L’arancia di Natale (L’amicizia)

L’arancia di Natale (L’amicizia)

Un anziano e ricco signore inglese racconta:
“Avevo perso i miei genitori da ragazzo e all’età di nove anni ero stato mandato in un orfanotrofio vicino a Londra.
Sembrava una prigione.
Dovevamo lavorare 14 ore al giorno, in giardino, in cucina, nelle stalle, nei campi.
Così tutti i giorni.
C’era un solo giorno di festa:
il giorno di Natale.
L’unico giorno in cui ogni ragazzo riceveva un regalo:

un’arancia.

Niente dolci.
Niente giocattoli.
Per di più l’arancia veniva data solo a chi non aveva fatto nulla di male durante l’anno ed era sempre stato obbediente.
Questa arancia a Natale rappresentava il desiderio dell’anno intero.
Ricordo il mio primo Natale all’orfanotrofio.
Ero tristissimo.
Mentre gli altri ragazzi passavano accanto al direttore dell’orfanotrofio e tutti ricevevano la loro arancia, io dovevo stare in un angolo del dormitorio.
Questa era la mia punizione per aver voluto scappare dall’orfanotrofio, un giorno d’estate.
Finita la distribuzione dei regali, gli altri ragazzi andarono a giocare in cortile.

Io dovevo stare in dormitorio tutto il giorno.

Piangevo e mi vergognavo.
Mi ero messo una coperta fin sulla testa e stavo rannicchiato là sotto.
Dopo un po’ sentii dei passi nella stanza.
Una mano tirò via la coperta.
Guardai.
Un ragazzino di nome William stava in piedi davanti al mio letto, aveva un’arancia nella mano destra e me la tendeva sorridendo.
Non capivo.
Le arance erano contate, da dove poteva essere arrivata un’arancia in più?
Guardai William e il frutto e improvvisamente mi resi conto che l’arancia era già stata sbucciata e, guardando più da vicino, tutto mi divenne chiaro.
Sapevo che dovevo stringere bene quell’arancia perché non si aprisse.

Che cosa era successo?

Dieci ragazzi si erano riuniti in cortile e avevano deciso che anch’io dovevo avere la mia arancia per Natale.
Ognuno di essi aveva tolto uno spicchio dalla sua arancia e i dieci spicchi erano stati accuratamente messi insieme per creare una nuova, rotonda e delicata arancia.
Quell’arancia è stato il più bel regalo di Natale della mia vita.
Mi ha insegnato quanto può essere confortante la vera amicizia.

Brano senza Autore

Il “gioco” degli sguardi

Il gioco degli sguardi

Alla cortese attenzione della rivista “Raccontaci la tua estate”:

Nei primi giorni di ottobre del 1987, alla soglia dei trent’anni, fui nominato dal provveditore agli studi di Macerata per un incarico annuale fino al 30 giugno, come professore di lettere in un istituto alberghiero.
Nato e cresciuto a Nuoro, dopo la laurea ed il dottorato presso l’università di Cagliari, lasciavo la mia bella Sardegna per la terraferma.
Accettai al volo poiché, dopo aver terminato il dottorato, avevo ricoperto solo qualche breve supplenza in una scuola media di Cagliari.
Quello fu il mio primo incarico annuale e, in quel caso, mi vennero affidate due prime e due seconde, per un totale di 18 ore settimanali.
Fu una esperienza entusiasmante e formativa, nonostante la poca voglia di impegnarsi dei miei studenti.
Andai a vivere da miei zii (ecco il perché della scelta della città di Macerata), che avevano due figli.

Zio Lele era un postino e Zia Mariella una professoressa di biologia alle scuole medie.

Mio cugino Alfonso, che aveva la mia età, lavorava in una piccola industria tessile come contabile, mentre mia cugina Nunzia, di 23 anni, stava studiando Matematica all’Università di Perugia e che, conseguentemente, vedevo una o due volte al mese.
I miei cugini avevano trascorso quasi tutte le estati, fin da quando eravamo piccoli, da noi a Nuoro, in particolar modo fino ai miei primi anni universitari.
Durante quelle estati, con Alfonso eravamo, praticamente, inseparabili.
Terminata la scuola, insieme alla zia arrivavano lui e Nunzia, che essendo più piccola di noi di sette anni, non veniva minimamente considerata.
Questa abitudine di non considerare Nunzia, non mutò neanche con il trascorrere del tempo.
Mille avventurose scorribande estive, dai primi anni del 1960 alla fine del 1970.
La nostra estate iniziava i primi di giugno e terminava qualche giorno prima dell’inizio della scuola a settembre.
Ad agosto arrivava anche lo zio e, tra i nonni, i miei genitori ed i miei fratelli, entrambi più grandi di me, era sempre una grande festa.

In quel momento, per la prima volta, mi ritrovai a vivere con i miei zii e mio cugino.

Alfonso mi fece integrare alla grande, guidandomi per le strade di Macerata e coinvolgendomi nella sua comitiva.
Alla fine dell’anno scolastico, dopo aver aspettato che mia cugina avesse terminato gli esami di quella sessione, con lei e mia zia, ci recammo a Nuoro.
Non dovendo presenziare agli esami dei miei studenti, la mia prima esperienza come professore terminò, per questa ragione, i primi di giugno del 1988.
Arrivammo in Sardegna due giorni prima della sconfitta dell’Italia contro l’URSS agli europei di quell’anno, poi vinti dall’Olanda, guidata dal trio milanista Gullit, Van Basten e Rijkaard (che sarebbe arrivato in Italia solo alla fine del campionato europeo).
Ripresi ad uscire abitualmente con i miei pochi amici rimasti a vivere a Nuoro, però senza Alfonso.
Ma, ogni giorno che passava, vedevo Nunzia sempre più annoiata.
Le chiesi se volesse uscire con me e, pur di non stare a casa con sua mamma, i miei genitori e la nonna, accettò la proposta al volo.
Nei suoi modi di fare ritrovai tanti atteggiamenti di Alfonso e, praticamente, fino all’arrivo di quest’ultimo, trascorremmo l’intero mese di luglio insieme.
Eravamo così affiatati che anche io rimasi sorpreso.
Sostanzialmente mia cugina era una macchietta.
La situazione non cambiò neanche quando arrivò, i primi di agosto, Alfonso.
Nunzia continuò ad uscire con noi, nonostante il fratello non fosse particolarmente entusiasta della cosa.

Le serate di luglio, prima che arrivasse Alfonso, avevano il seguente copione:

aperitivo pre-cena al bar della signora Amelia, post-cena ancora nello stesso posto e poi in giro per Nuoro fino alle 2 – 3 di notte.
Tanti compaesani, non riconoscendo mia cugina, che con gli anni era diventata una ragazza carina, ci scambiavano per una coppia.
Ma questo non ci stupiva più di tanto e continuavamo con la nostra routine.
Alcuni momenti al bar mi facevano sorridere:
a volte, incrociavo lo sguardo timido e pungente di Emma, una coetanea di mia cugina, che aveva gli occhi azzurri ed i capelli biondi.
Emma era la cameriera, nonché la figlia minore di Amelia, rientrata per l’estate dall’università per aiutare la mamma e la sorella maggiore Manuela, di un paio di anni più grande della stessa Emma, a gestire il bar.
Avevo visto crescere Emma, essendo quel bar il nostro locale di riferimento e, anche lei crescendo, come mia cugina, era diventata graziosa.
L’unico problema era che le tre (Nunzia, Emma e Manuela), un tempo appartenenti alla stessa compagnia estiva, anni prima avevano litigato e, nonostante il tempo trascorso, mia cugina ancora non parlava le due sorelle.
Anzi, ogni volta che mia cugina notava qualche sguardo tra me ed Emma o si arrabbiava o mi faceva battutine.
La situazione non cambiò in seguito all’arrivo di Alfonso ma, a parte qualche altro sguardo, l’estate trascorse in un lampo senza che accadesse di niente di rilevante.
I miei cugini ed i miei zii rientrarono a Macerata ed io restai a Nuoro in attesa di una nuova chiamata a scuola.

Che arrivò puntualmente gli ultimi giorni di settembre.

Mi affidarono le stesse classi dell’anno prima, quindi ora insegnavo a due seconde e due terze.
Le terze le avrei dovute accompagnare alla qualifica professionale di fine anno.
Anche questo secondo anno trascorse tranquillo ma, rispetto all’anno precedente, riuscì a rientrare a Nuoro solo a fine giugno.
Durante l’anno scolastico acquisii maggior consapevolezza nei miei mezzi e questo aiutò sia me che i ragazzi, che a giugno dovettero sostenere l’esame per ottenere la qualifica triennale.
Ogni giorno, inoltre, prendevo confidenza e sicurezza nel vivere nella meravigliosa città di Macerata, in compagnia, anche, degli amici di mio cugino.
Giunse fine anno e insieme a zia Mariella, finiti gli esami, ci recammo a Nuoro.
Zio Lele e Alfonso ancora lavoravano mentre Nunzia stava per sostenere l’ultimo esame universitario e, dopo aver terminato, intorno al 10 di luglio, ci raggiunse in Sardegna.
Riprendemmo le abitudini dell’anno precedente e, ormai, per buona parte dei miei compaesani, eravamo diventati una coppia fissa.
Tra i pochi a non pensarla così c’era ovviamente Emma, con la quale continuammo a scambiarci qualche sguardo.
Anche Nunzia iniziò a rassegnarsi all’idea, soprattutto dopo che un suo vecchio amico, Nicola, nonché amico di Emma, mi disse, non proprio velatamente, che quest’ultima avesse un interesse nei miei confronti.

Si susseguirono i giorni, ma la situazione non cambiò.

Non avevo preso ancora in considerazione l’idea di avvicinarmi seriamente a lei, e neanche la stessa fece qualcosa per farmi cambiare idea.
Con l’arrivo di agosto giunsero a Nuoro sia Alfonso che una mia vecchia amica, Lara, che, poco prima delle ferie estive, si era lasciata con il fidanzato.
Trascorremmo in quattro un’estate spensierata, circondati anche dai restanti amici del nostro gruppo e, contemporaneamente, anche l’idea su Emma si volatilizzò.
A settembre non partirono solo i miei zii ed i miei cugini, ma anche io mi unii a loro.
Avevo ricevuto dal provveditorato una nomina dal primo settembre per un incarico annuale in un liceo scientifico.
Mi affidarono due quarte e due quinte ginnasio (l’equivalente attuale di primo e secondo anno del liceo scientifico).
Anche quell’anno trascorse in maniera tranquilla.
Ad ogni mese di lezione trascorso, per me ed Alfonso, si aggiungeva anche un invito ad un matrimonio, ricevuto direttamente da Nuoro.
Subito dopo Natale Nunzia si laureò.
Rientrata Nunzia eravamo in cinque a casa degli zii, così decisi di “avvicinarmi” a Nuoro.
Per l’anno successivo feci domanda di trasferimento per insegnare a Cagliari e decisi di iniziare a preparare l’esame per l’abilitazione come professore.

A fine aprile arrivò una notizia poco piacevole.

L’azienda di mio cugino a breve avrebbe chiuso e così, Alfonso iniziò a cercare un nuovo lavoro.
Arrivarono altri inviti per dei matrimoni, per un totale finale di sei.
La scuola finì e data la situazione, con i primi di giugno del 1990, arrivammo a Nuoro.
Io, la zia, Alfonso, Nunzia ed il suo fidanzato che, da qualche tempo, aveva iniziato a frequentare casa dei miei zii.
Giusto in tempo per seguire, qualche giorno dopo, i mondiali di Italia 90 e le sue notti magiche.
Il bar di Amelia si era organizzato alla grande, coadiuvata sempre da Manuela ed Emma che, durante l’ultimo anno, era, però, dimagrita parecchio.
Il popolo italiano era festante dopo le vittorie, seppur risicate, con Austria, Stati Uniti e Cecoslovacchia.
Il giorno degli ottavi con l’Uruguay combaciò con il compleanno di Emma ed il caso volle che al mio gruppo si fosse unita anche Lara.
La partita terminò ovviamente a favore della nazionale italiana e poco dopo, Emma invitò controvoglia tutto il gruppo, per mangiare insieme una fetta di torta.
Ovviamente non era entusiasta del fatto che ci fosse Lara.
Ma questo episodio la aiutò a farle capire che io e Lara non stessimo insieme.
Durante un aperitivo pomeridiano, prima dei quarti della nazionale italiana, per uno strano caso del destino, io ed Emma rimanemmo soli per circa dieci minuti ed iniziammo a parlare.

E ci trovammo al volo.

Da quel momento in poi, ogni qual volta andavamo con gli amici al bar, io ed Emma scambiavamo quattro chiacchiere.
E anche Amelia sembrava contenta di questa cosa mentre Manuela era, a dir poco, contrariata.
La sera dei quarti, dopo la vittoria con l’Irlanda, Emma si aggregò al nostro gruppo con un paio di suoi amici, la sua migliore amica Nadia, Nicola ed Enzo, la sorella ed altri ragazzi, e così fece anche in alcune delle serate seguenti.
Il 3 luglio, giorno delle semifinali, terminarono le notti magiche della nazionale italiana, in seguito alla sconfitta rimediata contro l’Argentina ai calci di rigori, nello scenario surreale del San Paolo che, invece di sostenere all’unisono la nazionale italiana, supportò la nazionale argentina capitanata da Maradona.
All’atto conclusivo del torneo, però, l’Argentina venne sconfitta in finale dalla Germania, riunitasi da poco, in seguito alla caduta del muro di Berlino.
L’Italia si accontenterà del terzo gradino del podio ottenuto ai danni dell’Inghilterra.
Emma continuò, in quelle sere, ad unirsi al nostro gruppo, ma sempre accompagnata dai propri amici.
Ovviamente sotto gli sguardi contrariati di Nunzia e Manuela.
Il mercoledì seguente con Alfonso ci recammo a Sassari per il primo dei sei matrimoni, che si sarebbe tenuto di giovedì, e poi sabato ci recammo a Cagliari per quello successivo.

Rientrammo a Nuoro nella tarda serata di lunedì.

Il giorno dopo, in attesa dei seguenti matrimoni, che ci avrebbero rallegrato le seguenti quattro domeniche, con la solita combriccola, andammo a degustare l’abituale aperitivo.
Emma non si avvicinò minimamente al tavolo in quel momento, ma la sera si unii tranquillamente al nostro gruppo.
E, quella sera, rimasi perplesso.
Era abbracciata ad un suo amico, Enzo.
Subito dopo incrociai lo sguardo compiaciuto, ma anche ironico, di Nunzia.
Ricordavo chi fosse Enzo poiché, quando io ero rover negli scout, lui era un simpatico lupetto sempre molto cordiale con tutti noi poco più grandi di lui.
Quella sera fu il preludio ad altre scene strane.
Dopo altri due matrimoni, Enzo per qualche giorno non si fece vedere.
Emma riprese a guardarmi, sotto lo sguardo perplesso di Alfonso, Nunzia, Lara e degli altri che conoscevano la storia.
Nei giorni precedenti il quinto matrimonio, Emma ed Enzo ripresero ad unirsi al nostro gruppo e, in quei momenti, alternavano abbracci, rapide passeggiate mano nella mano e, una sera, anche un bacio fugace.
Nunzia, intanto, gongolava.
I giorni trascorsero rapidamente e con i primi di agosto, con Alfonso, ci recammo al quinto matrimonio.
Durante questa giornata notai una graziosa ragazza con gli occhi cangianti, che attirò fortemente la mia attenzione.
Avendo vissuto per dieci anni lontano da Nuoro, non ricordavo precisamente chi fosse questa ragazza.

Con il trascorrere delle ore, la riconobbi.

Era Viola, una cugina della sposa, figlia di un fornaio che abitava nei pressi di casa di mia nonna, ma anche coetanea di Nunzia.
Come era cambiata e come era diventata carina con il passare degli anni.
Finita la cerimonia e la festa, rientrammo a casa.
In seguito, prendemmo parte all’ultimo matrimonio e per i restanti giorni di agosto ci dedicammo a rilassarci.
Trascorsero tante altre serate in compagnia, in cui a volte si univano Emma, Enzo ed il loro gruppetto, che continuavano il loro teatrino, mentre in altre sere, si univa la sola Emma con Manuela ed altri amici.
Il 31 di agosto, cioè due giorni prima di raggiungere la mia nuova destinazione (Cagliari) e il giorno prima della partenza dei miei zii e dei miei cugini, io e Nunzia fummo raggiunti da un amico o da una amica, ora non ricordo con precisione, di Emma, che mi chiese come avessi reagito al fatto di aver visto stare insieme Emma ed Enzo.
Risposi con assoluta tranquillità e sincerità di aver già accennato ai miei amici che, qualora fossero stati realmente fidanzati, a me poteva fare solo piacere.
La cosa importante era che Emma fosse convinta e felice di questa scelta.
Altre persone al mio posto, dopo gli atteggiamenti che aveva assunto nelle settimane precedenti, non avrebbero voluto sapere più niente di lei e gli spiegai che, non essendo superficiale, non basavo le mie idee esclusivamente sulle apparenze e, in ogni caso, per me, non cambiava nulla.

Nunzia avallò la mia risposta.

Il giorno dopo, prima di partire, Nunzia mi ribadì di non pensare più ad Emma.
Conosceva la mia idea, cioè che fossi semplicemente intrigato dal fatto che lei potesse essere interessata a me, ma anche del fatto che io non avrei fatto nulla se non in seguito ad una sua palese dimostrazione di interesse.
Conclusi questo breve scambio di idee con mia cugina con le parole di Cesare Pavese:
“Tu sarai amato il giorno in cui potrai mostrare la tua debolezza, senza che l’altro se ne serva per affermare la sua forza.”
Alla fine, le raccontai di aver notato, durante un matrimonio, questa graziosa ragazza con gli occhi cangianti.
Ma questa… è un’altra storia.

Cordialmente, Professor Antonello.

“Il vostro futuro non è ancora stato scritto, quello di nessuno.
Il vostro futuro è come ve lo creerete.
Perciò createvelo buono.”
Citazione del Dr. Emmett L. Brown, “Doc”, in “Ritorno al futuro – Parte III”
Brano di Michele Bruno Salerno

© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente. 

Il pinguino colorato

Il pinguino colorato

Quando mise fuori la testa dall’uovo, fu accolto dalla felicità di tutti.
La comunità dei pinguini dell’Isola Azzurra si strinse intorno a Priscilla e Dagoberto, i suoi genitori, che avevano gli occhi luccicanti e non stavano più nel frac per l’orgoglio.
Perché Filippo era davvero un bel neonato di pinguino.
Aprì il becco ed emise un robusto vagito.
Tutti i pinguini presenti applaudirono.
“È un ottimo segno!” disse lo zio Fortebecco, “È impaziente di affrontare la vita!”
Filippo, in effetti, partì alla carica della vita con una gran dose di energia.
Appena le sue zampette furono abbastanza robuste, si allontanò dallo sguardo premuroso dei genitori per infilarsi fra i più discoli dei piccoli pinguini della comunità.

Erano tutti più anziani di lui, ma nessuno lo batteva in coraggio e temerarietà.

Fu Filippo il primo piccolo di pinguino che osò scivolare dalla punta del grande iceberg fino al mare, anche se poi non poté sedersi per due settimane a causa del bruciore sotto la coda.
Fu sempre Filippo, il coraggioso piccolo pinguino, che portò via la colazione all’enorme e spaventoso tricheco Baffodiferro.
Nella banda dei “pinguini irsuti”, chiamati così perché si rifiutavano sistematicamente di lasciarsi pettinare le piume del capo dalle loro mamme, Filippo divenne l’incontrastato boss.
“Perché sei sempre così agitato, Filippo mio?” gli chiedeva la mamma, un po’ in ansia per quel figlio che cresceva così scapestrato.
Con gli amici, Dagoberto era sinceramente preoccupato:
“Quel monello ha bisogno di una bella strigliata!”
Così spesso, alla sera, Dagoberto, Priscilla e Filippo rappresentavano, senza volerlo, la versione pinguinesca del processo di Norimberga.
“È tutta colpa tua!” diceva la mamma.
“No, tua!” esclamava il papà, “Anzi, è colpa di Filippo!”
La mamma piangeva, papà sbatteva la porta e Filippo gridava:

“Non ne posso più!”

Un giorno il pinguino Filippo se ne stava sdraiato su una roccia a picco sul mare ed osservava annoiato il formicolio dei pinguini della comunità.
Sembravano tutti felici; lui, invece si sentiva pieno di amarezza.
“Che barba!
Un posto tutto bianco, grigio e nero.
Dove nessuno si fa i fatti suoi…
Deve pur esserci un paese colorato.
Pieno di gente colorata.
Potrei diventare anch’io pieno di colori…
Non ne posso più di questa camicia bianca e di questo ridicolo frac!”
E, impulsivo com’era, si lasciò scivolare giù dalla roccia, si tuffò tra le onde e nuotò via dall’Isola Azzurra.
Approdò alla Terraferma.

Gli avevano sempre raccomandato di evitare il litorale.

I pinguini si tenevano prudentemente alla larga dagli anfratti in ombra degli scogli, dove le onde infrangevano con violenza rabbiosa, e foche, piccoli cetacei e altri predatori si acquattavano per far strage degli imprudenti.
“Adesso sono libero e faccio come mi pare!” si disse Filippo.
Si arrampicò a fatica e si incamminò sulla spiaggia.
Un forte sbattere d’ali alle sue spalle lo mise in guardia.
Un giovane cormorano aveva deciso di attaccarlo.
Ma Filippo era robusto e dotato di un becco forte e tagliente.
Lottarono per un po’, facendo volare piume da tutte le parti.
Filippo ci mise tutta la sua rabbia.
Il cormorano cominciò a perdere sangue da una ferita alla gola e si spaventò.
Si ritirò dal combattimento e volo via lamentandosi e imprecando.
“Aah!”” fece Filippo, gonfiando il petto con soddisfazione.
Alcune gocce di sangue del cormorano erano finite sulle sue piume bianche.

Il pinguino guardò le macchie rosse e disse:

“Bene! Comincio ad essere colorato!”
Ondeggiando, ma più che mai risoluto a continuare la sua esplorazione, Filippo si inoltrò tra le rocce.
“Ehi, amico!” una voce alle sue spalle lo fece voltare di scatto.
Era pronto di nuovo a combattere, ma di fronte si trovò solo un gabbiano giovane e inoffensivo.
“Ti ho visto sistemare il cormorano!” disse il gabbiano, “Sei un duro, tu!”
“Certo!” rispose Filippo.
“Ti invito a pranzo!” insinuò furbescamente il gabbiano.
“Che cosa vuoi dire?” chiese Filippo.
“Andiamo a rubare le uova dai nidi delle rondini di mare, che ne dici?
In due non oseranno farci niente!” spiegò il gabbiano.
Fecero una scorpacciata di uova.
Le povere rondini di mare tentarono invano di difendere i loro nidi.
I due briganti mulinavano ali e becchi.

Alla fine, Filippo si guardò il petto:

era tutto macchiato dal giallo e arancione dei tuorli d’uovo.
“Altri colori!” si disse, “Questa è vita!”
Dietro di lui, si sentiva solo il disperato pigolare delle rondini di mare, che piangevano i nidi e le uova distrutte.
Si installò in una grotta di ghiaccio azzurra, e ne fece il suo covo.
Un gruppetto di gabbiani e perfino un’otaria con un occhio solo lo riconobbero come capo banda.
Le scorribande del gruppetto furono ben presto temute da tutti.
Filippo veniva chiamato semplicemente “Il pinguino colorato”.
Infatti la sua elegante livrea bianca e nera era sparita sotto i segni delle imprese che aveva affrontato.
Oltre il rosso del sangue e il giallo delle uova rubate, c’erano tracce verdi, azzurre e anche ciuffi di pelo argentato, che gli erano rimasti attaccati dopo un’epica lotta contro un Husky randagio.
Ma che serviva essere diventato davvero il primo pinguino a colori, se non poteva farsi ammirare dai suoi vecchi amici e dalla sua famiglia?

Il pensiero dell’Isola Azzurra prese a torturarlo.

Anche se non voleva ammettere, sentiva un bel po’ di nostalgia dell’allegra comunità dei pinguini.
“Avere una vita colorata non è proprio come me la immaginavo!” si diceva sempre più spesso.
Quella esistenza di fughe, attacchi, lotte e brigantaggio non gli piaceva più tanto.
Un mattino riprese la via del mare e tornò a casa
I primi pinguini dell’Isola Azzurra che incontrò erano dei piccoli che giocavano sulle lastre di ghiaccio galleggianti.
Appena lo videro si misero a strillare e scapparono gridando:
“Un mostro!
Un mostro!”
Gli adulti fecero largo al suo passaggio, ma non per fargli onore.
Lo guardavano tutti con una sorta di ribrezzo.
“Ma perché?
Idioti, sono io, non mi riconoscete?” brontolava Filippo.
“Filippo, figliuolo, lo sapevo che saresti tornato!”
La mamma naturalmente lo riconobbe, ma non osò abbracciarlo.
“Ma in che stato sei!”
“Bentornato, Filippo!” gli disse anche il papà.

Ma non lo toccò.

Le comari tutt’intorno borbottavano:
“Che disgrazia!
Poveri genitori…”
Per la prima volta nella sua vita, a Filippo venne voglia di piangere.
Improvvisamente comprese che i suoi colori continuavano a tenerlo lontano; lo rendevano straniero alla comunità dell’Isola Azzurra.
Mentre lui, solo adesso, si accorgeva che soltanto lì poteva essere veramente felice.
Ma come si fa a tornare indietro?
“Papà!” chiese, “Vorrei cancellare questi colori e ricominciare, se è possibile!”
Dragoberto esitò, poi guardò Filippo negli occhi e disse:
“C’è un mezzo solo:
devi tuffarti dalla Grande Cascata.
Laggiù l’acqua è così violenta e rapida che nessun colore può resistere.
Ma è tremendamente rischioso.
Ci vorrà il tuo coraggio.
Te la senti di farlo?”
“Si, papà!” rispose Filippo.

La voce si sparse in un attimo.

Nel giro di pochi minuti c’erano tutti, grandi e piccoli, intorno alla grande cascata.
Non riuscirono a trattenere un “Oh!” sincero quando in alto, dove il fiume precipitava in mare con un fragoroso boato, apparve Filippo.
Sembrava così piccolo lassù.
Rimase un attimo fermo a concentrarsi, poi spiccò il salto.
Un salto stupendo, come se improvvisamente gli fossero spuntate le ali.
La corrente lo ghermì come un fuscello e lo scagliò violentemente nel mare ribollente e schiumante.
Il pinguino sparì nel vortice.
Tutti trattennero il fiato.
Poi ad un tratto Filippo riemerse.
La forza stessa dell’acqua lo proiettò in alto e tutti videro che le sue piume erano diventate immacolate e che i colori erano scomparsi.
Allora esplosero in un festoso:
“Urrà!” che coprì perfino il tuonare dell’acqua.

Brano tratto dal libro “Storie belle e buone.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Il viaggio in treno da solo

Il viaggio in treno da solo

Mamma e papà accompagnavano tutti gli anni in treno Martino, il loro figlio, dalla nonna per l’estate e poi tornavano a casa con lo stesso treno l’indomani.
Il ragazzo, quando divenne adolescente, disse ai suoi genitori:
“Sono già grande, cosa ne pensate se quest’anno provo ad andare dalla nonna da solo?”

Dopo un breve dibattito, i genitori furono d’accordo.

Eccoli in piedi sul marciapiede della stazione, salutandolo, dandogli l’ultimo consiglio, mentre Martino continuava a ripetere:
“Sì, lo so, lo so!
Me lo avete già detto cento volte!”

Il treno stava per partire quando il padre gli disse:

“Figlio, se improvvisamente ti senti male o sei spaventato, questo è per te!” e terminando la frase, mise qualcosa nella tasca del ragazzo.
Dopo qualche minuto, il ragazzo era solo, seduto in carrozza, senza genitori, per la prima volta, guardando fuori dal finestrino.
Intorno, persone estranee che si spintonavano, facevano rumore, entravano ed uscivano dal vagone, il bigliettaio che gli contestava il fatto di essere da solo, mentre qualcuno lo guardava anche con dispiacere, quando, improvvisamente, il ragazzo si sentì a disagio, sempre di più.

Al disagio subentrò lo spavento.

Abbassò la testa e si rannicchiò in un angolo del sedile con le lacrime che cominciavano a scendere.
In quel momento si ricordò che suo padre gli aveva messo qualcosa in tasca.
Con la mano tremante, dopo aver cercato a tentoni un pezzo di carta, lo aprì:
“Figliolo, sono nell’ultima carrozza!”

È così che nella vita dobbiamo lasciare andare i figli, fidandoci di loro, ma essendo sempre nell’ultima carrozza, in modo che loro non abbiano paura.
Per essere vicini, per sempre.

Brano senza Autore

Beniamino

Beniamino

Beniamino era un bambino delizioso.
Quando sgambettava nella culla, in mezzo alle lenzuoline e le coperte di raso celesti, sembrava proprio un angioletto.
La mamma, il papà, le nonne e le zie non sì stancavano di vezzeggiarlo e di ripetergli tante parole dolci e carine.
La nonna materna diceva:
“Guardate che piccole graziose orecchie che ha, e come ci sentono bene!
Certamente diventerà un grande musicista!”
La nonna paterna, per non essere da meno, incalzava:
“Osservate piuttosto la sua adorabile boccuccia e come dice bene ‘nghée, ‘nghée.
Sicuramente diventerà un grande poeta!”

La zia Clotilde cinguettava:

“Macché, macché!
Sono i piedini che devono essere ammirati:
sarà un grandissimo ballerino, ve lo dico io che me ne intendo!”
A sentire tutti questi complimenti, i genitori di Beniamino esprimevano tanta soddisfazione, con il cuore gonfio d’orgoglio paterno e materno.
Beniamino cresceva un po’ capriccioso, ma papà, mamma, nonne e zie si consolavano facilmente dicendo:
“Sono tutti così, da piccoli!”
Così arrivò, anche per Beniamino, il momento di varcare, con aria baldanzosa e lo zainetto nuovo, il portone della scuola elementare.
I primi tempi furono felici.
Beniamino si comportava come tutti gli altri:
non era più gentile né più maleducato dei suoi compagni.
Ma con il passare del tempo, la situazione peggiorò.
Beniamino cominciò a trasformarsi.
Piano piano, senza che nessuno se ne accorgesse, divenne cattivo e prepotente.
Si divertiva a far cadere dalla giostra i bambini più piccoli; giocando a calcio nel cortile scalciava più gli avversari che il pallone; trovava sempre qualcuno con cui litigare.

Faceva la “spia” per farsi bello con la maestra.

“Dov’è finito il mio bell’angioletto?” si disperava la mamma di Beniamino, davanti alle note che i maestri gli scrivevano sul diario.
“Uffa!” sbuffava Beniamino, “Ce l’hanno tutti con me!”
Prometteva di migliorare, ma il giorno dopo se n’era già dimenticato.
Alla Scuola Media le cose non migliorarono.
Beniamino diventò un attaccabrighe impertinente.
Imparò a tempo di record tutte le peggiori parolacce e non si faceva certo pregare a ripeterle, specialmente sull’autobus, tanto per sembrare “più grande”.
Le mamme del quartiere minacciavano i figli:
“Guai a te se ti vedo con Beniamino:
è un ragazzaccio!”
Se qualcuno raccontava barzellette sporche, Beniamino era il primo ad ascoltare.
Se c’era da prendere in giro o canzonare qualcuno, Beniamino era del numero.

Aveva pochi amici, ma tutti della sua risma.

La loro impresa preferita era riuscire a rubacchiare qualcosa ai supermercati e poi scappare.
Anche la zia Clotilde, che pure gli voleva bene, si beccò una rispostaccia così volgare, che per il dispiacere fu costretta a mettersi a letto.
“Ma se fanno tutti così!” continuava a ripetere Beniamino, quando qualcuno lo rimproverava.
La cosa strana cominciò quando compì i quattordici anni.
E questa volta Beniamino cominciò a preoccuparsi per davvero.
Durante l’adolescenza il corpo cambia, ma lo specchio rivelava a Beniamino che in lui avvenivano dei cambiamenti inconsueti.
Le sue orecchie si allungavano sempre di più, appuntite verso l’alto, e prendevano una strana grigia pelosità.
I suoi piedi gli prudevano spesso e soprattutto non sopportavano più né calze né scarpe.
Prendevano anch’essi uno strano colorito grigiastro, finché un giorno si trasformarono in due zoccoli d’asino
Beniamino li guardò inorridito.
Ma invece di dire:
“Che cosa mi succede?” si mise a ragliare come un asino, “Ihah! Ihah!”
A quel roboante raglio, tutti i suoi parenti accorsero.
Il povero Beniamino, con le lacrime agli occhi, non sapeva spiegarsi.
“È nell’età del cambiamento di voce.” disse zia Clotilde, ma non ci credeva neppure lei.

Una cosa era certa.

Con quelle orecchie e quegli zoccoli da asino, per non parlare della voce, Beniamino non poteva tornare a scuola.
“Dobbiamo cercare un medico, il più grande che c’è.
Ti saprà certamente guarire!” disse il papà.
Cercarono sulle Pagine Gialle, ma non trovarono nessun medico specializzato nella cura di ragazzi che diventano asini.
Così un mattino freddo e nebbioso, Beniamino lasciò i suoi genitori e la sua casa.
Andava per il mondo a cercare qualcuno che lo guarisse da quella strana malattia che fa diventare animali gli uomini.
Beniamino attraversò il mondo da nord a sud e poi da est a ovest.
Interrogò dottori, stregoni, sciamani, guaritori di tutti i tipi.
Tutti erano molto gentili con lui, ma poi gli dicevano che le sue orecchie pelose erano molto utili contro il freddo, che i suoi zoccoli gli facevano risparmiare le scarpe e che la sua voce era comoda quando la nebbia era fitta fitta.
Passarono sette anni.
Beniamino ora conosceva le lacrime, apprezzava la gentilezza, sapeva quanto ferivano i rifiuti e le villanie.
Senza accorgersene, era diventato un altro.
Ma il suo problema rimaneva.
Stava per rassegnarsi al suo triste destino, quando giunse alla grande villa dei marchesi Bellaspina.
Tutti quelli che vedeva però erano in lacrime.
Piangevano il marchese e la marchesa, singhiozzavano le cameriere, gemeva il maggiordomo, uggiolavano i cani, si lamentavano i gatti.
Uno spettacolo da strappare il cuore.
In un profluvio di lacrimoni, la marchesa spiegò a Beniamino il motivo di tanto dolore:

“Ahinoi!

La nostra bella Rosalia, nostra figlia, è stata rapita.
L’ha portata via il perfido Battistone e l’ha nascosta sulla Montagna del Diavolo, dove nessuno osa salire!”
Beniamino si commosse:
“Non piangete più.
Andrò sulla montagna e la troverò!”
La Montagna del Diavolo era aspra, ma Beniamino era più che mai deciso ad affrontare il bandito.
Tendeva le sue lunghe orecchie d’asino per sentire anche il minimo rumore.
Passando davanti all’imboccatura di una grotta nera e paurosa, percepì un flebile lamento.
Coraggiosamente s’inoltrò nel nero imbuto dove svolazzavano i pipistrelli.
Ora sapeva dove si trovava Rosalia.
Il bandito aveva disseminato sul terreno della grotta taglientissimi pezzi di vetro e chiodi affilati, ma, con i suoi zoccoli d’asino, Beniamino poteva correre, mentre con la sua voce roboante gridava continuamente:
“Ihah! Ihah!”
Gridava con tutte le sue forze, sperando che Rosalia sentisse e gli rispondesse per guidarlo nei mille cunicoli della grande grotta nera.
Tendeva le sue orecchie a destra e a sinistra, finché sentì chiaramente un singhiozzo.
Sfregò un fiammifero su una pietra e vide Rosalia legata a un palo.
Com’era bella!
Beniamino la slegò, poi fece un inchino e mormorò:

“Buongiorno, madamigella, io mi chiamo Beniamino!”

In quel momento si accorse che la sua voce era una bella voce baritonale, perfettamente umana.
Aveva talmente gridato che la sua voce d’asino si era rotta.
Aveva talmente ascoltato che le sue orecchie d’asino erano cadute come foglie morte.
I suoi zoccoli si erano talmente consumati sui pezzi di vetro e sui chiodi che erano spariti.
Al loro posto c’erano due bei piedoni umani.
Al colmo della felicità, ma anche per paura di un improvviso ritorno di Battistone, Beniamino prese in braccio la bella Rosalia e fuggì più veloce che poteva, correndo con i nuovi piedi sul sentiero spianato dai suoi zoccoli.
Quando arrivò a Bellaspina tutti lo abbracciarono e baciarono.
Anche Rosalia naturalmente che, per non essere da meno, lo sposò.
Ebbero tre figli.
Il primo fu ballerino, il secondo musicista e il terzo poeta.
Perché Beniamino e Rosalia vegliarono attentamente che a nessuno di loro crescessero orecchie, zoccoli o voce d’asino.

Brano di Bruno Ferrero

La serva fortunata

La serva fortunata

Una nobildonna, ricca proprietaria terriera, amava frequentare il bel mondo, recandosi a teatro e alle opere liriche.
Si faceva accompagnare da una ragazza, più dama di compagnia che serva, figlia di un suo mezzadro.
Scelta per la sua rara bellezza, per il comportamento distinto e per sapere recitare a memoria le arie e i brani del teatro una volta rientrate a casa,

con grande diletto della padrona.

Per essere persona alla pari, veniva vestita con abiti all’ultima moda e veniva esibita come un trofeo alle feste mondane.
Un giorno la nobildonna la vide pensierosa e triste quindi le chiese il motivo, ottenendo questa risposta:
“Io vengo trattata bene e sono vestita come una regina, mentre i miei fratelli vanno in giro con le pezze ai pantaloni!”

Poi continuò:

“Vane sono state le preghiere che i miei genitori hanno fatto recitare ai miei fratelli da piccoli, dopo quelle ufficiali.
Queste recitavano così:
“Santa Madre, fate che le braghe del padrone vadino bene al servitore!” e per ironia della sorte le braghe dismesse di vostro marito sono di due taglie più piccole.

Mentre a me facevano pregare in questo modo:

“Signore aiutatemi, quello che mi mancherà nel mangiare e nel vestire, donatemi!”
Tutti i miei desideri sono stati esauditi, al di sopra di ogni più rosea aspettativa e, in più, mi sono anche fidanzata!”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Cittalavoro, un tempo Cittallegra

Cittalavoro, un tempo Cittallegra

C’era una volta una città che si chiamava Cittallegra.
In quella città alla gente piaceva ridere, parlare e riunirsi per fare festa.

I giorni più belli erano le domeniche.

La gente trovava bello riunirsi in chiesa, ascoltare il sacerdote, cantare i canti religiosi e poi tornare a casa per mangiare insieme l’arrosto.
Cittallegra era una cittadina molto carina, solo che la gente non riusciva a diventare ricca!
Le loro case erano più piccole delle case di altre città e le stradine più strette.
Quando andavano a visitare altre città, i cittallegrini si vergognavano.
“Qualcosa deve cambiare!” decisero i cittadini, e si riunirono per stabilire da dove cominciare.
“Aboliamo le domeniche e le feste, ci saranno giorni in più per lavorare!” fu la prima proposta che incontrò il favore di tutti.
“Ci servono più lavoratori!” e perciò si decise di mandare nelle fabbriche anche le donne.
Ma le donne avevano già tanto da fare a casa per la famiglia e per la cura dei genitori o dei nonni.

Allora i cittadini decisero:

“I bambini vanno all’asilo, i vecchi all’ospizio e i malati all’ospedale!”
Cittallegra diventò un grande cantiere e le imprese edili crescevano sempre di più; esse demolivano, ricostruivano, spianavano piazze, allargavano le strade!
“Perché la nostra città si chiama Cittallegra?” chiese un cittadino, “Sarebbe molto meglio chiamarla Cittalavoro!”
Questa proposta piacque tanto che venne subito accolta.
Cittalavoro cresceva sempre di più:
divenne grande, grigia, rumorosa, noiosa, pericolosa.
Sulle strade correvano le macchine e i pedoni avevano paura.
La gente non si incontrava più come una volta, anzi le persone non si conoscevano più, non si salutavano più.
La domenica era un giorno come gli altri.
Un giorno, i bambini dell’asilo andarono nell’ospizio dei nonni.
“È vero che Cittalavoro prima si chiamava Cittallegra?” chiesero i piccoli.

“Sì, questo è vero!” risposero i nonni.

“Ed era anche una città più allegra?” chiesero allora i bambini.
“Molto più allegra!” spiegarono i nonnini.
“Come mai, poi, tutto è cambiato?” proseguirono i bambini.
“Tutto cominciò quando tolsero le domeniche e le feste!” conclusero i nonni.
I bambini spalancarono gli occhi e domandarono:
“Feste?
Che cosa sono le feste?”

Brano tratto dal libro “I dieci comandamenti raccontati ai bambini.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Riconosciamo il talento in un contesto inaspettato?

Riconosciamo il talento in un contesto inaspettato?

Un uomo si mise a sedere in una stazione della metro a Washington DC ed iniziò a suonare il violino; era una tiepida mattinata di maggio.
Suonò sei pezzi di Bach per circa 45 minuti.
Durante questo tempo, poiché era l’ora di punta, era stato calcolato che migliaia di persone sarebbero passate per la stazione, molte delle quali sulla strada per andare al lavoro.
Passarono 3 minuti ed un uomo di mezza età notò che c’era un musicista che suonava.
Rallentò il passo e si fermò per alcuni secondi e poi si affrettò per non essere in ritardo sulla tabella di marcia.

Alcuni minuti dopo, il violinista ricevette il primo dollaro di mancia:

una donna tirò il denaro nella cassettina e senza neanche fermarsi continuò a camminare.
Pochi minuti dopo, qualcuno si appoggiò al muro per ascoltarlo, ma l’uomo guardò l’orologio e ricominciò a camminare.
Quello che prestò maggior attenzione fu un bambino di 3 anni.
Sua madre lo tirava, ma il ragazzino si fermò a guardare il violinista.
Finalmente la madre lo tirò con decisione ed il bambino continuò a camminare girando la testa tutto il tempo.
Questo comportamento fu ripetuto da diversi altri bambini.
Tutti i genitori, senza eccezione, li forzarono a muoversi.
Nei 45 minuti in cui il musicista suonò, solo 6 persone si fermarono e rimasero un momento.

Circa 20 gli diedero dei soldi, ma continuarono a camminare normalmente.

Raccolse 32 dollari.
Quando finì di suonare e tornò il silenzio, nessuno se ne accorse.
Nessuno applaudì, né ci fu alcun riconoscimento.
Nessuno lo sapeva ma il violinista era Joshua Bell, uno dei più grandi musicisti al mondo.
Suonò uno dei pezzi più complessi mai scritti, con un violino del valore di 3,5 milioni di dollari.
Due giorni prima che suonasse nella metro, Joshua Bell fece il tutto esaurito al teatro di Boston e i posti costavano una media di 100 dollari.

Questa è una storia vera.
L’esecuzione di Joshua Bell in incognito nella stazione della metro fu organizzata dal quotidiano Washington Post come parte di un esperimento sociale sulla percezione, il gusto e le priorità delle persone.

La domanda era:

“In un ambiente comune ad un’ora inappropriata:
percepiamo la bellezza?
Ci fermiamo ad apprezzarla?
Riconosciamo il talento in un contesto inaspettato?”
Ecco una domanda su cui riflettere:
“Se non abbiamo un momento per fermarci ed ascoltare uno dei migliori musicisti al mondo suonare la miglior musica mai scritta, quante altre cose ci stiamo perdendo?”

Brano senza Autore

L’amico “Eco”

L’amico “Eco”

C’era una volta un ragazzo che, malgrado la giovane età, lavorava per aiutare i suoi genitori!
Viveva con loro in un piccolo villaggio appollaiato sulle montagne e, ogni mattina, conduceva al pascolo il suo gregge di capre fra le gole delle montagne!
Un mattino, mentre seguiva le capre su un sentiero nuovo in una valle stretta, gli sembrò di udire rumore di passi e belati di altri animali!
Il ragazzo pensò che ci dovesse essere nelle vicinanze un pastore che, come lui, portava al pascolo il gregge.
Il suo cuore fece un balzo di gioia:
gli sarebbe tanto piaciuto avere un amico!
Facendo imbuto con le mani davanti alla bocca, gridò:
“Chi è là?”

Udì una voce che gli rispondeva:

“Chi è là?
Chi è là?
Chi è là?”
Le grida venivano da più parti.
C’erano tanti pastori sulla montagna?
Come mai non li aveva mai incontrati?
Allora gridò più forte:
“Fatevi vedere!”
Le voci risposero:
“Fatevi vedere!
Fatevi vedere!
Fatevi vedere!”
Ma non apparve nessuno.
Il ragazzo gridò ancora:
“Perché non venite fuori?”
Da tutte le direzioni le voci risposero:
“Venite fuori!
Venite fuori!
Venite fuori!”
Il giovane pastore pensò che si volessero burlare di lui e si rattristò.
Per non darlo a vedere, sbraitò in tono arrabbiato:
“Chi fa così è proprio scemo!”

Per tutta la montagna rimbombò:

“Scemo!
Scemo!
Scemo!”
Questa volta il povero pastorello ebbe una gran paura.
Dovevano essere ben cattivi quei pastori della montagna!
Radunò in fretta e furia le capre e tornò al villaggio!
Adesso aveva paura a tornare sulla montagna:
magari qualcuno di quei perfidi pastori avrebbe potuto tendergli un tranello e fargli del male!
Il giorno dopo si sentiva veramente angosciato all’idea di avventurarsi su per la montagna.
“Che cos’hai figlio mio?” gli chiese, la madre, “Perché non vuoi portare le capre al pascolo?”
Il ragazzo raccontò tutto a sua madre:
le grida minacciose che rimbombavano sulla montagna e i pastori invisibili che lo insultavano.
Dopo averlo ascoltato attentamente la madre comprese che non ci fosse nessuno sulla montagna!
Soltanto l’eco rimandava al ragazzo le parole che lui stesso aveva gridato!
“Non ti preoccupare figlio mio!” gli disse.
“Quei pastori non ti vogliono fare alcun male!
Hanno solo paura di te e vorrebbero degli amici.
Domani, quando sarai tra le rocce, augura loro il “buongiorno” e aggiungi qualche frase amichevole!
Sono sicura che te la ricambieranno!”
Il giorno dopo, quando raggiunse la gola tra i monti, il ragazzo inspirò profondamente e gridò: “Buongiorno!”

L’eco rispose:

“Buongiorno!
Buongiorno!
Buongiorno!”
Rassicurato, il giovane gridò ancora:
“Vorrei essere vostro amico!”
L’eco rimbalzò tra le rocce:
“Amico!
Amico!
Amico!”

Brano senza Autore

La bambina salvata

La bambina salvata

Una bambina, i cui genitori erano morti, viveva con la nonna e dormiva in una camera al piano di sopra.
Una notte vi fu un incendio nella casa e la nonna perì cercando di salvare la bambina.
Il fuoco si diffuse rapidamente e il primo piano della casa fu ben presto avvolto dalle fiamme.
I vicini chiamarono i pompieri, poi rimasero lì senza poter fare niente, incapaci di entrare in casa visto che le fiamme bloccavano tutti gli ingressi.
La bambina comparve da una finestra del piano di sopra, chiamando aiuto, proprio quando tra la folla si diffuse la notizia che i pompieri avrebbero tardato di qualche minuto, poiché erano tutti impegnati in un altro incendio.
All’improvviso comparve un uomo con una scala, il quale la appoggiò al fianco della casa e scomparve all’interno.

Quando ricomparve aveva fra le braccia la bambina.

Consegnò la bambina alle mani in attesa lì sotto, quindi scomparve nella notte.
Un’indagine rivelò che la bambina non aveva parenti in vita e, alcune settimane più tardi, si tenne in municipio una riunione per stabilire chi l’avrebbe presa in casa e l’avrebbe allevata.
Un’insegnante disse che le sarebbe piaciuto allevare la bambina.
Mise in risalto che le poteva assicurare una buona istruzione.
Un contadino le offrì di crescere nella sua azienda agricola.
Sottolineò che vivere in campagna era sano e ricco di soddisfazioni.
Parlarono altri, che esposero le loro ragioni per le quali fosse vantaggioso per la bambina vivere con loro.

Alla fine il più ricco cittadino si alzò e disse:

“Io posso offrire alla bambina tutti i vantaggi che voi avete menzionato qui, più i soldi e tutto ciò che si può comprare con i soldi.”
Per tutto questo tempo la bambina era rimasta in silenzio, con gli occhi fissi sul pavimento.
“Nessun altro vuole parlare?” domandò il presidente dell’assemblea.
Dal fondo della sala si fece avanti un uomo.
Aveva un’andatura lenta e sembrava soffrire.
Quando giunse davanti a tutti, si mise direttamente di fronte alla bambina e allungò le braccia.
La folla rimase senza fiato.
Le mani e le braccia erano orribilmente sfigurate.

La bambina esclamò:

“Questo è l’uomo che mi ha salvata!”
Con un balzo, gettò le braccia al collo dell’uomo, tenendolo stretto come per salvarsi la vita, come aveva fatto in quella notte fatale.
Nascose il volto nelle spalle di lui e singhiozzò per qualche istante.
Quindi alzo gli occhi e gli sorrise.
“La seduta è sospesa!” disse il presidente.

Brano tratto dal libro “Brodo caldo per l’anima. Volume 2” di Jack Canfield e Mark Victor Hansen