Le quattro mogli

Le quattro mogli

C’era un ricco commerciante che aveva quattro mogli.
Lui amava la sua quarta moglie più di tutte e l’adornava con vestiti eleganti e la trattava con tanta dolcezza.
Si prendeva grande cura di lei, e non le faceva mancare nulla e le dava sempre il meglio di tutto.
Amava moltissimo anche la terza moglie.
Era molto orgoglioso di lei ed era sempre quella che mostrava ai suoi amici.
Il commerciante temeva sempre comunque che lei fuggisse con gli altri uomini.

Lui amava anche la sua seconda moglie.

Era una persona molto premurosa, sempre paziente e confidente del commerciante.
Ogni qualvolta il commerciante affrontava dei problemi, si rivolgeva sempre alla sua seconda moglie e lei riusciva ad aiutarlo e a farlo uscire dai momenti difficili.
Ora, la prima moglie del commerciante era una partner molto fedele e aveva dato grandi contributi nel fargli mantenere la sua ricchezza, gli affari e la cura della famiglia.
Comunque, il commerciante non amava la prima moglie ed anche se lei l’amava profondamente, lui non si prendeva cura di lei.
Un giorno, il negoziante cadde ammalato.
Di lì a poco, capì di stare in punto di morte.
Pensò allora a tutta la sua vita agiata e disse fra sé e sé:
“Ora ho quattro mogli con me.
Ma quando io muoio, me ne andrò da solo.
Come sarò solo!”

Così disse alla quarta moglie:

“Io ti ho amato di più, ti ho dato i migliori vestiti e ho avuto la massima cura di te.
Ora che io sto morendo, vuoi seguirmi e tenermi compagnia?”
“In nessun modo!” rispose la quarta moglie e si allontanò senza altre parole.
La risposta fu come una rasoiata nel cuore del commerciante.
Egli allora tristemente chiese alla terza moglie:
“Io ti ho tanto amato per tutta la mia vita.
Ora che sto morendo, vuoi seguirmi e tenermi compagnia?”
“Neanche per sogno!” rispose la terza moglie.
“La vita qui è così bella!
Quando morirai, subito mi sposerò di nuovo!”
Il cuore del commerciante ebbe un sussulto e diventò gelido.

Domandò poi alla seconda moglie:

“Mi sono sempre rivolto a te per aiuto e tu sempre mi hai aiutato.
Ora ho bisogno di nuovo del tuo aiuto.
Ora che sto morendo, vuoi seguirmi e tenermi compagnia?”
“Sono spiacente, ma non posso aiutarti.
Tutt’al più posso provvedere al tuo funerale!”
La risposta arrivò come una deflagrazione devastante.
Quand’ecco una voce che diceva:
“Io verrò con te!
E non mi preoccuperò di dove andrai”
Il commerciante si girò intorno e vide la sua prima moglie…
Era così magra e malnutrita!
Grandemente si addolorò, ed esclamò:
“Mi sarei dovuto prendere più cura di te quando avrei potuto!”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Peter e il filo magico

Peter e il filo magico

C’era una volta Peter, un ragazzino molto vivace a cui tutti volevano bene: la sua famiglia, i suoi maestri e i suoi amici…
Ma Peter aveva un piccolo, grande problema.
Peter non riusciva a vivere il presente.
Non aveva imparato a godere della vita.
Quando era a scuola, sognava di essere fuori a giocare.
Quando giocava, sognava di essere già in vacanza.
Peter sognava sempre ad occhi aperti, non godendosi mai il presente che la vita gli offriva.
Un mattino, Peter stava camminando nel bosco vicino a casa.
Siccome si sentiva stanco, decise di fermarsi in una radura e di fare un pisolino.
Si addormentò come un sasso, ma dopo qualche minuto, si sentì chiamare per nome:
“Peter, Peter!” ripeteva una voce stridula.

Quando aprì gli occhi… sorpresa!

Si ritrovò dinnanzi una donna vecchia di almeno cent’anni, con i capelli candidi che le ricadevano sulle spalle come matasse di lana arruffata.
Nella mano rugosa aveva una pallina magica, con un foro nel centro da cui pendeva un lungo filo dorato.
“Peter,” disse la vecchia, “questo è il filo della vita.
Se lo tiri piano piano, in pochi secondi passerà un’ora, se tiri più forte, in pochi minuti passeranno giorni interi.
Se tiri con tutta la tua forza, in pochi giorni passeranno dei mesi o addirittura degli anni!”
Peter era eccitato dalla scoperta.
“Oh, mi piacerebbe tanto averlo!” esclamò smanioso.
Allora la vecchietta si chinò e gli diede la pallina con il filo magico.
Il giorno dopo, Peter era seduto nel suo banco a scuola, e si sentiva annoiato e irrequieto. Improvvisamente si ricordò del suo nuovo giocattolo.

Tirò il filo pian piano e si trovò subito a casa, a giocare nel suo giardino.

Rendendosi conto dei poteri del filo magico, Peter presto si stancò di andare a scuola e desiderò essere un ragazzo più grande, alla scoperta della vita.
Allora tirò il filo un po’ più forte e si ritrovò adolescente, con una ragazza di nome Elise.
Ma Peter non era ancora soddisfatto.
Egli non era in grado di cogliere la bellezza di ogni istante e di esplorare le semplici meraviglie offerte dalle diverse fasi della vita.
Sognava invece di essere già adulto, e così tirò di nuovo il filo, sicché gli anni passarono in un lampo.
Si ritrovò allora trasformato in un uomo maturo.
Elise era diventata sua moglie e Peter era circondato da tanti bambini.
Ma notò un’altra cosa:
i suoi capelli neri avevano iniziato a diventare grigi, e la sua dolce e adorata mamma era diventata vecchia e debole.

Eppure, Peter ancora non riusciva a vivere il presente.

Perciò, tirò un’altra volta il filo d’oro e attese la nuova trasformazione.
Adesso aveva novant’anni.
Ormai i suoi folti capelli scuri erano diventati bianchi come la neve e la moglie, un tempo bellissima, era morta già da qualche anno.
I suoi deliziosi bambini erano cresciuti ed erano usciti di casa per vivere la loro vita.
Così, a un tratto, Peter si rese conto di non essersi mai fermato a godere di nulla.
Non era mai andato a pescare con suo figlio, non aveva mai fatto una passeggiata al chiaro di luna con sua moglie, non aveva mai piantato un albero… e non aveva mai nemmeno trovato il tempo di leggere quei bellissimi libri che tanto piacevano a sua madre.
Era sempre andato di corsa, senza fermarsi a guardare le bellezze che adornavano il suo cammino.

Questa scoperta rattristò molto Peter.

Allora, per riordinare le idee e rasserenarsi un po’, decise di andare a fare un giro nel bosco dove era solito giocare da bambino.
Entrò nel bosco, si accorse che gli alberelli della sua infanzia erano diventati querce gigantesche; era stupendo, sembrava di trovarsi in un Paradiso Terrestre.
Allora si distese sull’erba di una radura e si addormentò profondamente.
Dopo qualche minuto, qualcuno lo chiamò: “Peter, Peter!”
Aprì gli occhi e con suo grande stupore rivide la vecchia che gli aveva regalato la pallina molti anni prima.
“Ti è piaciuto il mio regalo?” chiesa la vecchia.
“All’inizio è stato divertente, ma ora lo odio a morte.” disse Peter, “Tutta la vita mi è passata davanti agli occhi senza che potessi goderne un solo istante.
Certo, ci saranno anche stati dei momenti molto belli e altri molto tristi, ma non ho avuto la possibilità di coglierli.

Ora mi sento vuoto, mi manca il dono della vita!”

“Sei davvero un ingrato!” disse la vecchietta, “Ma ti concederò di esprimere un ultimo desiderio.”
Peter ci pensò un istante e poi rispose fulmineamente:
“Vorrei ridiventare bambino e riprovare a vivere daccapo!”
Poi si riaddormentò.
A un tratto sentì di nuovo che qualcuno lo chiamava, e si risvegliò.
“Chi sarà questa volta?” si chiese.
Quando aprì gli occhi, scoprì con gioia che era sua madre che lo stava chiamando, e che era tornata giovane, sana e forte.
Allora Peter si rese conto che la vecchietta aveva mantenuto la promessa e che l’aveva riportato all’infanzia.
“Su, Peter, dormiglione!
Se non ti sbrighi ad alzarti farai tardi a scuola!” lo ammoniva sua madre.
Naturalmente Peter scattò su dal letto e da quel momento incominciò a vivere come aveva sperato: una vita piena, ricca di gioie, soddisfazioni e successi…
Ma tutto ebbe inizio quando smise di sacrificare il presente per il futuro e si rese conto di dovere vivere nell’oggi.

Brano tratto dal libro “Il monaco che vendette la sua Ferrari.” di Robin Sharma

Il volo di Gea

Il volo di Gea

L’uccellino cinguettava “ciu ciiiiuciu ciu” e i clienti del bar del Signor Antonio entravano volentieri a prendere un caffè nella terrazza per ascoltare il suo canto delicato e trillante come tanti campanellini.
La sua voce argentina sembrava intonare un canto allegro e spensierato per la gioia dei clienti del bar che lo ascoltavano distratti e non vedevano la tristezza e la solitudine nei suoi piccoli occhi di uccellino.
Lui invece cantava ma non di allegria, il suo canto aveva parole tristi e malinconiche che gli ricordavano la sensazione del vento tra le piume delle ali e lo spettacolo magnifico delle chiome degli alberi viste da lassù, volando.

Mentre cantava riusciva a non pensare alle sbarre della gabbietta e alla noia delle giornate che si ripetevano monotone.

Un giorno però successe qualcosa, una bambina entrando nel bar per comprare un gelato ascoltò il suo canto e si sentì improvvisamente triste senza sapere bene il perché.
Allora guardò negli occhi il piccolo uccellino, si accorse che la tristezza veniva proprio da quel canto e si avvicinò alla gabbia.
“Perché sei triste?” sussurrò la bimba.
“Ciu ciiiu ciu!” trillò l’uccellino.
Gea, così si chiamava la bambina, aveva un segreto per capire gli altri anche quando le parole non erano d’aiuto:
si immaginava di essere al loro posto, si metteva nei panni degli altri per capire le loro emozioni.
E così fece, si immaginò di vivere chiusa in una piccola gabbia senza poter correre e giocare con gli amici.
Chiuse gli occhi per concentrarsi e all’improvviso sentì un formicolio alle gambe, come quando stava molto tempo nella stessa posizione:

“Forse è proprio quello che sente quest’uccellino:

di certo gli formicolano le ali per non poterle aprire e forse è triste perché non è libero di volare come gli altri uccelli”, pensò.
Per un momento le sembrò quasi che le fossero spuntate le ali e sentì un forte desiderio di volare in alto nel cielo.
Senza pensarci due volte Gea aprì la piccola gabbia sperando che nessuno la vedesse e l’uccellino la guardò cercando di capire perché quella bambina gli aveva dato la libertà.
Avrebbe voluto dimostrarle la sua gratitudine ma non sapeva come fare, allora fece un ultimo cinguettio di addio e seguì il suo istinto che gli diceva di aprire le ali e volare via.
I clienti del bar senza capire cosa fosse successo si fermarono un istante,

fu una frazione di secondo in cui sembrava che il tempo si fosse fermato.

Nessun cucchiaino suonava contro il bordo della tazza, i ragazzi che scherzavano interruppero le loro risate e persino i cellulari per un attimo smisero di suonare.
In silenzio Gea usci dal bar mangiando il suo gelato e si ritrovò a camminare per strada con lo sguardo rivolto verso il cielo, cercando distrattamente quell’uccellino dallo sguardo triste.
All’improvviso cominciò a sentire il fruscio del vento tra le dita, l’aria fresca le accarezza il viso e il rumore del traffico si sentiva in lontananza, ovattato.
Chiuse gli occhi per assaporare quella sensazione di libertà e, con gli occhi chiusi, vide la città dall’alto, il porto con le barche dei pescatori e le colline alle spalle.
Capi che era il regalo d’addio dell’uccellino, il suo modo di dirle grazie:
stava volando con lui e osservando il mondo con i suoi occhi.

Brano tratto dal libro “Chi ha paura del lupo?” di Viola Mariani

Il Re che non sapeva ascoltare

Il Re che non sapeva ascoltare

C’era una volta un Re che non sapeva ascoltare.
Quando i suoi sudditi si rivolgevano a lui, li interrompeva non appena aprivano bocca e gridava: “Va bene, va bene, ho capito!
Ti credo!
Guardie, dategli mille monete d’oro!”
Oppure:
“Basta, basta, non ti credo!
Guardie, frustatelo e buttatelo fuori di qui!”
Insomma, il Re era un tipo lunatico e agiva secondo il suo umore.
Non voleva saperne di ascoltare, e quindi era buono e generoso con le persone sbagliate, e viceversa.

I sudditi lo sapevano bene, cercavano di girare alla larga dal castello e speravano ardentemente di non aver mai niente a che fare con il re.

Ma quelli che ci rimettevano più degli altri erano la sua povera moglie e i due principini, perché il re non solo non li ascoltava, ma giudicava stupido e senza senso tutto quello che loro dicevano.
Li criticava continuamente e non prestava mai attenzione alle loro parole, neppure quando gli parlava con la voce del cuore e dell’affetto.
Se, per esempio, la principessina Adelaide si avvicinava al regale papà per mostrargli il disegno fatto a scuola, dicendo timidamente:
“Papà, guarda questo…” il re la interrompeva con aria infastidita e borbottava:
“Va bene, va bene eccoti una moneta d’oro…”
Se il principino Roberto osava chiedere:
“Dove vanno quelli che muoiono?” il regale papà lo zittiva dicendo:

“Piantala con queste stupidaggini!”

Un giorno, il re e la regina litigarono furiosamente, e dal momento che la donna ribadiva le sue ragioni, il re la spinse giù dal trono.
Poi si mise a spiegare alla moglie che se le aveva fatto del male era per il suo bene, e che avrebbe dovuto ringraziarlo, per questo.
La regina, profondamente offesa e indignata, con le ossa rotte e doloranti, gli lanciò una terribile maledizione:
“Che te ne fai di due orecchi, dal momento che non ascolti mai nessuno?
Tu non fai che parlare: bla, bla bla e ancora bla!
Vorrei che ti cadessero le orecchie e che ti venissero due bocche!”
Il Mago Cavatorti, lontano parente della regina, si trovava per caso nelle vicinanze e sentì la maledizione della donna.
Conosceva il re, e sapeva di cosa era capace.
Così, impietosito dalla triste sorte della regina, esaudì il suo desiderio.

Il Mago si presentò al re e gli agitò sotto il naso la nodosa bacchetta di legno di nespolo.

Il re che non voleva mai ascoltare cadde in un sonno profondo, e quando si risvegliò si ritrovò con due bocche identiche, una accanto all’altra, e un orecchio minuscolo sulla fronte, vagamente simile a un cece.
Le altre due orecchie, invece, giacevano sul cuscino come foglie secche.
All’inizio, il re ringraziò il Mago per quel bellissimo regalo.
Adesso poteva parlare più velocemente e ad alta voce.
Ma ben presto si rese conto che non riusciva più a stare zitto.
Parlava, parlava sempre, senza un attimo di tregua.
E mentre beveva e mangiava con una bocca, con l’altra continuava a parlare.

Per i poveri sudditi le cose peggiorarono.

Se prima non ascoltava, adesso il re non faceva che straparlare e interrompere gli altri.
E la moglie che già non sopportava una bocca del marito, con la seconda non ce la faceva proprio più.
Inoltre, il re ora russava il doppio, e la notte non le faceva chiudere occhio.
Con il passare del tempo, il re cominciò ad ascoltare solo le sue due voci, ed amici e nemici presero ad evitarlo come la peste.
Insomma, era insopportabile.
Anche gli affari di stato peggiorarono.
Quando arrivavano gli ambasciatori dei regni vicini con i messaggi dei loro sovrani, il re non prestava la minima attenzione alle loro parole, anzi se quelli parlavano di “terra” capiva “guerra”, se dicevano “doni” pensava ai “cannoni.”
Così, poco alla volta, tutti lo abbandonarono.

Il re fu avvolto da una terribile solitudine e cominciò a rendersi conto dei suoi errori.

Decise che da allora in poi avrebbe tenuto sempre conto della dura lezione che il Mago gli aveva impartito.
Adesso teneva la bocca, anzi le due bocche chiuse, e con il suo piccolo orecchio si sforzava di ascoltare meglio di quando ne aveva due.
In cuor suo, anzi, sperava che il Mago tornasse con la sua bacchetta di nespolo per ridargli le sue due orecchie, che ora rimpiangeva con tutte le sue forze.
Passarono gli anni e la regina cominciò a provare una gran pena per il marito.
Persino i sudditi e i sovrani dei regni vicini avevano dimenticato l’astio che avevano sempre provato nei suoi confronti e si auguravano che venisse perdonato.
Ma trascorsero parecchi anni prima che il Mago Cavatorti si decidesse a tornare da lui.
“Riconosci i tuoi errori?” gli chiese, scuro in volto.

Il re annuì.

“E faresti qualsiasi cosa pur di avere due orecchi e una bocca?”
Il re era pronto a tutto.
Il Mago agitò la sua bacchetta al contrario e il re si ritrovò con una bocca sola e due splendidi orecchi nuovi.
Invece di ricominciare come prima, si fermò ad ascoltare il canto degli uccelli, la musica del vento, le voci dei bambini.
Era la prima volta e gli vennero le lacrime agli occhi per la commozione.
La regina, il principe Roberto e la principessa Adelaide lo abbracciarono e gli dissero:
“Ti vogliamo bene!”
Il re pensò che non aveva mai sentito niente di più bello in tutta la sua vita e che era stato proprio stupido a non accorgersene prima.

Brano di Bruno Ferrero

Qual è la parte più importante del nostro corpo?

Qual è la parte più importante del nostro corpo?

Quando ero ragazzina, mia madre mi chiese quale fosse la parte più importante del corpo.
Mi piaceva moltissimo ascoltare musica, come ai miei amici del resto.
Sul momento pensai che l’udito fosse molto importante per gli esseri umani, così risposi:

“Le orecchie.”

“Alcune persone sono sorde, eppure vivono felicemente!” rispose mia madre.
Dopo qualche tempo, mia madre mi rifece la stessa domanda:
“Qual è la parte più importante del corpo umano?”
Io intanto ci avevo pensato e credevo di avere la risposta giusta:
“Vedere è meraviglioso ed è molto importante per tutti, quindi… gli occhi.”
Lei mi guardò e disse:

“Molti sono ciechi e se la cavano benissimo!”

Pensavo che fosse solo una specie di gioco tra me e mia madre.
Poi però un giorno, tristissimo per me, morì mio nonno.
Era una persona molto importante per me.
L’amavo tantissimo.
Ero distrutta dal dolore.
Quel giorno mia madre mi disse:
“Oggi è il giorno giusto perché tu possa capire la risposta alla domanda.
La parte più importante del corpo sono le spalle!”
Sorpresa, dissi:

“Perché sostengono la testa?”

“No!” rispose mia madre, “Perché su di esse possono appoggiare la testa gli amici o le persone care quando piangono.
Tutti abbiamo bisogno di una spalla su cui piangere in alcuni momenti della nostra vita.”
Quella volta scoprii quale fosse la parte più importante del mio corpo, perché in quel momento, quella che aveva bisogno di una spalla su cui piangere ero io.

Brano senza Autore

La ricerca di Dio

La ricerca di Dio

Tre giovani avevano compiuto diligentemente i loro studi alla scuola di grandi maestri.
Prima di lasciarsi fecero una promessa:
avrebbero percorso il mondo e si sarebbero ritrovati, dopo un anno, portando la cosa più preziosa che fossero riusciti a trovare.
Il primo non ebbe dubbi:
partì alla ricerca di una gemma splendida ed inestimabile.
Attraversò mari e deserti, salì sulle montagne e visitò città fino a quando non l’ebbe trovata:

era la più splendida gemma che avesse mai brillato sotto il sole.

Tornò allora in patria in attesa degli amici.
Il secondo tornò poco dopo tenendo per mano una ragazza dal volto dolce ed attraente.
“Ti assicuro che non c’è nulla di più prezioso di due persone che si amano!” disse al primo amico. Si misero ad aspettare il terzo.
Molti anni passarono prima che quest’ultimo arrivasse.
Era infatti partito alla ricerca di Dio.
Aveva consultato i più famosi maestri di spiritualità esistenti sulla terra, ma non aveva trovato Dio.
Aveva studiato e letto, ma senza trovare Dio.

Aveva rinunciato a tutto, ma non era riuscito a trovare Dio.

Un giorno, stremato per il tanto girovagare, si abbandonò nell’erba sulla riva di un lago.
Incuriosito seguì le affannate manovre di un’anatra che in mezzo ai canneti cercava i suoi piccoli, che si erano allontanati da lei.
I piccoli erano numerosi e vivaci, e sino al calar del sole l’anatra cercò, nuotando senza sosta tra le canne.
Proseguì instancabile riconducendo sotto la sua ala fino all’ultimo dei suoi nati.
Allora l’uomo sorrise e decise di ritornare al paese.
Quando gli amici lo rividero, uno gli mostrò la gemma e l’altro la ragazza che era diventata sua moglie.
Poi, pieni di attesa, gli chiesero:
“E tu, che cosa hai trovato di tanto prezioso?

Deve essere qualcosa di magnifico se hai impiegato tanti anni.

Lo vediamo dal tuo sorriso…”
“Ho cercato Dio.” rispose il giovane.
“E lo hai trovato?
È per questo che hai impiegato così tanto tempo?” chiesero i due, sbalorditi.
“Sì, l’ho trovato.
E se ho impiegato tanto tempo era perché commettevo l’errore di andare a cercare Dio, mentre in realtà, era Lui che stava cercando me.”

Brano senza Autore, tratto dal Web

L’esperto di quadri

L’esperto di quadri

C’era una volta un vecchietto che aveva un grave problema di miopia.
Nonostante il suo handicap era un esperto nel valutare le opere d’arte e di questo si vantava.

Un giorno visitò il Louvre di Parigi con la moglie ed alcuni amici,

ma nell’entrare inciampò e gli si ruppero gli occhiali.
Dopo l’incidente non sarebbe riuscito a vedere in modo nitido i quadri e il loro soggetto.
Questo però non gli impedì di manifestare le sue vantate competenze.

Appena entrarono nel primo salone,

il vecchietto cominciò a criticare i vari quadri in esposizione.
Fermandosi davanti a quello che pensava fosse il ritratto di un corpo intero, iniziò a sproloquiare e con aria di superiorità disse:
“La cornice è assolutamente inadeguata all’immagine.
L’uomo è vestito in modo molto ordinario e trascurato.
L’artista ha commesso un errore imperdonabile, scegliendo un soggetto così volgare e sporco per quel ritratto.

È una mancanza di rispetto verso i visitatori.”

Il vecchietto continuò il suo chiacchiericcio senza smettere, fin quando sua moglie riuscì a giungere fino a lui discretamente.
All’orecchio gli disse a bassa voce:
“Mio caro, stai guardando uno specchio.”

Brano senza Autore, tratto dal Web

La valigia vuota

La valigia vuota

Un uomo morì.
A un certo punto vide avvicinarsi Dio, portando con sé una valigia.
E dio disse:
“Figlio, è ora di andare.”
L’uomo stupito domandò:
“Di già? Così presto? Avevo tanti piani.”
“Mi dispiace ma è giunta la tua partenza.” replicò dolcemente Dio.
“Cosa porti nella valigia?” chiese l’uomo.
E Dio gli rispose: “Ciò che ti appartiene!”

“Quello che mi appartiene?

Porti le mie cose, i miei vestiti, i miei soldi?” domandò nuovamente l’uomo.
Dio spiegò: “Quelle cose non ti sono mai appartenute, erano del mondo.”
La conversazione continuò:
“Porti i miei ricordi?” chiese ancora l’uomo
E Dio rispose: “Quelli non ti sono mai appartenuti, erano del tempo.”
“Porti i miei talenti?”
“Quelli non ti sono mai appartenuti, erano delle circostanze.”
“Porti i miei amici, i miei familiari?”
“Mi dispiace, loro mai ti sono appartenuti, erano del cammino.”
“Porti mia moglie e i miei figli?”
“Loro non ti sono mai appartenuti, erano del cuore.”

“Porti il mio corpo?”

“Mai ti è appartenuto, il corpo era della polvere.”
“Allora porti la mia anima?”
“No, l’anima è mia.”
Allora l’uomo pieno di paura scaraventò via la valigia che Dio portava con sé e aprendosi vide che era vuota.
Con una lacrima che scendeva dagli occhi, l’uomo disse:
“Non ho mai avuto niente?”
“Così è, ogni momento che hai vissuto è stato solo tuo.
La vita è un solo momento.

Un momento solo tuo.

Per questo mentre hai il tempo sfruttalo nella sua totalità.
Che nulla di quello che ti è appartenuto possa trattenerti.
Vivi ora, vivi la tua vita e non dimenticare di essere felice, è l’unica cosa che vale davvero la pena.
Le cose materiali e tutto il resto per cui hai lottato restano qui.
Apprezza chi ti apprezza, non perdere tempo con coloro che non hanno tempo per te.

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il gioiello nascosto

Il gioiello nascosto

Un giorno un uomo, dopo essersi abbuffato in un abbondante banchetto, cadde in un sonno profondo.
Passò un caro amico, restò un po’ di tempo presso di lui e,

quando dovette andarsene,

temendo che l’amico potesse trovarsi nel bisogno, gli mise un gioiello nel bavero dell’abito.
Quando l’uomo si risvegliò, ignaro del gesto dell’amico, condusse la sua solita vita errabonda, vivendo nella fame e nella miseria.

Passarono gli anni e i due amici si incontrarono di nuovo.

L’amico gli disse del gioiello e l’uomo, rovistando nel suo abito, subito lo trovò.
Incredulo, si rattristò amaramente riflettendo sul fatto che per tutti quegli anni avesse condotto una vita miserabile avendo con sé un gioiello di tale valore.

Allo stesso modo, gli uomini vagano tra le sofferenze di questo mondo,

ignari che tra le pieghe più profonde del proprio essere è nascosto il gioiello del pieno risveglio.

Racconto Buddista
Brano senza Autore, tratto dal Web

Il Trafiletto di Giornale (I dolci ricordi ed una delusione)

Il Trafiletto di Giornale
(I dolci ricordi ed una delusione)

Qualche tempo fa, mentre stavo sfogliando le pagine di un quotidiano, la mia curiosità fu attirata dal titolo di un trafiletto del giornale stesso, la cui intestazione era:
“I DOLCI RICORDI E UNA DELUSIONE.”
Sorpreso da questo strano titolo, cominciai a leggerlo, e quando lo conclusi, mi fece pensare tanto, e tutt’ora quando mi ritorna in mente questo articolo, inizio sempre a riflettere.
Era talmente coinvolgente, che qualche giorno dopo lo andai perfino a ricercare sulle pagine internet di quel quotidiano,

e dopo pochi minuti, finalmente lo trovai e iniziai a rileggerlo:

“In un caldo pomeriggio di qualche anno fa, due miei amici che in quel periodo non vedevo da diversi mesi, mi invitarono a prendere parte ad un evento che avevano organizzato insieme ad altre persone; colsi al volo l’occasione e andai con loro, così li avrei finalmente rivisti.
Oltre ad esserci raccontati le nostre avventure recenti all’inizio della giornata, durante questo avvenimento riuscii a conoscere diversi partecipanti, tra cui una ragazza che prima di quel momento non avevo mai notato, molto graziosa e solare con due occhi bellissimi che lasciavano senza fiato, con la quale ci presentammo, dopodiché ognuno ritornò dal proprio gruppo.
L’evento finì e la giornata si concluse con una cena tra coloro che erano intervenuti.
Avevo quasi dimenticato di aver conosciuto quella ragazza, finché non capitò che nei giorni seguenti mi trovai più volte a parlare con lei, dato che usciva con un gruppo di miei conoscenti.
Tra i suoi amici c’era anche una ragazza, la sua migliore amica,

che era entusiasta di vederci insieme ogni qual volta ci incontravamo e parlavamo.

A queste brevi chiacchierate, seguirono sguardi coinvolgenti, finché ad un certo punto ci scambiammo i numeri di telefono. Iniziammo a inviarci messaggi, e parlammo un po’ di tutto…
Anche se nei momenti in cui ci incontravamo dal vivo sembrava fosse infatuata, al punto che anche qualcuna delle persone che usciva con me se ne era resa conto, scambiandoci messaggi risultò abbastanza fredda, ma sempre e comunque cordiale; inizialmente per me era solo una nuova amicizia, dato che tra i tanti argomenti, mi aveva anche detto che qualche mese prima aveva chiuso una relazione per lei importante e stava cercando di riprendersi.
Continuammo a sentirci molto frequentemente per più di un mese e i modi di fare di questa ragazza mi intrigarono sempre di più, non so come mai (infatti come accadeva molto spesso, in due giorni consecutivi, il primo giorno avevamo una corrispondenza tecnologica molto fitta, mentre il giorno dopo scompariva per poi ricomparire quello successivo, sempre con infinita cordialità e dolcezza).

Finché un giorno mi spinsi a chiederle se entrambi avessimo lo stesso interesse, l’uno verso l’altro…

La risposta non fu quella che mi sarei aspettato, ma comunque continuammo a sentirci,
probabilmente perché avevamo lasciato un segno l’uno nell’altro, anche se in maniera un po’ sporadica rispetto a prima.
Passarono i giorni, i mesi, e piano piano finimmo per sentirci sempre di meno, finché in seguito ad una “lite futile”, scaturita da alcuni messaggi che ci eravamo inviati sul cellulare, non ci sentimmo più per diversi anni…

Qualche mese dopo questa discussione,

venni a sapere che da quando avevamo iniziato ad approfondire il nostro rapporto, non diede più confidenza ad un ragazzo con cui si stava conoscendo in quel momento, nonostante con me non fosse scoccato nulla; stranamente infatti, mi capitò di uscire con questo ragazzo e mi parlò di lei, senza che io gli avessi chiesto o accennato alcunché della mia storia (anche se lei non hai mai saputo che io venni a conoscenza di questa storia)…
Da quei giorni sono trascorsi più di tre lustri e io ebbi per diverso tempo un forte rimorso, pensai tante volte che era stato un peccato averla incontrata in un periodo della sua vita in cui non tutto girava per lei, forse in un qualunque altro momento sarebbe stato tutto diverso, se solo avesse reagito un po’ di più quando ci stavamo conoscendo.
Avrei voluto e dovuto conquistarla, sarei dovuto rimanere in contatto con lei anche solo come amici, le avrei dovuto dire tutto ciò che pensavo, anche solo una semplice frase, tipo quella che ora mi sta venendo in mente: “sei estremamente meravigliosa piccolina”. Ma…

Oggi ho pensato di raccontare questa storia ai miei tre bambini,

dato che stiamo trascorrendo qualche giorno di ferie nel mio paese e tutta questa avventura mi è ritornata in mente, ma ripensandoci ho preferito scriverla non appena siamo rientrati in città e ho deciso di farla pubblicare su un giornale; ora che ho terminato vado a farla ascoltare a loro, in modo che non solo io ricordi la ragazza che mi guadava con gli occhi sgranati, che non era riuscita a dirmi “ti amo”, ma in quel momento non lo poteva fare…
Che oggi è la loro mamma, e con queste poche parole colgo l’occasione per farle gli auguri per il nostro DECIMO ANNIVERSARIO DI MATRIMONIO, per ricordarle come e quando ci siamo conosciuti nel nostro piccolo paesino d’origine.

Piccolina, un grande bacio da tuo marito.”

Ogni qualvolta riprendo questo racconto penso a quanto le casualità incidano nella nostra vita, conoscere una persona in un momento non propizio, può scombussolare la vita di chiunque.
Anche se, tocca solo a noi saper scrivere e riempire le pagine vuote della nostra vita, sapendo rischiare, mettendosi in gioco, accettando sia i momenti positivi che quelli negativi.
Inoltre, aver letto questa storia in un determinato periodo, mi ha aiutato a trovare gli stimoli giusti quando stavo attraversando un brutto momento con la mia attuale fidanzata e la stavo per perdere, e per continuare ad averla affianco, in quel momento ho rischiato molto riuscendo fortunatamente a farle capire che rappresentava tutto per me e che insieme saremmo riusciti a superare qualunque difficoltà.
Per ora ci stiamo riuscendo, cercando insieme di rendere ogni cosa possibile e realizzabile.

Brano di Michele Bruno Salerno
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