Giulia e l’uva

Giulia e l’uva

Una giovane ragazza, di nome Giulia, nel pieno della gioventù, faceva la domestica tuttofare in una dimora di ricchi proprietari terrieri.
Vigeva in quel tempo l’istituto della mezzadria ed i contadini portavano ai padroni i frutti più belli:

le cosiddette regalie.

Nella stanza dove dormiva Giulia avevano, perfino, appeso alle travi del soffitto i più bei grappoli d’uva, delle varietà migliori, per conservarli, dono dei contadini contraenti.
I suoi padroni le avevano raccomandato, pena il licenziamento, di non mangiare per nessun motivo nemmeno un chicco d’uva.
Vuoi per la fame, vuoi per l’essere golosa, Giulia qualche chicco d’uva qua e là lo aveva mangiato, e si augurava che i proprietari non notassero questi piccoli furti.
Ma non fu così, ed i padroni, noti per essere taccagni e avari, la sgridarono pesantemente.

Giulia si difese dicendo:

“Sono stati i topi!
E voi mi fate addirittura dormire con loro!”
I padroni schifati risposero:
“Se è davvero così, puoi mangiarti tutta l’uva che vuoi perché a noi non interessa più!”

Giulia era mia nonna.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Signora, lei è ricca?

Signora, lei è ricca?

Si rannicchiarono dietro la porta doppia:
due bambini con i cappotti a brandelli troppo piccoli per loro che mi chiesero:
“Ha giornali vecchi, signora?”
Ero indaffarata, volevo rispondere di no… finché guardai i loro piedi:
sandaletti leggeri, inzuppati dal nevischio.
“Entrate e vi farò una tazza di cioccolata calda.” dissi ai due bambini.

Non vi fu conversazione.

I sandali fradici lasciarono impronte sulla piastra del caminetto.
Servii loro cioccolata e pane tostato con marmellata per fortificarli contro il freddo esterno.
Quindi tornai in cucina e ripresi il mio bilancio familiare!
Il silenzio nel soggiorno mi sorprese.
Guardai dentro, la bambina teneva in mano la tazza vuota e la osservava.
Il maschietto mi disse con voce incerta:

“Signora, lei è ricca?”

“Se sono ricca? Misericordia, no!” guardai le consunte foderine del divano.
La bambina rimise la tazza sul suo piattino con cura.
“Le sue tazze sono intonate ai piattini.” aveva osservato la bambina, con una voce vecchia, con una fame che non veniva dallo stomaco.
Quindi se ne andarono, tenendo i pacchi dei giornali contro il vento, non avevano detto grazie, non ne avevano bisogno.
Avevano fatto molto di più.
Tazze e piattini di ceramica azzurra di poco valore.

Ma erano intonati.

Diedi un’occhiata alle patate e mescolai il sugo.
Patate e sugo di carne, un tetto sopra alla testa, mio marito con un lavoro sicuro… umile ma sicuro.
Anche queste cose erano intonate.
Allontanai le sedie dal fuoco e misi in ordine il soggiorno.
Le impronte fangose dei sandaletti erano ancora umide sul caminetto.
Le lasciai lì:
voglio che restino lì caso mai mi dimenticassi di nuovo quanto sono ricca.

Brano tratto dal libro “Brodo caldo per l’anima – Pensa Positivo.” di Marion Doolan

L’eremita e l’esempio dello sparviero

L’eremita e l’esempio dello sparviero

Un eremita vide una volta, in un bosco, uno sparviero.
Lo sparviero portava al suo nido un pezzo di carne:
lacerò quella carne in tanti piccoli pezzi, e si mise a imbeccare anche una piccola cornacchia ferita.
L’eremita si meravigliò che uno sparviero imbeccasse così una piccola cornacchia, e penso:

“Dio mi ha mandato un segno.

Neppure una piccola cornacchia ferita viene abbandonata da Lui.
Dio ha insegnato addirittura ad un feroce sparviero a nutrire una creaturina d’altra razza, rimasta orfana al mondo.
Si vede proprio che Dio dà il necessario a tutte le creature:
e noi, invece, stiamo sempre in pensiero per noi stessi.
Voglio smetterla di preoccuparmi di me stesso!
Dio mi ha fatto vedere che cosa devo fare.

Non mi procurerò più di mangiare!

Dio non abbandona nessuna delle sue creature:
non abbandonerà neanche me!”
E così fece:
si mise a sedere in quel bosco e non si mosse più di là:
pregava, pregava, e nient’altro.
Per tre giorni e per tre notti rimase così, senza bere un sorso d’acqua e senza mangiare un boccone.
Dopo tre giorni, l’eremita s’era tanto indebolito, che non era più capace d’alzare la mano.

Dalla gran debolezza, s’addormentò.

Ed ecco apparirgli in sogno un angelo.
L’angelo lo guardò accigliato e gli disse:
“Il segno era per te, certo.
Ma perché tu imparassi ad imitare lo sparviero!”

Brano tratto dal libro “A volte basta un raggio di sole.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

Un padre premuroso (L’abbraccio dell’orso)

Un padre premuroso
(L’abbraccio dell’orso)

Un uomo molto giovane aveva appena avuto un figlio e viveva per la prima volta l’esperienza della paternità.
Nel suo cuore regnavano la gioia e l’amore, che scorrevano a fiumi dentro di lui.
Un giorno gli venne voglia di entrare in contatto con la natura perché, da quando era nato il suo bimbo, vedeva tutto bello e perfino il rumore di una foglia che cadeva gli sembrava musica.
Decise quindi di andare nel bosco per goderne tutta la bellezza e sentire il canto degli uccelli.
Camminava placidamente respirando l’umidità che c’è in quei posti quando, improvvisamente, vide un’aquila su un ramo, e fu sorpreso dalla sua bellezza.
Anche l’aquila aveva avuto la gioia di avere dei piccoli, ed aveva intenzione di arrivare fino al fiume più vicino, catturare un pesce,

e portarlo nel suo nido come cibo per i suoi aquilotti.

Era una responsabilità molto grande allevare e formare i suoi piccoli, affrontando le sfide che la vita offre.
Nel notare la presenza dell’uomo, l’aquila lo guardò e gli chiese:
“Dove vai buon uomo?
Vedo nei tuoi occhi la gioia.”
L’uomo le rispose:
“Sai mi è nato un figlio e sono venuto nel bosco perché sono felice.
D’ora in poi lo proteggerò sempre, gli darò da mangiare, e non permetterò mai che soffra il freddo.
Giorno dopo giorno lo difenderò dai nemici che avrà e non lascerò mai affrontare situazioni difficili.
Non permetterò che mio figlio abbia le stesse difficoltà che ho avuto io, non dovrà mai sforzarsi per nessuna cosa.
Come padre, sarò forte come un orso, e con la potenza delle mie braccia lo circonderò, l’abbraccerò e non permetterò mai che niente e nessuno possa turbarlo.”
L’aquila lo ascoltava attonita, senza riuscire a credere a ciò che udiva.

Poi lo guardò e gli disse:

“Ascoltami bene.
Quando la natura mi ha dato l’ordine di covare le mie uova, di costruirmi un nido, confortevole, sicuro, protetto dai predatori, mi ha detto anche di mettere dei rami con molte spine, e sai perché?
Perché quando i miei piccoli saranno forti per volare, farò sparire tutta la comodità delle piume.
Non resistendo sulle spine, si vedranno costretti a costruirsi il proprio nido.
Tutta la valle sarà per loro, a patto che realizzino con i loro sforzi l’aspirazione di conquistarla.
Se li abbracciassi, la loro aspirazione verrebbe frenata, e questo distruggerebbe in maniera irreversibile la loro individualità, ne farebbe degli individui indolenti senza coraggio di lottare, né gioia di vivere.

Prima o poi piangerei per il mio errore,

perché vedrei i miei aquilotti trasformati in ridicoli rappresentanti della loro specie, e mi riempirei di rimorso e gran vergogna nel vedere l’impossibilità di gioire per i loro trionfi.
Io, amico mio,” disse l’aquila, “amo i miei figli più d’ogni altra cosa, però non sarò mai complice della loro superficialità e immaturità!”
L’aquila tacque, poi, con maestosità si alzò in volo per perdersi all’orizzonte.
L’uomo tornandosene a casa, meditò sul terribile errore che avrebbe commesso dando a suo figlio l’abbraccio dell’orso.
Giunto a casa abbracciò il suo bimbo per alcuni secondi, poi si rese conto che il piccolo cominciava a muovere le gambe e braccia come per dimostrare il suo bisogno di libertà, senza che nessun orso protettivo lo ostacolasse.
Da quel giorno l’uomo cominciò a prepararsi per diventare il migliore dei padri.

Brano tratto dal libro “Guida per genitori; PNL con i bambini.” di Eric de la Parra Paz

Il riposino

Il riposino

Un discepolo del maestro Soyen Shaku racconta che, quando erano bambini, il loro maestro era solito fare sempre un riposino dopo pranzo.
Al risveglio i bambini gli chiedevano perché lo facesse e lui rispondeva:

“Vado nel mondo dei sogni a trovare i vecchi saggi, come faceva Confucio!”

Si narra infatti che Confucio sognasse gli antichi saggi prima di parlare ai suoi discepoli.
Un giorno, racconta il discepolo, c’era un caldo terribile e alcuni dei bambini si appisolarono.

Il maestro al risveglio li sgridò ed uno di loro rispose così:

“Siamo andati nel mondo dei sogni a trovare gli antichi saggi proprio come faceva Confucio!”
Allora il maestro li interrogò:
“E che cosa vi hanno detto quei saggi?”

Uno dei piccoli discepoli rispose:

“Siamo andati nel mondo dei sogni, abbiamo incontrato i saggi e domandato se il nostro maestro andava là tutti i pomeriggi, ma loro ci hanno detto di non averlo mai visto!”

Storia Zen
Brano senza Autore, tratto dal Web

Il leone, il moscerino ed il ragno

Il leone, il moscerino ed il ragno

Sulla riva del ruscello, un moscerino minuscolo si era addormentato.
Ma dal profondo della foresta arrivò un ruggito sordo e possente.
Il povero moscerino sì spaventò terribilmente.
Un grande, grosso, grasso leone alla ricerca della cena, ruggiva a pieni polmoni.
Il moscerino gridò indignato:
“Ehilà! La volete smettere?
Cos’è tutto sto trambusto?
Non potete lasciar dormire in pace la brava gente?
Che diritto avete di stare qui?”
Il leone sbuffò:
“Che diritto?
Il mio diritto!

Io sono il re della foresta.

Faccio quello che mi piace, dico quello che mi piace, mangio chi mi piace, vado dove mi piace, perché io sono il re della foresta!”
“Chi ha detto che voi siete il re?” domandò tranquillamente il moscerino.
“Chi l’ha detto?…” ruggì il leone, “Io lo dico, perché io sono il più forte e tutti hanno paura di me.”
“Ma io, tanto per fare un esempio, non ho paura di voi, quindi voi non siete re.”
“Non sono re? Ripetilo se hai coraggio!”.
“Certo, lo ripeto. E non sarete re se non vi battete contro di me e non vincete.”
“Battermi con te?” sbuffò il leone calmandosi un po’.

“Chi ha mai sentito niente di simile?

Un leone contro un moscerino?
Piccolo atomo insignificante, con un soffio ti mando in capo al mondo!”
Ma non mandò niente da nessuna parte.
Ebbe un bel soffiare e sforzarsi con tutta la forza dei polmoni.
Tutto quel che ottenne fu un moscerino che faceva l’altalena sullo stelo d’erba e gridava:
“Sono più forte di voi!
Sono io il re!”
Allora il leone perse definitivamente il senso delle proporzioni e si buttò avanti a fauci spalancate per inghiottire il moscerino, ma inghìotti solo una zolla d’erba.
E l’astuto insettino dov’era?
Proprio in una narice del leone e là cominciò a solleticarlo e punzecchiarlo.
Il leone sbatteva la testa contro gli alberi, si graffiava con i suoi unghioni, strepitava, ruggiva…
“Oh! Il mio naso!
Il mio povero naso!
Pietà!
Esci di lì!
Sei tu il re della foresta, sei tutto quello che vuoi…

Ma esci dal mio naso!” piagnucolò infine il leone.

Allora il moscerino volò fuori dalla narice del leone, che mortificato e umiliato sparì nel profondo della foresta.
Il moscerino cominciò a danzare di gioia:
“Sono il re, re, re, re!
Ho battuto un leone!
L’ho fatto scappare!
Sono il più forte e il più furbo, io!”.
A forza di saltellare, esultando, qua e là, il moscerino non si accorse di essersi avvoltolato in qualche cosa di fine, e di leggero e di forte… dei lunghi fili bianchi, quasi invisibili tra i fili d’erba e che si attorcigliavano intorno al corpo dell’insetto, legando le sue zampe e le sue ali.
Il ragno arrivò sulle sue otto zampe, borbottando:
“Che bello stuzzichino per la cena…”

Grossi o piccoli, i superbi sono sempre stupidi.

Brano tratto dal libro “Ma noi abbiamo le ali.” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

La penitenza del chierichetto (Il sacchetto di fagioli)

La penitenza del chierichetto
(Il sacchetto di fagioli)

Anch’io sono stato chierichetto ed anche molto serio.
Mia mamma era rimasta molto colpita ed era orgogliosa dell’invito che mi aveva fatto il Parroco dell’epoca, Don Mario, per fare il chierichetto e ciò perché noi eravamo una famiglia di immigrati e, l’immigrato in genere, non è da subito ben inserito nella vita del paese.
Un tempo era così, ora la mentalità è più aperta, ma al tempo dovevi avere pazienza.
Allora mia mamma mi manda subito da un’amica sarta, che mi prenda le misure e mi confeziona la vestina del chierichetto.
Nella mia Parrocchia allora i chierichetti indossavano una tunica nera con sopra una cotta bianca
corta.
La sarta era brava e mi confezionò la più bella vestina di tutti gli altri ragazzi, che facevano i chierichetti.
Io ero uno dei più piccoli e dovevo ancora imparare molte cose allora il Parroco mi affidò ad uno più vecchio che mi doveva insegnare i compiti del chierichetto nelle varie cerimonie.

Scoprii allora che i chierichetti non sono tutti uguali:

c’era il turiferario in genere più anziano (si fa per dire) degli altri, che portava il turibolo per porgerlo al celebrante nel momento opportuno per incensare.
Il turiferario è assistito da quello che porta l’incenso dentro la navicella, poi ci sono quelli che portano le torce accese, quelli che seguono la messa, il cerimoniere che dà gli ordini, quelli che accendono e spengono le candele, quelli che rispondono alla Messa.
Insomma molti compiti e per ogni compito serviva una specifica istruzione perché il Parroco era severissimo, non bisognava assolutamente parlare tra noi, né litigare, ecc.
Il Parroco ci chiamava a fare l’istruzione dei chierichetti una volta la settimana e durante le vacanze anche due volte alla settimana.
Lui teneva la conferenza, ci raccomandava il silenzio, la meditazione, le buone letture e poi ci lasciava alle istruzioni pratiche affidate al capo chierichetto più anziano.
Io venni destinato a “rispondere alla messa” ossia alla liturgia della messa domenicale o feriale, ero troppo piccolo, infatti per il turibolo, che era più alto di me ed anche per le candele alle quali non arrivavo nemmeno con lo stoppino acceso lungo venti centimetri.
La Santa Messa era in latino ed io il latino non lo sapevo,

ma il Parroco mi diede il libricino della messa in latino scritto in due caratteri.

Le frasi scritte con caratteri normali le diceva il Parroco o Celebrante mentre le risposte in neretto le dovevo dire io.
Ed io in un lampo imparai tutte le risposte al celebrante in latino anche se non sapevo cosa volessero dire.
L’altare non era rivolto verso il pubblico come ora ma rivolto verso il fondo della Chiesa ed il Parroco dava le spalle al pubblico e la fila dei chierichetti si metteva nel presbiterio alle spalle del celebrante su due file.
Si entrava dalla Sagrestia, genuflessione ai piedi dell’altare poi il Parroco saliva all’altare poggiava il calice, quindi scendeva e mi ricordo ancora le prime frasi della Messa.
Dopo aver recitato in ginocchio il tradizionale:
“In nomine Patris et Filii…… ecc”, il celebrante diceva:
“introibo ad altare Dei.” ed io subito pronto, “Ad Deum qui laetificat juventutem meam.”
Il Parroco celebrante rispondeva:
“Adiutorium nostrum in nomine Domini.” ed io pronto e immediato, “Qui fecit caelum et terram….”
Poi veniva il Confiteor e cosi via.
Ma noi piccoli chierichetti non sapevano il latino e quindi le frasi le troncavamo o non eravamo pronti a rispondere ed allora il Parroco ci riprendeva ed anche ci suggeriva.

Io però più che dal latino ero impacciato con la mia bella tunica.

La prima parte della Messa si diceva tutta in ginocchio.
Il pavimento del presbiterio non era mai stato finito e non aveva il marmo come adesso, ma c’era il cemento grezzo.
Avevo i calzoni corti, mi sollevavo allora la tunica per non rovinarla e mi inginocchiavo sul cemento grezzo, che era fatto tutto di piccoli sassolini che sulle ginocchia nude diventavano dolorose.
Dopo un po’ bruciavano, allora per trovare un riparo arrotolavo la tunica sotto le ginocchia così per un po’ il dolore passava.
Il Parroco se ne accorgeva dei vari spostamenti e movimenti e sommessamente ci invitava a stare fermi.
Tra i chierichetti mi feci notare per la serietà ed allora mi chiamavano soprattutto per i funerali, mentre quelli più vecchi e forse anche un tantino più furbi preferivano i matrimoni.
Chissà perché!
Tra i chierichetti c’era sempre qualche monello.
Qualche carboncino destinato al turibolo prendeva qualche altra strada e poi lo si usava per accendere il fuoco o per bruciare le barbe del granoturco o i semi del fenocio che davano un certo aroma di anice.
Il Parroco però ci diceva, che il chierichetto doveva essere sempre irreprensibile e studioso ed allora invece che mandarci in gita premio, ci mandava a fare gli esercizi spirituali a Villa Immacolata a Torreglia.

Ci andai anch’io, ancora molto piccolo così scoprii cosa fossero questi esercizi spirituali:

silenzio, raccoglimento, preghiera, poco gioco, nessun pallone, meditazione al mattino, meditazione al pomeriggio, silenzio assoluto dopo la cena.
La Messa tutti i giorni poi l’istruzione dei chierichetti per gruppi.
Anche se non si poteva parlare tuttavia conobbi lo stesso un mio coetaneo di una Parrocchia vicina e facemmo subito amicizia perché mi era parso subito molto sveglio.
Mi confidò infatti che nella sua Parrocchia dopo la Messa degli sposi lui andava dai compari degli sposi li salutava e tra un saluto e l’altro diceva loro:
“La settimana scorsa abbiamo fatto un bel matrimonio, ma così bello che ci hanno anche dato una mancia per i chierichetti!”
In genere l’allusione funzionava e subito, anche i nuovi compari, gli sganciavano una bella mancia, che lui raccoglieva diligentemente in una musina per fare una bella gita a fine anno.
Dopo la meditazione sul finire degli esercizi spirituali venne anche la confessione.
Andai a confessarmi da un prete che non conoscevo.

Si dimostrò subito molto severo ed austero.

Come penitenza, dopo la confessione, non mi prescrisse come faceva di solito il mio Parroco di recitare delle preghiere, ma di mettere una manciata di fagioli nelle scarpe e di camminare il giorno dopo con i fagioli dentro alle scarpe.
Mi consegnò infatti un sacchettino piccolissimo con dentro una decina di fagiolini bianchi con l’occhio nero.
Misi i fagioli nelle scarpe come mi aveva detto e poi non riuscivo più a correre perché mi facevano male le piante dei piedi lungo le stradine in salita della Villa Immacolata.
Incontrai il mio nuovo amico e vidi che lui camminava invece spedito e correva senza problemi.
Lo chiamai e gli dissi sottovoce, perché si doveva stare in silenzio:
“Sono andato a confessarmi ed il prete mi ha dato un sacchettino di fagioli da mettere come penitenza nelle scarpe!”
“Anche a me ha dato la stessa penitenza,” mi disse l’amico, “ed anch’io ho messo i fagioli nelle scarpe!”

Ed allora io replicai tutto stupito:

“Come mai tu corri senza problemi ed io ho un male boia alle piante dei piedi?” gli chiesi molto stupito.
E Lui mi rispose sorridendo:
“I fasoi non mi fanno male ai piedi, perché io ieri sera li ho messi a bagno in una tazza di acqua calda.
Il confessore non mi ha detto, infatti, che i fagioli dovevano essere secchi o bagnati e io prima di metterli nelle scarpe li ho messi a bagno.”
Rimasi molto colpito dalla furbata e dissi tra me questo amico si toglie facilmente dai problemi.
Beh stenterete a credere, poi ci perdemmo di vista, ma questo compagno di esercizi spirituali divenne in seguito Direttore di Banca e le rare volte, che andavo nella sua agenzia dicevo a gran voce:
“Direttore mi fanno male i piedi!” e lui replicava:
“Acqua calda e fasoi!”

Brano senza Autore, tratto dal Web

Il saggio e le due donne

Il saggio e le due donne

Due donne si recarono da un saggio, che aveva fama di santo, per chiedere qualche consiglio sulla vita spirituale.
Una pensava di essere una grande peccatrice.
Nei primi anni del suo matrimonio aveva tradito la fiducia del marito.
Non riusciva a dimenticare quella colpa, anche se poi si era sempre comportata in modo irreprensibile, e continuava a torturarsi per il rimorso.
La seconda invece, che era sempre vissuta nel rispetto delle leggi, si sentiva perfettamente innocente e in pace con se stessa.

Il saggio si fece raccontare la vita di tutte e due.

La prima raccontò tra le lacrime la sua grossa colpa.
Diceva, singhiozzando, che per lei non poteva esserci perdono, perché troppo grande era il suo peccato.
La seconda disse che non aveva particolari peccati da confessare.
Il sant’uomo si rivolse alla prima:
“Figliola, vai a cercare una pietra, la più pesante e grossa che riesci a sollevare e portamela qui!”
Poi, rivolto alla seconda:
“E tu, portami tante pietre quante riesci a tenerne in grembo, ma che siano piccole.”
Le due donne sì affrettarono a eseguire l’ordine del saggio.
La prima tornò con una grossa pietra, la seconda con un’enorme borsa piena di piccoli sassi.

Il saggio guardò le pietre e poi disse:

“Ora dovete fare un’altra cosa:
riportate le pietre dove le avete prese, ma badate bene di rimettere ognuna di esse nel posto esatto dove l’avete presa.
Poi tornate da me.”
Pazientemente, le due donne cercarono di eseguire l’ordine del saggio.
La prima trovò facilmente il punto dove aveva preso la pietrona e la rimise a posto.
La seconda invece girava invano, cercando di ricordarsi dove aveva raccattato le piccole pietre della sua borsa.
Era chiaramente un compito impossibile e tornò mortificata dal saggio con tutte le sue pietre.

Il sant’uomo sorrise e disse:

“Succede la stessa cosa con i peccati.
Tu,” disse rivolto alla prima donna, “hai facilmente rimesso a posto la tua pietra perché sapevi dove l’avevi presa:
hai riconosciuto il tuo peccato, hai ascoltato umilmente i rimproveri della gente e della tua coscienza, e hai riparato grazie al tuo pentimento.
Tu, invece,” disse alla seconda, “non sai dove hai preso tutte le tue pietre, come non hai saputo accorgerti dei tuoi piccoli peccati.
Magari hai condannato le grosse colpe degli altri e sei rimasta invischiata nelle tue, perché non hai saputo vederle!”

Brano di Bruno Ferrero

La ricerca di Dio

La ricerca di Dio

Tre giovani avevano compiuto diligentemente i loro studi alla scuola di grandi maestri.
Prima di lasciarsi fecero una promessa:
avrebbero percorso il mondo e si sarebbero ritrovati, dopo un anno, portando la cosa più preziosa che fossero riusciti a trovare.
Il primo non ebbe dubbi:
partì alla ricerca di una gemma splendida ed inestimabile.
Attraversò mari e deserti, salì sulle montagne e visitò città fino a quando non l’ebbe trovata:

era la più splendida gemma che avesse mai brillato sotto il sole.

Tornò allora in patria in attesa degli amici.
Il secondo tornò poco dopo tenendo per mano una ragazza dal volto dolce ed attraente.
“Ti assicuro che non c’è nulla di più prezioso di due persone che si amano!” disse al primo amico. Si misero ad aspettare il terzo.
Molti anni passarono prima che quest’ultimo arrivasse.
Era infatti partito alla ricerca di Dio.
Aveva consultato i più famosi maestri di spiritualità esistenti sulla terra, ma non aveva trovato Dio.
Aveva studiato e letto, ma senza trovare Dio.

Aveva rinunciato a tutto, ma non era riuscito a trovare Dio.

Un giorno, stremato per il tanto girovagare, si abbandonò nell’erba sulla riva di un lago.
Incuriosito seguì le affannate manovre di un’anatra che in mezzo ai canneti cercava i suoi piccoli, che si erano allontanati da lei.
I piccoli erano numerosi e vivaci, e sino al calar del sole l’anatra cercò, nuotando senza sosta tra le canne.
Proseguì instancabile riconducendo sotto la sua ala fino all’ultimo dei suoi nati.
Allora l’uomo sorrise e decise di ritornare al paese.
Quando gli amici lo rividero, uno gli mostrò la gemma e l’altro la ragazza che era diventata sua moglie.
Poi, pieni di attesa, gli chiesero:
“E tu, che cosa hai trovato di tanto prezioso?

Deve essere qualcosa di magnifico se hai impiegato tanti anni.

Lo vediamo dal tuo sorriso…”
“Ho cercato Dio.” rispose il giovane.
“E lo hai trovato?
È per questo che hai impiegato così tanto tempo?” chiesero i due, sbalorditi.
“Sì, l’ho trovato.
E se ho impiegato tanto tempo era perché commettevo l’errore di andare a cercare Dio, mentre in realtà, era Lui che stava cercando me.”

Brano senza Autore, tratto dal Web

La festa degli animali

La festa degli animali

In un paese lontano abitato solo da animali, era tradizione che una volta ogni dieci anni ci fosse la festa delle pecore e degli animali più indifesi e piccoli.
Da immemorabile tempo in quel giorno si sospendeva la ferrea legge della giungla e ogni animale, specialmente quelli delle categorie più pericolose, faceva del suo meglio per assumere un aspetto più mansueto:
i leoni andavano dal barbiere a tagliarsi un po’ la folta criniera,

i montoni a radersi la barba e le tigri si dipingevano gli occhi per apparire più dolci.

Solo alcuni lupi non facevano niente per favorire la festa; rimanevano ai lati apparentemente indifferenti, emarginati dagli altri, guardati a vista dai tutori dell’ordine perché erano sempre pronti ad approfittare della confusione per fare qualche ruberia o peggio ancora per azzannare qualcuno.
Nel giorno della festa, gli uccelli, le pecore, gli animali più mansueti, le scimmie e persino molti innocui serpenti e soprattutto i cuccioli di tutte le razze, anche quelle più feroci, erano i veri protagonisti delle danze e dei giochi.
Potevi trovare il cucciolo di leopardo giocherellare con la piccola antilope e anche i piccoli lupi tentare di scherzare con alcune ritrose e timide agnelline.

Sembrava un paradiso!

Però se qualcuno fosse stato capace di scendere fino al cuore di ogni animale durante la festa, avrebbe percepito per esempio che la leonessa si annoiava da morire:
aveva portato i cuccioli a divertirsi, però guardava gli altri animali giudicandoli secondo il suo istinto e le veniva una voglia matta di dare un’artigliata al primo capretto che le fosse capitato tra le zampe, tuttavia si tratteneva dal farlo, ritenendosi in ciò un po’ eroica, pensando che in fondo era solo questione di ore e che bastava attendere il termine del giorno per ritornare alla normalità della vita.
La gazzella, animale grazioso ma anche civettuolo, era desiderosa di sfuggire dal gruppo per brucare la sua erba preferita in solitudine e in santa pace.

Persino la pecorella ormai adulta,

aveva sentimenti di superiorità, sentendosi anche lei un po’ forte e potente solo perché poteva stare accanto, senza pericolo, al possente re della foresta, e guardava con occhi golosi di invidia il leone che sembrava vivere la vita più di lei piena di complessi e moralismi.
Solo i cuccioli spensierati, non avevano problemi; li avrebbero avuti ben presto!
Quando il giorno dopo vollero andare a continuare la festa, ignari delle differenze e delle distinzioni, i genitori nelle loro tane o covi, si studiarono bene di raccomandare loro con estrema serietà che la pecora non deve andare col lupo e che il leone deve sempre avere ragione e dominare…
E tante cose di questo genere e che l’obbedienza a tutto ciò è una grande virtù, perché fa stare ognuno al suo posto.

Così va il mondo!

Il bene è una povera eccezione in confronto del male che viene fatto passare per concretezza e saggezza di vita:
chi dice il contrario è sempre giudicato un illuso! (Pensare bene per credere!)

Brano senza Autore, tratto dal Web