far ricrescere un po’ di foglie!
Ho già incominciato a godermi il silenzio!
Mi avete praticamente spogliato!
Arrivederci, Giovanni!” sorrise il gelso.
“Ti sbagli gelso.
Questo… sigh … è… è un addio, amico!” disse il bruco con il cuore gonfio di tristezza, “Un vero addio.
I sogni non si avverano mai, resteranno sempre e solo sogni. Sigh!”
Lentamente, Giovanni cominciò a farsi un bozzolo.
“Oh!” ribatté il gelso, “Vedrai!”
E cominciò a cullare i bianchi bozzoli appesi ai suoi rami.
A primavera, una bellissima farfalla dalle ali rosse e gialle volava leggera intorno al gelso:
“Ehi, gelso, cosa fai di bello?
Non sei felice per questo sole di primavera?”

“Ciao Giovanni!

Hai visto, che avevo ragione io?” sorrise il vecchio albero, “O ti sei già dimenticato di come eri poco tempo fa?”

Parlare di risurrezione agli uomini è proprio come parlare di farfalle ai bruchi.
Molti uomini del nostro tempo pensano e vivono come i bruchi.
Mangiano, bevono e si divertono più che possono: dopotutto non si vive una volta sola?
Nulla di male, sia ben chiaro.
Ma la loro vita è tutta qui.
Per loro, la parola risurrezione non significa nulla.
Eppure non sono felici!

Brano di Bruno Ferrero

L’uomo che conosceva a memoria l’orario dei treni

L’uomo che conosceva a memoria l’orario dei treni

C’era una volta un uomo che sapeva a memoria l’orario ferroviario, perché l’unica cosa che gli dava gioia erano le ferrovie ed egli passava tutto il suo tempo alla stazione, guardava come i treni arrivavano e come ripartivano.
Osservava con meraviglia i vagoni, la forza delle locomotive, la grandezza delle ruote, etc, etc.
Conosceva ogni treno, sapeva da dove veniva, dove andava, quando sarebbe arrivato in un certo posto e quali treni ripartivano da quel posto e quando sarebbero arrivati.

Sapeva a memoria i numeri dei treni,

sapeva in che giorno viaggiavano e se avevano un vagone ristorante, se aspettavano o no delle coincidenze.
Sapeva anche quali treni avevano il vagone postale e quanto costavano i biglietti per le varie destinazioni.
Non aveva tempo per nient’altro nella vita, perché passava intere giornate alla stazione.
Quando poi, con la stagione, cambiava l’orario ferroviario, lui si studiava tutti i cambiamenti, imparava tutto a memoria.

Quando gli si chiedeva un’informazione, diventava raggiante:

non solo diceva l’orario di partenza e il numero del binario, ma aggiungeva anche tanti particolari superflui, come il numero dei vagoni, il numero del treno, tutte le possibili coincidenze, etc, etc.
Gli capitò che qualcuno lo piantò in asso, altrimenti il malcapitato avrebbe perso il treno.
In questi casi, si arrabbiava molto e gridava dietro alla persona che gli aveva chiesto informazioni:

“Lei non ha la minima idea di che cosa sia la ferrovia!

Lei non la conosce come la conosco io!”
Ma… lui personalmente non era mai salito su un treno in vita sua!
Li conosceva così bene dall’esterno che non sentì mai il bisogno di sperimentare che cosa fosse veramente viaggiare in treno.

Brano senza Autore, tratto dal Web