Il pianto dell’ardito

Il pianto dell’ardito

Da ragazzo conobbi un vero ardito (specialità dell’arma di fanteria del Regio Esercito italiano durante la prima guerra mondiale, ndr).
Gli arditi, come detto, erano soldati d’assalto organizzati in truppe speciali, che vennero riorganizzate dopo la disfatta di Caporetto.
Le loro gesta temerarie sono riportate nelle pagine dei libri di storia.
Questo signore in paese era rispettato, ma anche temuto, perché considerato “un matto di guerra”, categoria di reduci tornati con gravi disturbi, per via delle brutture e degli orrori della guerra.

Mio padre era un suo carissimo amico e,

vedendolo nel suo campo a regolare l’essiccazione del fieno, si fermò a salutarlo.
Per me era un vero piacere sentirli discorrere serenamente.
All’improvviso sul monte Grappa si formarono dei nuvoloni minacciosi che avanzarono in un baleno, oscurando il cielo con lampi, fulmini e roboanti tuoni.
Il nostro ardito, vedendo questa scena, cambiò completamente atteggiamento e, immaginando di essere ancora sul fronte in mezzo al fragore della battaglia, prese la forca infilzando i mucchi di fieno, simulando di avere il fucile con la baionetta innestata, gridando a squarciagola:

“Savoia …Savoia….”

Inoltre prendeva dei sassi lanciandoli a mo di bombe a mano, correndo avanti e indietro come un forsennato.
Alle prime gocce di pioggia si fermò all’istante, abbracciò mio padre e, piangendo come un bambino, mormorò:
“Aiuto! Mamma” Non voglio morire, sta arrivando il gas!”

Fu difficile calmarlo, poiché tremava tutto.

Dopodiché, con mio padre lo accompagnammo a casa sua.
Mio padre mi raccontò che portava la mantella militare nel mese di agosto e che beveva solo dalla sua borraccia di ordinanza anche all’osteria, ma che tutto ciò non fosse tutta colpa sua; questo accadeva a causa di ciò che aveva visto durante la guerra.
Per queste ragioni era doppiamente eroe, non solo per le medaglie ricevute ma per non essere capito dell’immane tragedia che lo aveva coinvolto e che lo aveva segnato per sempre nell’anima.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Un vigile mitico

Un vigile mitico

Tanti anni fa chi ritornava in pianura dalle Dolomiti, soprattutto di domenica sul far della sera, si trovava incolonnato in una lunga coda di macchine.
Questo accadeva prima che venisse costruita una super strada di svincolo, ad un incrocio con semaforo, proprio al centro abitato del noto comune trevigiano di Cornuda.
Il super traffico era smistato da un vigile noto e stimato per essere ligio e inflessibile nel svolgere il suo lavoro,

tanto da aver multato sua moglie per avere troppe borse della spesa sul manubrio della bicicletta.

Ad ogni infrazione amava sciorinare i vari articoli con i comma del codice della strada che per lui rappresentavano la Bibbia.
Una domenica sera, in cui vi era tantissimo traffico con andamento a passo d’uomo, una macchina blu targata Roma, sorpassando altre vetture, ignorò volutamente il semaforo rosso.
Il nostro vigile con uno scatto si mise davanti all’auto e, con fischietto e paletta, fermò la vettura.
Il conducente era un noto politico locale che, abbassando il finestrino, disse seccato:

“Lei non sa chi sono io!

Vuole che le dica i miei incarichi e le mie onorificenze?
La consiglio di lasciarmi andare se non vuole grane!”
Il vigile pronto, e per niente intimorito, rispose:
“Io so chi è lei, visto che ho anche votato (per lei), ma in questo caso quando soffio io (disse in verità “subio” in dialetto Veneto) fischia la legge ed è meglio che con patente e libretto accosti e paghi l’infrazione.

I presenti, che stupiti assistettero alla scena,

applaudirono fragorosamente il vigile e gridarono “Bravo!”
Il suo gesto divenne leggendario e fu ricordato soprattutto quando scoppiò Tangentopoli!
Prima dei giudici di Mani Pulite, l’onorevole in questione fu fermato e sanzionato da un vigile che era imparziale con tutti in nome della democratica legge.
Il vigile si chiamava Nazareno Botega e non deve essere come l’Innominato del Manzoni ma bensì citato e ricordato con il suo nome a futura memoria.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il ragazzo ed i sacchetti sulla mongolfiera

Il ragazzo ed i sacchetti sulla mongolfiera

Desidero raccontarvi la storia di un ragazzo che abita tuttora in un bellissimo paese di montagna, dove tutti si conoscono e si vogliono bene.

Questo ragazzo crebbe in una buona famiglia, onesta e lavoratrice, amato e forse anche un pochino viziato.
Frequentò la scuola elementare e la scuola media nel suo paese e, al momento di passare alla scuola superiore ed all’università, si trasferì in una città lontana dal proprio paese e dalla sua famiglia.

Da quel momento cominciarono i suoi guai.

Conobbe ed iniziò a frequentare brutte compagnie che lo portarono a commettere fatti gravi come:
bere, drogarsi, rubare, bestemmiare, mentire, non avere cura di nessuno.
Pensate al dolore dei genitori che, per farlo studiare, dovevano, con tanti sacrifici, sostenere molte spese.
Durante una rapina il ragazzo fu riconosciuto dai poliziotti, ma riuscì a fuggire.
E dove si nascose?
Ovviamente ritornò al suo paesello, di notte, in modo che nessuno lo potesse vedere.
In quel periodo nel paese si festeggiava la Santa Patrona e per l’occasione gli abitanti avevano fatto arrivare una bellissima mongolfiera, che era stata ancorata in uno spiazzo all’entrata del paese fuori dal centro.
Il ragazzo decise di nascondersi lì, con la speranza di poter scappare facendola volare.
Si accorse però che tutto ciò non era possibile, dato che la mongolfiera, essendo piena di sacchetti di sabbia, con il solo gas non riusciva a sollevarsi.

Passò la notte a meditare.

Sconsolato, si ricordò dei bei giorni passati con la sua famiglia.
Capii come il suo cattivo comportamento fu un grande dolore per i suoi genitori, per gli insegnanti, per il parroco, per la sua catechista e per tutti i suoi amici.
Insomma aveva fatto soffrire un sacco di persone.
Si ricordò che al catechismo gli avevano detto che il Signore è misericordioso con chi si pente.
Collegò i suoi errori con ogni sacchetto di sabbia che si trovava sulla mongolfiera e cominciò a promettere:
“Non mi ubriacherò più!” e dicendo questo, prese un sacchetto e lo buttò fuori.
“Non mi drogherò più!” ed un altro sacchetto fuori, “Non ruberò più!” e fuori un altro sacchetto. “Mi farò trovare dai poliziotti così sconterò la mia pena!” e lanciò un altro sacchetto.
Così, di seguito, elencò tutti i suoi errori chiedendo perdono ma in questo modo liberò di tutti i sacchetti.

Si accorse che, piano piano, la mongolfiera incominciava a salire.

Poco dopo i poliziotti lo scoprirono e lo arrestarono.
Il ragazzo, però, ebbe il tempo di chiedere perdono ai suoi genitori e a tutto il paese.
Perdono che, ovviamente, ottenne.

Brano senza Autore

L’imperatore e la futura imperatrice

L’imperatore e la futura imperatrice

Quando l’imperatore morì, il giovane principe si preparò, con un po’ di apprensione, a prenderne il posto.
Il precettore saggio ed anziano gli disse:
“Hai bisogno di un aiuto, subito.

Prima di salire sul trono scegli la futura imperatrice, ma fa’ attenzione:

deve essere una fanciulla di cui puoi fidarti ciecamente.
Invita tutte le fanciulle che desiderano diventare imperatrice, poi ti spiegherò io come trovare la più degna.”
La più giovane delle sguattere della cucina reale, segretamente innamorata del principe, decise di partecipare.
“So che non verrò mai scelta, tuttavia è la mia unica opportunità di stare accanto al principe almeno per alcuni istanti, e già questo mi rende felice.” pensava.
La sera dell’udienza, c’erano tutte le più belle fanciulle della regione, con gli abiti più sfarzosi, i gioielli più ricchi.

Circondato dalla corte, il principe annunciò i termini della competizione:

“Darò un seme a ciascuna di voi.
Colei che mi porterà il fiore più bello, entro sei mesi, sarà la futura imperatrice.”
Quando venne il suo turno, la fanciulla prese il seme, un minuscolo granello scuro e lo portò a casa avvolto nel fazzoletto.
Lo interrò con cura in un vaso pieno di ottima terra soffice e umida.
Non era particolarmente versata nell’arte del giardinaggio, ma riservava alla sua piccola coltivazione un’enorme pazienza e un’infinita tenerezza.
Ogni mattina spiava con ansia la terra scura, in cui sperava di veder spuntare lo sperato germoglio.
I sei mesi trascorsero, ma nel suo vaso non sbocciò nulla.
Arrivò il giorno dell’udienza.
Quando raggiunse il palazzo con il suo vasetto pieno solo di terra e senza pianta, la fanciulla vide che tutte le altre pretendenti avevano ottenuto buoni risultati.
Il principe entrò e osservò ogni ragazza con grande meticolosità e attenzione.

Passò davanti ad ognuna.

I fiori erano davvero splendidi.
Guardò anche la sguattera che non osava alzare gli occhi e quasi nascondeva il suo vasetto mestamente vuoto.
Dopo averle esaminate tutte, il principe si fermò al centro del salone e annunciò il risultato della gara:
“La nuova imperatrice, mia sposa, è questa fanciulla.”
Quasi si sentiva, nel silenzio profondo, il battito all’unisono di tutti i cuori.
Senza esitazione il principe prese per mano la giovane sguattera.
Poi chiarì la ragione di quella scelta.
“Questa fanciulla è stata l’unica ad aver coltivato il fiore che l’ha resa degna di diventare un’imperatrice:
il fiore dell’onestà.
Tutti i semi che vi ho consegnato erano solo granelli di legno dipinto, e da essi non sarebbe mai potuto nascere nulla!”

Brano tratto dal libro “I fiori semplicemente fioriscono” di Bruno Ferrero. Edizione ElleDiCi.

L’eredità: 17 diviso 3

L’eredità: 17 diviso 3

I tre figli di un ricco mercante arabo ricevettero in eredità dal padre 17 cammelli da ripartire tra loro nel seguente modo:
metà al primo, un terzo al secondo e un nono al terzo.
La spartizione sembrò impossibile da effettuare senza tagliare in varie parti almeno un cammello.
Il tre ragazzi allora decisero di rivolgersi ad un saggio giudice.

Egli rispose:

“La divisione è semplice e sarà fatta equamente.
Permettete che aggiunga un altro cammello ai vostri.
In questo modo disporremo di 18 cammelli!”
Il giudice si rivolse al primogenito:
“Secondo la volontà di tuo padre, tu che sei il più vecchio avresti dovuto ricevere la metà di 17 cammelli, cioè 8 e mezzo.
Ti do invece la metà di 18 cammelli, cioè 9!”

Poi, rivolgendosi al secondogenito disse:

“A te spetterebbe un terzo dell’eredità che equivale a 5 cammelli più qualcosa ma io ti do un terzo di 18, cioè 6 animali!”
E al più giovane spiegò:
“Ti toccherebbe un nono dell’eredità, cioè un cammello più un pezzo ed invece eccotene due interi!”

Alla fine aggiunse:

“Ora possiamo restituire al proprietario il cammello preso in prestito.
Con questa divisione avete guadagnato tutti più di ciò che aspettavate.
Eppure sono stati eseguiti in modo preciso gli ordini di vostro padre!”

Brano senza Autore

Il saggio maestro ed il professore

Il saggio maestro ed il professore

Un saggio maestro giapponese, noto per la saggezza delle sue dottrine, ricevette la visita di un dotto professore di università, che era andato da lui per interrogarlo sul suo pensiero.

Il saggio maestro, secondo l’usanza, prima di tutto servì il the:

cominciò a versarlo, colmando la tazza del suo ospite, e poi continuò a versare tranquillamente, con una espressione serena e sorridente.
Il professore guardava il the traboccare, ed era talmente stupito, da non riuscire a chiedere spiegazione di una distrazione così contraria alla norme della buona educazione.
Ad un certo punto non riuscì più a contenersi ed esclamò spazientito:

“È ricolma!

Non ce ne sta più!”
“Come questa tazza,” disse il saggio imperturbabile, “tu sei ricolmo della tua cultura, delle tue sicurezze, delle tue congetture erudite e complesse.
Ed allora, come posso parlarti della mia dottrina, che è comprensibile solo alle anime semplici e aperte, se prima non vuoti la tua tazza?”

Storia Zen.
Brano di Nyogen Senzaki

La dieta della bellezza

La dieta della bellezza

C’erano una volta, in un paese orientale, due bellissime sorelle.
La prima sorella andò sposa al re, la seconda ad un mercante.
Con il passare del tempo, però, la moglie del re si era fatta sempre più magra, sciupata e triste.
La sorella, che viveva con il mercante accanto al palazzo reale, pareva farsi più bella ogni giorno che passava.

Il sultano convocò il mercante nel suo palazzo e gli chiese:

“Come fai?”
“È semplice:
nutro mia moglie di lingua!”
Il sultano diede ordine di preparare quintali di lingua di montone, di cammello, di canarino per la dieta della moglie.

Ma non successe niente.

La donna era sempre più smunta e malinconica.
Infuriato, il re decise di far cambio.
Mandò la regina dal mercante e si prese in moglie la sorella.
Nella reggia però, la moglie del mercante, diventata regina, sfiorì rapidamente.
Mentre la sorella, a casa del mercante, in poco tempo ridivenne bella e radiosa.

Il segreto?

Ogni sera il mercante e sua moglie parlavano, si raccontavano storie e cantavano insieme.

Brano tratto dal libro “C’è qualcuno lassù.” di Bruno Ferrero. Edizioni ElleDiCi.

Mangia Regolato

Mangia Regolato

Diversi anni fa, un uomo di mezza età, dopo le continue insistenze da parte dei propri famigliari, si rivolse al medico di famiglia per accertamenti, dato che spesso era affaticato senza motivo.
Accettò di buon grado, anche perché il dottore era il suo compagno per lo scopone al caffè del paese.

La visita fu accurata e minuziosa.

Accertata la non presenza di alcuna patologia in atto, il dottore non ordinò nessun farmaco riscontando che l’unico problema dell’uomo fosse l’essere in sovrappeso.
Gli ordinò di astenersi da cibi troppo grassi e, scandendo le parole, gli disse:
“Amico mio, mangia regolato, mi raccomando!
Per amor di Dio!

Torna fra due, tre mesi, sperando che tutto si sia risolto.”

Passato il periodo, l’uomo ritornò dal medico lamentandosi per il perdurare dei sintomi di stanchezza ed eccessiva sudorazione, a cui si univano la difficoltà nel respirare e qualche kilo in più.
Il medico gli rispose perplesso:
“Ti avevo caldamente raccomandato di mangiare regolato!”

La risposta del paziente fu:

“Io Regolato lo ho mangiato tutto, sapendo che la carne equina fa molto bene per le sue proprietà!
Mi è dispiaciuto molto perché era il mio unico mulo e mi ero anche affezionato a lui, per la sua indole docile.
Valeva pure un capitale per la sua mole; ci ho pure pianto e vinto un tabù, ma per la salute…”

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Mangiate Porci!

Mangiate Porci!

Una contadina allevava nella sua fattoria diversi animali da reddito.
Dedicava le sue cure principalmente ai maiali, che nutriva per lo più con delle buone patate.
Lavorava molto, per riuscire a riscattare il terreno che aveva in comodato d’uso.
Il terreno apparteneva ad alcuni suoi parenti emigrati che, oltre al terreno, le avevano dato anche una porzione di casa.
La cura per i maiali era quasi maniacale e, dato che li voleva belli grassi in poco tempo, ogni volta che dava loro da mangiare, ripeteva continuamente:

“Mangiate porci, che mi fatte ricca!”

Alcuni anni dopo, i parenti emigrati ritornarono per sistemare gli affari di famiglia.
La loro intenzione, riguardo la contadina, era quella di farle una donazione avendo trovato una inaspettata fortuna all’estero, con una unica clausola:
quella di restaurare un vecchio capitello con Madonna e Bambino, di antica devozione, situato all’ingresso della proprietà.
Per sancire il buon, nonché vantaggioso, accordo, la nostra brava contadina fece per i ricchi parenti un lauto banchetto all’aperto sull’aia, avendo cura di proporre loro i piatti della tradizione, dato che questi ne avevano nostalgia.

Tutto fu curato nei minimi dettagli e le portate ebbero successo.

La brava contadina, però, cucinò troppo, infatti i commensali cominciarono a rifiutare le portate.
Tutti questi rifiuti iniziarono a preoccupare la contadina, che presa dal panico per la paura che l’accordo non fosse ratificato, alla portata delle patate, ripeté quella frase che meccanicamente diceva ai suoi maiali:

“Mangiate porci, che mi fatte ricca!”

Inutili furono la scuse e le spiegazioni.
I parenti non ratificarono più l’accordo verbale e se ne andarono via indignati.
“Mai mischiare la cura ed il pensiero rivolto agli animali con quello rivolto ai buoni cristiani!” fu la conclusione amara della nostra buona donna.

Brano di Dino De Lucchi
© Ogni diritto sul presente lavoro è riservato all’autore, ai sensi della normativa vigente.
Revisione del racconto a cura di Michele Bruno Salerno

Il mendicante ed il prete

Il mendicante ed il prete

Un uomo mendicava da 25 anni davanti ad una chiesa.
Si era fatto amico anche del prete che celebrava lì.
Il sacerdote sapeva che cosa significa “sofferenza”:
era rimasto senza famiglia a 10 anni; i suoi genitori e familiari erano stati tutti trucidati durante la guerra.

Ma da qualche giorno il mendicante era sparito.

Il sacerdote lo andò a cercare; lo trovò morente in una catapecchia abbandonata.
Fu allora che il povero mendicante supplicò:
“Padre, ho un peso da confessare prima di morire:
tanti anni fa ero a servizio da un’ottima famiglia.
Marito, moglie, la figlia e, soprattutto il figlio ancor fanciullo, mi volevano molto bene.
Io ero povero; attratto dal desiderio di venire in possesso di tutti i beni di quella famiglia, dissi che erano partigiani:

furono uccisi.

Solo il figlio piccolo riuscì a fuggire.
Con l’ingiusta eredità divenni ricco, mi diedi a tutti i piaceri, sperperai tutto, ma non riuscii a dimenticare l’enorme delitto…
Ora sono pentito.
Ma è tardi per ricevere il perdono di Dio!”
Mentre il povero penitente si confessava, a poco a poco, ritornava alla mente del sacerdote confessore la storia della sua famiglia.

Alla fine fu colpito al cuore da una lucida conclusione:

quell’uomo era l’assassino dei suoi e il dilapidatore dei beni della sua famiglia!
Scoppiò allora una furiosa battaglia nel suo cuore tra il perdono e il desiderio di giustizia.
Dopo alcuni istanti d’una tremenda lotta, che gli rigò il viso di sudore e di lacrime, alzò la mano sacerdotale e disse:
“In nome di Dio e mio ti perdono tutto!”

Brano senza Autore.